Riga n. 6
Antonio Delfini
Claudio Piersanti
Una notte disumana

«Amico non bere più, sono andati via tutti. Il convegno è finito». Purtroppo non era un bevitore accanito, ma occasionale, anzi situazionale. Aveva cominciato a bere quel pomeriggio per non uccidere. E purtroppo ci era riuscito. Se ne avesse ammazzato uno sarebbe diventato un grande scrittore, secondo me quasi a livello di un Céline. Continuò a bere tutta la serata, e per gran parte della notte, e in modo disumano. Aveva la borsa – una bella borsa di cuoio logorata dagli anni, vecchio dono allo studente esemplare che era stato – strapiena della sua bizzarra collezione di bottiglie mignon. Si era scelto le migliori, ma il collezionista non conosceva le astuzie del vero bevitore, e a grandi amari si alternavano antichi centerbe e trestelle alpine, cognac odorosi e streghe stucchevoli e unicum e anisette. Un suicidio. Ma la sua mente era così forte che resisteva appunto oltre l’umano, faceva pensare alla morte di un giovane soldato che ha voglia di tornare al suo biliardo. Morire giovani è disumano. Non sapevo che per lui salvarsi (dall’omicidio) equivaleva a morire. Forse avrebbe scritto chissà quanti romanzi chiuso in un eremo di ergastolani, forse in Sardegna, e così la letteratura sarebbe rinata. Me lo immagino spesso in carcere, al riparo da tutti, davanti alle pagine caotiche dei suoi scritti.
Io non posso sostituirlo, sono soltanto il suo Watson: l’amato Holmes è tornato per sempre alla coca, cioè più modernamente al lavoro nello studio di suo padre. Si uccide e si eccita facendo quattrini, la sua mente è ormai annebbiata (o lucidissima, se si vuole), forse in modo irreparabile. Gli ho mostrato, un pomeriggio che volevo scuoterlo a tutti i costi, una copia del suo primo libro: se la girava tra le mani e stentava a riconoscerla. Non la ripudiava, non se ne vergognava, guardava la costa e lo apriva qua e là. Le sue mani non avevano più confidenza coi libri, lo sfogliava come lo sfoglierebbe un alto funzionario di stato o un grande industriale, con la più candida incompetenza. Il mio Holmes non era più vivo, non riconosceva neppure il suo passato: il padre, un bel vecchio in panciotto, si fermò un istante davanti a noi e guardò il libro anche lui, e sorrise come rivedendo in foto suo figlio col ciuccio, e il figlio lo assecondò con lo stesso sorriso. Un lontano, inerte amore giovanile, la ballerina nel cassetto.
Letterariamente era morto, dovevo rassegnarmi. Lui mi assicurò che stava benone. E io me lo rivedevo in quel convegno, e ricordavo l’ansia con cui l’aveva atteso. Aveva pubblicato, sia pure con un piccolo editore, due volumi (bellissimi) di novelle, ma non conosceva altri letterati, e quel giorno purtroppo li conobbe quasi tutti. I migliori erano assenti, ma lui non poteva saperlo, i loro nomi erano stati annunciati insieme a quelli degli altri, credo a loro insaputa. Capì la vera natura dei presenti sin dall’inizio, quando i letterati che arrivavano dalle città si baciavano sulle guance. Come Holmes era un grande scrutatore di visi, e non gli sfuggì niente. Poi arrivò anche l’attore-scrittore e tutti lo baciarono ripetutamente. Il mio Holmes ebbe il suo primo travaso di bile. Purtroppo aveva visto in tivù lo scempio che il povero vecchio attore aveva fatto del suo amato Moby Dick, e poi lo aveva visto ancora in tivù mentre gli consegnavano un premio letterario per la sua autobiografia, e aveva letto anche dei brani in pubblico: il soave suono della pura tromba italiana... L’attore non era previsto dal programma, ma era atteso da tutti.
«Lo sfido a duello nonostante l’età» mormorò il mio Duce, «lo ammazzo come un cane».
Gli ricordai che in fondo era un bravo attore, o almeno lo era stato in tre o quattro parti, e che insomma era un falso nemico. Finse di darmi ragione e continuò a friggere nel suo odio. Ascoltò gli interventi e le interventesse (è una parola sua!) senza fare particolari commenti; poi quando notò tra il pubblico il Grande Appartato (in quel momento già trasformatosi in Gran Moralista con i suoi indimenticabili saggi sul trasformismo) si alzò e corse a casa, dove liberò la borsa dai libri e la riempì di liquorini. Tutti quelli dello scaffale nobile della collezione. Tornato al suo posto riprese a fissare il Gran Moralista, e ogni tanto, stringendo una bottiglietta nel pugno, la vuotava in un sorso. Faceva il gesto di uno che sta per starnutire ma non ci riesce. Nessuno si accorse che si stava ammazzando di liquori. E io (stupido!) continuavo a tartassarlo a mezza voce. «E intelligente, l’hai sempre detto anche tu... non puoi spaccargli la faccia... Se non ti piacciono andiamocene... non è un caso che alcuni non sono venuti, considerati uno di loro, anche se non li vedrai mai...»
Rispose quasi sempre farfugliando, ma una volta mi disse con chiarezza: «La letteratura sono loro, questi che vedi... e io dovrei ammazzarne uno e non lo farò...».
Alla chiusura del convegno il mio quasi Céline beveva senza ritegni ma con una certa grazia, stringendo le bottigliette tra il pollice e l’indice. Stava bevendo un J&B quando il Gran Moralista lo guardò disgustato piuttosto a lungo. Uscimmo insieme tenendoci a braccetto: Holmes trascinava le scarpe e sorrideva a tutti. Andammo ai giardini e scegliemmo un angolo appartato: Holmes voleva darsi il colpo di grazia. Si era sdraiato e aveva appoggiato la sua bella testa ricciuta sulle mie gambe. Si buttava il liquore nella bocca aperta e quasi non riusciva a mandarlo giù. Doveva ormai aver bevuto un centinaio di bottigliette. Lo accarezzavo, gli parlavo, ma per lui ero soltanto un cuscino. L’ultima affermazione che fece non la capisco ancora: «Non è possibile volersi bene...». Immagino diverse interpretazioni, ma preferisco non suggerirle. Voglio soltanto testimoniare la terribile esperienza di una mente che muore. Perse i sensi una prima volta verso l’una di notte. Riuscii a svegliarlo e lo trascinai al posteggio dei taxi. La sua mente si agitava ancora, farfugliò di pistole e pugnali da combattimento... Davanti all’ascensore cadde una seconda volta. Quando lo deposi sul divano del suo studio aveva l’espressione serena: il delitto era riuscito, e io ne sono responsabile quanto lui.
Il giorno dopo vuotò scaffali e cassetti e mi regalò tutto. Poi cambiò casa c lo persi di vista per mesi, o dovrei dire per sempre. Quando lo incontrai di nuovo era già un’altra persona: mi salutò con calore ma non si fermò a parlare. andava di corsa, e non mi diede il suo nuovo indirizzo.
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