Sono trascorsi trent’anni dalla scomparsa di Alberto Giacometti e il suo nome è ormai diventato leggendario. La sua figura di artista si mescola a quella dell’uomo che abitava il provvisorio studio di Rue Hippolyte-Maindron 46, al frequentatore dei bistrot di Montaparnasse, amico di prostitute e filosofi, interlocutore di scrittori come Genet, Sartre, Beckett, ma anche a quella del giovane surrealista le cui sculture suscitarono negli anni ’30 l’entusiasmo di Breton e Dalì, prima che voltasse di colpo le spalle a quell’esperienza e tornasse in totale solitudine, lontano da mercanti e galleristi, alla ricerca da cui era partito. Il suo volto, sofferto e insieme antichissimo, lo ritroviamo immortalato nel corso della sua vita da Man Ray, da Cartier-Bresson, da amci fedeli come Elie Lotar o Ernst Scheidegger, che ha testimoniato, con grande pudore visivo i mille dettagli dello studio parigino, gli amici, i bistrot, ma anche l’intimità della casa materna in Val Bregaglia.
La leggenda sembra precedere Giacometti, facendo di lui il «maledetto», il «diverso», da seppellire, come si faceva un tempo, fuori dalle mura della città, prima, e l’artista di successo da idolatrare in grandi mostre internazionali, poi. Ma come ogni leggenda che si rispetti, anche quella di Giacometti ha già i suoi falsi miti, quello dello scultore «esistenzialista», dell’autore della solitudine dell’uomo, che si fatica a staccare da lui, anche dopo che sono stati raccolti e editi i suoi Scritti, o dopo la pubblicazione degli studi di Reinhold Hohl (Losanna 1971) e Yves Bonnefoy (Parigi 1992, tr. It. Milano 1992), che hanno evidenziato la complessità del suo lavoro, inoltrandosi nei labirinti del suo percorso creativo.
Il mito di Giacometti ha tuttavia un suo fondamento di complicità nel modo stesso in cui egli guardò all’arte; pochi artisti hanno infatti scritto con così grande attenzione del proprio lavoro e di quello degli altri, delle opere del passato come di quelle contemporanee, tanto che non si può fare a meno di parlare di un Giacometti scrittore accanto allo scultore, al disegnatore e al pittore.
«L’arte mi interessa molto, ma la verità mi interessa infinitamente di più», affermò in più di un’occasione ai suoi interlocutori. Quella verità di cui parlava nelle numerose interviste non è propriamente un valore metafisico, ma ciò che tiene legate insieme l’arte e la realtà, l’opera e la vita. Il tema della somiglianza è dunque centrale nel suo lavoro artistico, non nel senso figurativo del termine, ma in quello della verità della visione. Artista tutt’altro che ingenuo o sprovveduto, Giacometti è stato, a suo modo, un filosofo, indagando il tema della visione con una lucidità e una insistenza che hanno pochi precedenti nell’arte occidentale, come si comprende leggendo le numerose conversazioni pubblicate nel corso della sua vita e che costituiscono una parte integrante del suo lavoro.