A venticinque anni dalla scomparsa, Alberto Giacometti sembra avviato a diventare un personaggio leggendario. La sua figura di artista si mescola a quella dell’ uomo dello studio in terra battuta di Rue Hippolyte-Maindron 46, del frequentatore dei bistrot di Montaparnasse, amico di prostitute e di filosofi, interlocutore di scrittori come Jean Genet, Jean-Paul Sartre, Samuel Beckett, ma anche quella del giovane surrealista le cui sculture mobili suscitarono negli anni ‘ 30 l’ entusiasmo di Breton e di Dalì, immortalato, nel corso della sua vita, da celebri fotografi, da Man Ray a Cartier-Bresson.
La leggenda sembra precederlo, sino a fare il maledetto, il diverso da seppellire fuori dalle mura della città, prima, e da idolatrare con grandi mostre internazionali, poi. Ma come ogni leggenda che si rispetti, anche quella di Alberto Giacometti ha già un suo falso mito, quello “esistenzialista” dell’ autore della solitudine dell’ uomo, del disagio della civiltà, come sono state, in passato, classificate, con sconcerto dell’ artista stesso, le sue sculture filiformi, le foreste di uomini e donne, le figurine minuscole su di uno zoccolo di bronzo.
Il mito di Giacometti ha tuttavia un suo fondamento di complicità nel modo stesso in cui egli guardò all’arte, alla propria e a quella degli altri - pochi artisti hanno scritto con così grande attenzione del lavoro degli altri, delle opere del passato come di quelle contemporanee. «L’arte mi interessa molto, ma la verità mi interessa infinitamente di più», affermò in più di un’ occasione. Quella verità non è un valore metafisico, ma ciò che tiene legate insieme l’arte e la realtà, l’opera e la vita. Il tema della rassomiglianza è centrale nell’ opera di Giacometti, non nel senso figurativo del termine, ma in quello della verità della visione, cosa che un filosofo attento come Merleau-Ponty seppe capire - le doute de Giacometti, dopo quello di Cézanne. Artista tutt’altro che ingenuo o sprovveduto, filosofo, prima ancora che scultore e pittore, Giacometti ha indagato il problema della visione con una lucidità e un’ insistenza che pochi possono vantare, come si comprende leggendo le sue conversazioni con Georges Charbonnier e con gli altri numerosi intervistatori.
La ricerca di Giacometti si spinge fino alle soglie dell’inconnu, l’ignoto, lo sconosciuto che occorre scolpire nel noto, nel vuoto. Avanzare sempre, diceva Giacometti, anche di pochissimo, ma «avanzare ogni giorno». Nella parola da lui usata, avance, è compreso sia l’ atto di avanzare che l’avanzo, il resto e lo scarto, sia il prestito che l’anticipo e il vantaggio, e ancora le avances, gli approcci, il tastare delle mani sulla creta e il gesso, e persino l’ offerta e il voto (il senso rituale dell’ attività notturna di Giacometti, là, nello studio di Rue Hippolyte-Maindron 46).
Leggendo gli Ecrits, da poco editi a Parigi dall’editore Hermann, che comprendono gli scritti di Giacometti apparsi su riviste e cataloghi dagli anni ‘30 all’anno della sua morte a Coira, nel 1966, e insieme i "Carnet”, gli appunti e gli abbozzi inediti, ci si rende subito conto dell’importanza della riflessione di questo artista, del notevole valore poetico delle parole e dichiarazioni, in cui la biografia si mescola all’attività artistica vera e propria, spesso senza grandi cesure. L’insistenza sul tema autobiografico, sull’ossessione della morte è centrale per la comprensione di un’opera che, come poche altre, ha demolito l’idea tradizionale della scultura, la presunzione di raffigurare senza difficoltà, così come li si vedono, la testa e il corpo dell’uomo - il suo braccio, la gamba, il naso - nella creta e nel bronzo. Si potrebbe dire che Giacometti, alla pari maggiori artisti di questo secolo, ha scolpito la potenza del non-scolpire, l’impotenza di "fare una testa" è diventata la potenza suprema della sua arte. In questo senso, come ha scritto Reinhold Hohl, egli non ha avuto continuatori, bensì imitatori.