Riga n. 13
Primo Levi
Massimo Mila
Il sapiente con la chiave a stella

La notizia, comunicata dalla televisione nella sala da pranzo dell'albergo, ci investe come un colpo basso. La prima reazione, più forte che il dolore, è d'incredulità. No, non è possibile!
Era l'ultima persona di cui si sarebbe potuto immaginare una fine simile. Quel suo equilibrio! Quella sua saggezza! Non era la sua grandezza aver saputo rievocare i giorni atroci del Lager senza alzare il tono della voce, senza cadere in eccessi di lamento? Tutto comprendo senza perdonare.
Pochi giorni fa, a proposito di Valéry, ricordavo qui la sua bipolarità d'uomo delle due culture, quella umanistica e quella scientifica, ma quest'ultima come una presenza astratta, interamente soggiogata al criterio della forma letteraria. Anche Primo Levi era uno scrittore che padroneggiava le due culture, ma in lui l'esperienza scientifica era davvero presente, era il primum agens. Dico esperienza scientifica calcando soprattutto sul sostantivo. Era esperienza scientifica il suo contatto concreto con la realtà. Il fatto di conoscere, arnesi, strumenti, chiavi inglesi, soluzioni chimiche; essere un uomo che sapeva lavorare con le mani.
Da questa qualità di homo faber gli discendeva l'apertura alla comunicazione con gli uomini che quegli strumenti usano. La famigliarità con operai, artigiani e contadini gli cresceva attraverso il terreno d'intesa del lavoro manuale. E anche con animali, vegetali, pietre. La cognizione scientifica gli permetteva di riconoscerne la natura e la storicità, di intenderli, di dialogare con loro. Nulla era inerte nel mondo per lui, nulla senza senso. Di tutto sapeva le origini e lo scopo intrinseco, oppure l'utilità imposta dall'uomo, e con tutti poteva discorrere.
La natura gli parlava: le piante, le bestie, le pietre, le rocce sulle quali da giovane aveva amato arrampicare. (Sulla finestra d'un piccolo rifugio osteria ai piedi della Sbarùa qualcuno aveva appiccicato un umile ritaglio di giornale dov'egli ricordava le sue esperienze in quella palestra).
Il contatto con le cose e coi mestieri alimentava quello con gli uomini. Non c'è scrittore meno ermetico di lui, meno chiuso nella torre d'avorio. Non che ti esortasse ai grandi ideali, non che ti facesse prediche da moralista. Ti raggiungeva spiegandoti le piccole cose d'uso quotidiano o i miracoli della tecnica di cui ci serviamo ogni giorno senza rendercene conto. Lo ascoltavamo perché viveva nel nostro stesso mondo e sapeva capirlo e spiegarci com'è fatto, senza alcun intento didascalico, unicamente in virtù d'una partecipazione animatrice ai suoi misteri, che poi non sono misteri, ma semplicemente leggi intrinseche della natura o della tecnica.
Non v'è posto per il mistero né per il mito nell'arte di Primo Levi. Nemmeno per il mistero più grosso di tutti: il mistero dell'iniquità, il mistero del Male. I ricordi del lager e le considerazioni su quell'orrore obbediscono alla stessa volontà di capire, che regola le sue osservazioni sugli uomini e sui loro mestieri, sulle bestie, sugli elementi chimici e i loro comportamenti.
L'uomo era come lo scrittore. Incapace di retorica e di pathos: preciso, concreto. Parrà un'enormità, ma se mi chiedessero di definire con una sola parola lo scrittore, direi che era un umorista. Se mi chiedessero di descrivere con una sola parola com'era l'uomo, direi, che era schivo. Cortese, affabile; ma con quel suo fisico magro, con quella barbetta scattante, con quegli occhietti vivaci, aveva qualcosa del camoscio, un animale che ispira tanta simpatia, ma che si lascia avvicinare poco.
Resta il rimpianto indelebile di non aver fatto di più per varcare la sua barriera difensiva. Era una delle poche persone che si sarebbe voluto frequentare di più. Ma pareva che lui, cortesissimo, non ne sentisse necessità. Credevamo che il suo mondo interiore fosse tutto occupato dalla memoria dell'olocausto, a cui non ci ritenevamo degni di accedere. Forse era il contrario. Se tutti avessimo fatto di più per forzare il suo riserbo, forse quell'incubo mostruoso che da quarant'anni grava nella sua memoria non sarebbe riuscito a schiacciarlo.

In La Stampa, 14 aprile 1987, poi in Scritti civili, Einaudi, Torino 1995.

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