Tutti si sono imbattuti in questa immagine, che può lasciare interdetti. Con una sola linea ininterrotta e un punto si dà vita a una creatura ambigua, biforcata, come la chiama Valerio Magrelli (Disturbi del sistema binario, Einaudi, Torino 2006), che ci interroga. Ludwig Wittgenstein ne parla nelle sue Philosophische Untersuchungen (Blackwell, Oxford 1953): dice di averla ripresa dallo psicologo Joseph Jastrow e la chiama H-E Kopf, testa di lepre (Hase) e anatra (Ente). Un altro poeta, Billy Collins (Picnic, Lightning, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 1998) ha dedicato a questa figura una poesia intitolata Duck/Rabbit, che inizia con un’allusione biblica al leone e all’agnello e chiude con un triste riferimento a una relazione affettiva fallimentare. Ecco una possibile traduzione del testo inglese:
L’agnello potrà giacere col leone,
ma mai saranno tanto vicini quanto questa coppia
che condivide le stesse righe d’esistenza,
il cui sovrapporsi è la loro stessa raison d’être.
Come sono strani e simbiotici i legami
che ne fanno sparire uno
ogni volta che si spia l’altro.
Getta uno sguardo all’anatra,
e il coniglio salta nella tana.
Presta attenzione al coniglio
e l’anatra zampetta fuori dal foglio.
Forse loro potrebbero essere la nostra mascotte, io e te:
potrei guardarti per tutta la vita
e non vederci mai come coppia unita.
È un’immagine simile a quelle altrettanto famose riprese dalla psicologia della Gestalt (la vecchia e la giovane, ad esempio) che mettono in evidenza i problemi legati alla nostra percezione delle cose, a come sia difficile cogliere nello stesso momento le due forme, a come noi vediamo e rappresentiamo il mondo. Quell’immagine, tuttavia, può indurre a interrogarci non solo su come noi percepiamo, ma anche su che cosa è in fondo quella figura che abbiamo davanti, su come quella forma, quell’insieme, che ci riguarda e che non ci è estraneo, non sia la mera somma delle sue singole parti. Si può passare cioè da una riflessione su come percepiamo il mondo (e di questo si occupa la psicologia della Gestalt), a una riflessione su che cosa sia quella figura o forma complessa, in sé e nella sua relazione con noi, a una riflessione, insomma, sull’ontologia della Gestalt.
Per entrare nell’articolata ricerca del filosofo norvegese Arne Næss (1912-2009), nel suo attivismo nel movimento della Deep Ecology e nel suo, per certi versi, eccentrico stile di vita, può essere utile partire proprio dalla nozione di ontologia della Gestalt, coniata dal filosofo norvegese. Con questa nozione Næss intende superare la distinzione dualistica fra soggetto e oggetto, uomo e natura, spirituale e materiale, mente pensante (res cogitans) e materia (res extensa), che ha caratterizzato tanta parte della tradizione filosofica occidentale, e cerca piuttosto di cogliere la realtà come una complessa rete di relazioni in cui l’essere umano non è un essere esterno e superiore al di fuori della realtà, al di fuori delle relazioni. Il soggetto, l’io, il sé individuale, non vuole tradurre la realtà e decifrarla in termini matematici, né ridurla a strutture astratte costituite da atomi, elettroni, o particelle e onde; non intende cioè costruire con una rappresentazione astratta il mondo dall’esterno, ma piuttosto entrare con esso in una relazione simbiotica. Gli organismi, scrive Næss, “sono come nodi nel campo di relazioni intrinseche. Una relazione intrinseca fra due cose A e B è tale che la relazione appartiene alle definizioni o costituzioni di base di A e di B, cosicché senza quella relazione A e B non sono più la stessa cosa. Il modello di campo totale dissolve non solo il concetto dell’uomo-nell’ambiente, ma ogni concetto rigido di cose-in un milieu”. (A. Næss, Ecology, Community and Lifestyle, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p.28). Un essere umano così come un essere non umano (una pianta, un animale, ma anche una roccia) non sono nell’ambiente, ma sono l’ambiente, così come l’ambiente è questi esseri nella loro interdipendenza.
Sembrano considerazioni talmente astratte, queste di Næss, da scoraggiare forse il lettore. In verità è tutto molto più vicino a quanto ciascuno di noi sperimenta spontaneamente e di continuo nella vita. Gli oggetti con cui entriamo in contatto, così come gli altri esseri viventi, umani o non umani, non sono solo delle strutture astratte. Possono esserlo per certi fini pragmatici, come, ad esempio, quello di localizzare nello spazio un albero, o definirne la composizione chimica, ma non certo per definirne la complessità ontologica. Così come un fiore si trasforma in base alla sua relazione con il sole, noi siamo l’aria che respiriamo. Sembra una frase ad effetto, ma è invece una cosa di cui diventiamo tutti immediatamente consapevoli se solo ci interroghiamo “profondamente” quando passeggiamo in riva al mare la mattina presto o quando invece ci affrettiamo camminando in mezzo al traffico di città. Sono esperienze spontanee, come le chiama Næss, che un pensiero attento alla complessità (e non alla complicazione), capace di interrogarsi in modo profondo, non dovrebbe trascurare.
La Deep Ecology, con la quale Næss è spesso identificato, non è tanto un modo radicale di intendere il rapporto fra umani e natura, ma un approccio filosofico ed esistenziale ai problemi ecologici che muove da un’interrogazione profonda, socratica, sulle cose e sui modi che abbiamo per rappresentarle attraverso il linguaggio; un approccio che Næss elabora in una lunga ricerca che inizia con la sua formazione filosofica prima in Norvegia, poi, negli anni Trenta, presso il circolo di Vienna dei neopositivisti logici, con le sue esperienze di psicoanalisi sempre a Vienna con Eduard Hitschmann, collaboratore e allievo di Freud, e le sue ricerche sul campo a Berkeley in California, dove studia come un moderno antropologo le dinamiche fra scienziati che prendono parte agli esperimenti e alle ricerche nei laboratori. A queste esperienze formative si aggiungono inoltre, sollecitate da un’inesausta curiosità, gli scritti di filosofia della scienza, di semantica empirica, di linguistica, di storia della filosofia, frutto della sua lunga e prolifica attività di ricercatore. Nominato ancora ventisettenne professore di filosofia all’università di Oslo, studia per tutta la vita non solo i classici della filosofia occidentale, a partire da Aristotele e Pirrone, a Spinoza, suo nume tutelare, a Hume, fino a Wittgenstein, Whitehead, Carnap, Heidegger, ma anche il pensiero orientale, dal Buddhismo mahāyāna a Gandhi. I suoi contributi, spesso controcorrente, sono stati rilevanti in diversi ambiti: dall’epistemologia, alla semantica, alla teoria della comunicazione, alla filosofia ed etica della natura, in particolare con la sua Ecosofia T, una filosofia dell’armonia e dell’equilibrio ecologico, “non una filosofia in senso accademico e neppure qualcosa di istituzionalizzato come una religione o un’ideologia” (A. Næss, The Deep Ecology Movement: Some Philosophical Aspects, in SWAN X, p. 42).
La ricchezza e originalità della sua produzione è ora ben documentata nei dieci corposi volumi di The Selected Works of Arne Næss (Springer, Dordrecht 2005), conosciuti con l’evocativo acronimo di SWAN (“cigno” in inglese). Harold Glasser, curatore principale dell’intera collana, fa ricorso a un gioco di parole per il titolo della sua acuta introduzione al primo volume di SWAN: Arne Næss – A Wandering Wonderer: Bringing the Search for Wisdom Back to Life, una persona cioè che si meraviglia e che cammina per il mondo, riportando alla vita la ricerca della verità. Non è solo un simpatico gioco fonetico fra Wandering e Wonderer. Vengono accostati due concetti chiave che definiscono nella loro interdipendenza la figura di Næss: Wonderer come colui che sa meravigliarsi e stupirsi filosoficamente e Wanderer come colui che praticando “l’arte del camminare” fa esperienza non solo libresca ma anche fisica, corporea del mondo con cui entra in un rapporto di interdipendenza. Nella parte finale della sua lunga e ininterrotta ricerca filosofica, quando si rivolge soprattutto agli scritti ecosofici, a partire cioè dalla pubblicazione di quello che potremmo definire il manifesto della Deep Ecology nel 1973, giunge a delineare un sistema filosofico aperto che si fonda sulle sue ricerche di logica, semantica, epistemologia, e che costituisce, scrive ancora Glasser, “una filosofia della vita non dualistica, non antropocentrica che sostiene l’interdipendenza e l’unità ultima di tutti gli esseri viventi, mentre ne mantiene l’individualità. La sua filosofia celebra la ricchezza e la diversità, sia culturale sia biologica, della Terra […]. Ciò che rende Næss così speciale è che, anche quando rema controcorrente, mostra un tremendo ottimismo, un’apertura, una gioia e una giocosità disarmante e contagiosa. Næss si sforza di vivere la filosofia” (SWAN I, p. XVIII).
Il modo in cui Næss decide di vivere la sua filosofia è ben rappresentato dalle sue scelte di vita, per molti versi estreme. Una prima è la passione per l’alpinismo: negli anni Trenta era già una leggenda fra gli scalatori norvegesi avendo scalato le 106 montagne più alte della Norvegia; a queste seguirono numerose altre imprese, fra cui quella che nel 1950 lo portò a conquistare per la prima volta con un’epica spedizione norvegese la cima del Tirich Mir (7708 metri). Una seconda è l’attivismo risoluto e pacifista, secondo il modello gandhiano, in favore della difesa dell’ambiente: celebre è il suo arresto da parte della polizia nel 1970 quando si incatenò insieme ad altri 300 manifestanti alle rocce davanti alla cascata Mardalsfossen per opporsi al progetto di costruire lì una diga e una centrale idroelettrica che avrebbe radicalmente trasformato quel luogo. E accanto a questo attivismo più militante, vanno ricordati anche il suo impegno istituzionale come primo presidente di Greenpeace Norway nel 1988 e la sua indagine sul significato del termine democrazia (Democracy in a World of Tension) commissionatagli dall’UNESCO ai tempi della Guerra fredda: un esempio su larga scala di applicazione della semantica empirica di Næss che prevedeva, fra l’altro, l’elaborazione, somministrazione e interpretazione di un questionario rivolto a circa 600 esperti internazionali di filosofia, legge, storia, scienze politiche, sociologia, economia, comunicazione e logica. Una terza scelta di vita certamente non convenzionale e di certo radicalmente avversa alla società consumistica è stata anche la decisione di costruire, già nel 1937, una spartana hytte a 1500 metri sul livello del mare, alle pendici della vasta catena montuosa dell’Hallingskarvet, raggiungibile soltanto a piedi, salendo per due ore, dalla stazione ferroviaria più vicina. La baita di Tvergastein non era certo una sorta di seconda casa di villeggiatura nella quale Næss si rifugiava non appena possibile terminato il suo lavoro di professore all’università di Oslo o di ritorno dai numerosi viaggi per il mondo. Non aveva nessuna delle comodità di una casa di villeggiatura: né una struttura solida né elettricità o acqua corrente o riscaldamento centralizzato, cosa non irrilevante in un ambiente certo non facile soprattutto nei lunghi, ventosi e gelidi inverni norvegesi. Ma era La Casa, l’Oikos, il Luogo di appartenenza e di elezione, in cui vivere in modo semplice e in massima autosufficienza. Qui Næss poteva entrare in relazione con il mondo vegetale e animale di questo luogo così estremo, dove non crescono alberi, i fiori hanno dimensioni lillipuziane, si incontrano minuscoli topolini e donnole più che orsi o renne, e le pareti apparentemente sterili della montagna sono in verità popolate da miriadi di licheni. Un mondo entusiasmante che, come scrive Næss, avrebbe bisogno di un microscopio e dello sguardo attento e paziente di uno scienziato, oppure di quello aperto e comprensivo di un fenomenologo. A questo sguardo simpatetico sul vitalissimo micro-mondo che circonda la baita, Næss alternava lo sguardo comprensivo di chi osserva dall’alto un territorio vastissimo. Da Tvergastein si può scrutare un’enorme parte della Norvegia meridionale. Ma a Næss questo punto di vista evidentemente non bastava e si fece costruire un capanno, di pochissimi metri quadrati, a strapiombo, sul bordo dell’altopiano dell’Hallingskavet, abbarbicato alla parete, qualche centinaio di metri più in alto della sua baita, raggiungibile solo con una arrampicata molto tecnica. Lo aveva chiamato Skarveredet, “il Nido del cormorano”. Era un luogo di raccoglimento, di osservazione, di meditazione. Da lì la vista è ancora più a campo totale, comprensiva.
La sua filosofia non antropocentrica, relazionale, rispettosa dell’altro (umano o non-umano), sembra voler compendiare i due sguardi, quello microscopico e indagatore capace di cogliere le diversità degli esseri più minuti come i licheni e le pietre, e quello macroscopico che abbraccia dall’alto i grandi spazi, senza alcuna intenzione di giudicare, ma cercando di godere con gioia della totalità e dell’individualità, in una tensione verso quella che Næss definisce la Self-Realization.
Il termine è ricorrente nell’Ecosofia T, la filosofia ecologica, non assoluta e dogmatica propria di Tvergastein, anzi, ne è, come scrive Næss, la sua norma fondamentale. La traduzione di Self-Realization pone alcuni problemi non superficiali. Si potrebbe rendere con Autorealizzazione oppure come Realizzazione di sé o Realizzazione del Sé. In italiano non sono la stessa cosa, anche se tutti questi modi sono stati variamente assunti da chi ha scritto saggi in italiano su Næss o ha tradotto i suoi testi. È facile in italiano cogliere la differenza fra autorealizzazione, dove l’accento sembra posto sulla determinazione che l’io ha di realizzarsi, e la Realizzazione del Sé o di sé, dove l’accento cade invece sull’atto e non sul soggetto. Inoltre il sé scritto con la lettera minuscola o maiuscola può indicare due cose diverse, come dice lo stesso Næss: con la minuscola indica un sé individuale, un io singolo; con la maiuscola un Sé relazionale. Con Realization, infine, si possono intendere due azioni simili ma non coincidenti: la realizzazione come compimento di un processo o di un’azione (realizzare qualcosa) oppure il diventare consapevoli (to realize in inglese ha quell’accezione come principale). Una cosa insomma è l’autoconsapevolezza, un’altra cosa è la Realizzazione del Sé. Questo gioco interpretativo e traduttivo immaginiamo sarebbe piaciuto a Næss, che amava le lingue (ne conosceva tantissime fra cui anche il sanscrito a cui aveva dedicato una pubblicazione), e che soprattutto amava andare a fondo alle questioni, esaltando così la dimensione relazionale delle cose.
In Italia l’opera di Næss non è molto conosciuta al di fuori di coloro che si occupano di filosofia della natura, di etica ambientale e di ecologia in senso lato. Sono usciti tuttavia alcuni volumi preziosi che hanno permesso di far conoscere questi aspetti della ricerca di Næss. Il primo, Arne Næss, Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita (Red, Como 1994) a cura di Antonio Airoldi e Giovanni Salio, purtroppo ora introvabile in commercio, propone la traduzione di Elena Recchia del volume americano Ecology, Community and Lifestyle curato da David Rothenberg, uno dei primi attenti studiosi dell’opera di Næss. Il volume, uscito nel 1989 da Cambridge University Press, è a sua volta una traduzione rivista di Økologi, sanfunn, og livvstill del 1976, ed è stato il testo che più ha fatto conoscere nel mondo anglofono il pensiero ecologico di Næss. (L’introduzione a quel volume di Rothenberg, omessa nella versione italiana, è qui tradotta in italiano per la prima volta). Il secondo, Arne Næss, Introduzione all’ecologia (ETS, Pisa 2015), è un’antologia filosofica originale curata, tradotta e introdotta da Luca Valera con un lungo e solido saggio sul sistema filosofico di Næss, e presenta testi fondamentali, a partire da alcuni saggi su Spinoza, sull’ecosofia o l’ontologia della Gestalt, fino a riflessioni molto pragmatiche come Il posto della gioia in un mondo di fatti o Una bella azione: la sua funzione nella crisi ecologica. Infine Arne Næss, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda (a cura di Elisa Cavazza e Alan Dregson, trad. it. di Andrea Roveda, Piano B, Prato 2021), con introduzioni di Elisa Cavazza e Alan Drengson, raccoglie saggi composti nella baita a Tvergastein che presentano l’Ecosofia T anche attraverso alcune narrazioni autobiografiche ricche di saggezza e non solo di informazioni, come Esempio di un luogo: Tvergastein o Modestia e conquista delle montagne, che mettono in evidenza la qualità di un narratore sempre godibile, coinvolgente e spesso capace di passaggi di arguta autoironia. Queste pubblicazioni italiane non sono affatto poca cosa, e tuttavia rispetto ai dieci grossi volumi dei Selected Works of Arne Næss, all’importanza che la figura di Næss ha non solo in Norvegia, e all’influenza che la Deep Ecology ha avuto negli Stati Uniti, nell’America latina, in Australia, e anche ai dibattiti e alle prese di posizione critica di cui è stata oggetto, ci è sembrato che fosse il caso di provare a presentare Næss in modo, se possibile, un po’ più articolato e ampio.
Come in ogni numero di “Riga”, si è partiti con la traduzione di alcuni testi dell’autore, funzionali anche al saggio di presentazione del pensiero filosofico complessivo di Næss scritto da Luca Valera. A questa fanno seguito tre lunghe interviste a Næss di Christian Diehm, David Rothenberg e Bob Jickling sulla filosofia, la vita a Tvergastein e il metodo pedagogico dalle quali emerge la gioiosa umanità e inesauribile curiosità di Næss, aspetti che si riscontrano nei ricordi di Richard Langlais e di Anna Drengson. Le interviste di Luca Valera a Ricardo Rozzi e Eduardo Gudynas permettono di comprendere la rilevanza del pensiero di Næss nel mondo dell’America latina, dove il pensiero dell’ecologia profonda è entrato in relazione sia con la teologia della liberazione, sia con il progetto di conservazione di enormi estensioni di territorio in Cile e in Argentina intrapresi
dall’imprenditore, ambientalista e filantropo americano Douglas Tompkins e dalla sua Fondazione, a cui si deve anche la rilevante impresa della pubblicazione di SWAN.
La terza parte raccoglie saggi, tradotti qui per la prima volta, che hanno segnato la ricezione del pensiero filosofico di Næss in questi ultimi decenni, come gli scritti di Alan Drengson, George Sessions, David Rothenberg o Warwick Fox, o si sono soffermati su temi specifici, come l’educazione e l’ecologia di Dolores LaChapelle o i rifugi dei filosofi (Thoreau, Aldo Leopold, Arne Næss) di Peder Anker, a volte anche contestando certe posizioni di Næss, come il saggio di Ariel Kay Salleh sulla Deep Ecology e l’eco-femminismo.
Saggisti e filosofi italiani e sudamericani hanno accettato il nostro invito a intervenire su temi specifici con saggi scritti appositamente per questo numero di “Riga”, con l’intento di ampliare ancora un poco, senza alcuna pretesa di esaustività, il campo di indagine. Così Giacomo Scarpelli si è occupato del ritratto di Næss che si ricava dai filmati e dai documentari che sono stati girati su di lui; Roberto Bondí analizza affinità e differenza fra l’Ecosofia di Næss e Gaia di Lovelock; Gianfranco Marrone offre una lettura semiotica del saggio Esempio di un luogo: Tvergastein; Niccolò Scaffai indaga l’analogia fra la “letteratura al tempo dell’antropocene” e alcuni concetti chiave della Deep Ecology. Più focalizzati sulla ricostruzione dei rapporti fra l’Ecosofia e i referenti filosofici sono i saggi di Giuseppe Ferrari che si concentra sul debito di Næss nei confronti di Gandhi, di Elisa Cavazza che tratta dell’importante influenza del Buddhismo e del pensiero orientale sull’elaborazione filosofica di Næss, di Alicia Bugallo Finnemann che affronta non solo il tema del senso del sacro in Næss, ma anche il debito che il pensatore norvegese ha nei confronti della filosofia di Spinoza, debito trattato anche nel saggio di Gabriel Vidal Quiñones. Nell’ultimo intervento, Riccardo Venturi, parlando di un mancato incontro fra Land Art e Deep Ecology, ci racconta invece di un incontro reale e molto particolare, avvenuto in Norvegia, fra Næss e il fotografo inglese Hamish Fulton, noto come il walking artist, che farà poi della Deep Ecology un riferimento importante per la propria poetica. Il racconto di questo incontro fra due Wanderer si presta ottimamente a introdurre le opere di due artiste, Helen Mirra, Walking Commas e Claudia Losi, Eppur si manifesta la relazione, presentate nella Galleria.
Il nostro contributo alla lettura di Næss si chiude così con il topos letterario e artistico del cammino o dell’arte di camminare, come la chiamava Henry David Thoreau nel suo pamphlet Walking. Qui il camminatore o vagabondo o Saunterer non è certo un perdigiorno, uno che cammina oziosamente senza meta, ma è colui che va á la Sainte Terre, secondo una possibile etimologia di Saunterer indicata da Thoreau: una Terra Santa, o Luogo di elezione che nel nostro caso può coincidere con l’aspirazione alla Realizzazione del Sé ecologico. Questi camminamenti artistici riportano, idealmente, all’inizio dell’intero volume, e cioè alle tre poesie di Mariangela Gualtieri, Valerio Magrelli e Chandra Livia Candiani, che intendono essere un viatico per questo itinerario.
Franco Nasi