Molti ricorderanno lo splendido racconto di Edgar Allan Poe La lettera rubata. Il suo nucleo narrativo era centrato su un semplicissimo fatto: una preziosa lettera era stata rubata dalla scrivania di un influente personaggio e non c’era verso di ritrovarla. Dopo una serie di ricerche e di perquisizioni, ecco il colpo di scena: la lettera si trovava nella stanza, dalla quale, perciò, non era mai sparita. Eccola lì, esposta alla vista di chiunque, pendente dal caminetto per mezzo di un nastro turchino appeso ad un chiodo.
La lettera rubata è stata sottratta per essere mostrata nella sua più elementare posizione di visibilità: è scomparsa nel momento in cui il ladro-burlone ha deciso di renderla evidente.
Cosa c’entra tutto ciò con il secondo numero di Riga: «Leggere e Scrivere»? C’entra con il fatto che qui si è inteso indagare intorno a due forme intrecciate di una sparizione che mettiamo continuamente in atto proprio nel momento in cui le esercitiamo: appunto, l’esercizio, la pratica del leggere e dello scrivere. Quando pratichiamo la lettura e la scrittura, lo facciamo, innanzi tutto e per lo più, senza pensare a cosa esse propriamente «fanno» e a come esse appaiono; non ci soffermiamo sull’inchiostro che verga la pagina bianca o sui caratteri che scorriamo diligentemente sul foglio di un libro. Semplicemente essi ci appaiono come mezzi di comunicazione, intendendo con ciò che il mezzo e ciò che con esso si comunica sono due dimensioni ben distinte; insomma, la storia è ancora quella bimillenaria della forma (scrittura/lettura) e del contenuto (il pensiero).
Eppure, come nel racconto di Poe, scrittura e lettura sono lì a dirci che, forse, il rapporto tra mezzo e pensiero è molto meno contorto di quanto si possa supporre. Scrivere e leggere, infatti, sono pratiche, saperi con proprie leggi e caratteristiche: scrivere, ad esempio, non significa immediatamente scrivere in senso alfabetico, bensì significa segnare il mondo e aprirlo così al significato; la scrittura che, noi Occidentali, pratichiamo ogni giorno è solo un frutto relativamente tardivo, che ha dietro di sé scritture, grafie assai differenti; stavamo per dire (scrivere!) che la scrittura, così come oggi la pratichiamo noi, è un frutto tardivo della civiltà occidentale, ma non è la civiltà occidentale con il suo pensiero logico e la sua tecnica, a creare la scrittura, ma viceversa la scrittura e la lettura alfabetiche sono un fondamento essenziale della nostra civiltà. La scrittura e la lettura sono la lettera rubata dell’Occidente, che i vari Dupin di questo numero hanno cercato di ritrovare guardandole farsi lettera, grafia e lettura, e mostrandole nella loro elementare inevitabilità.
Mantenendo la struttura del primo numero, anche il presente si apre con alcuni interventi di impianto narrativo: Péter Esterhàzy, in un’intervista immaginaria, tanto vorrebbe de-scrivere la propria reale figura di scrittore, quanto non può che inciampare nell’impossibilità di darne una; Gianni Celati insinua nella scrittura un sospetto di malattia per l’inesaudibilità del desiderio di essere compresi; Marco Belpoliti mette in scena una chiarissima metafora della scrittura che si conclude con la ribellione alla dettatura.