Riga n. 44
Giorgio Manganelli
Alfredo Giuliani
Queste parole sono un diluvio

Una volta, per spiegarmi quella bizzarra “cosa stilistica” che è lo scrittore Giorgio Manganelli, una viziosità verbale così signo­rile, astratta, e insieme così umoresca, ho supposto che il Leopar­di delle Operette morali, dopo un regolare trattamento psicanalitico, avesse imparato a ridere col ventre, a filosofare parodisticamente dentro il sogno, delusorio ma gradevolissimo, dell’onnipotenza. Da­tegli, dicevo, “l’infinita vanità del tutto” e vedrete esplodere la sua ilarità di sapido profanatore del Grande Nulla. Dateg1i la fine del mondo, e lui la trasformerà in una cerimonia retoricamente pre­stigiosa. Quel burlesco e pseudoteologico trattato sul Testo Ine­sistente che Manganelli ha inti­tolato Nuovo commento dichiara il Grande Nulla “nichilsimile”, ossia privo del valore che avreb­be un vero e metafisico Nulla. Siamo, insomma, ai confini dell’humour nero, dove non si sa as­solutamente come andrà a finire lo scherzo.

Per filosofare parodisticamente, e poeticamente, bisogna seguire non il pensiero (che ha sempre mafiosi e inacclarabili rapporti col senso comune), ma il sottopensie­ro e il sovrappensiero. Questo è quanto fa con perfetta naturalez­za Manganelli. Io sospetto sem­pre nell’umorista il piacere del paradosso, la consapevolezza di spararle grosse, la voglia di stu­pire. La malinconia di dover ri­dere. Manganelli non vuol essere affatto paradossale, o almeno non si cura di esserlo, tranne nei mo­menti in cui, e non sono neppure tanto frequenti, si dà all’intratte­nimento (e pochi gli negheranno rare qualità di “entertainer”).
Quando scrive per sé, ma esattamente devo dire quando scrive per il testo che vuole scriversi, non ha affatto la cognizione del paradosso: si trova semplicemen­te dall’altra parte di ciò che i bennati lettori del risaputo presu­mono sia la letteratura o, in ter­mini un tantino più sociologici, la comunicazione letteraria. Cibi ca­de nel suo diluvio di parole, o impara subito a nuotare o annega miseramente. Chi crede che il narratore delle sue allegorie sia lo scrittore in persona rischia il disorientamento totale. Non voglio mitologizzare, non insinuo che Manganelli è un’incarnazione dell’Inconscio, ma gli credo quando afferma di non essere veramente “autore” di ciò che scrive, quando giudica, un po’ da estraneo, “più odioso” degli altri suoi libri Sconclusione (Rizzoli).

Davanti alla scrittura perviamente automatica di Manganelli, quella dei surrealisti appare un meccanismo adibito a tutt’altre prestazioni. La differenza sostan­ziale, mi sembra, è che la scrit­tura di Manganelli non è “desi­derante”, non è funzione dell’ero­tismo, non è destinabile ad alcu­na illuminazione. Il suo arbitrio si abbandona a un solo potere, quello dell’ipotesi. Se negli altri libri seguiva il sovrappensiero ipo­tetico, e quindi assistevamo alla euforia e all’ipertrofia della fin­zione, qui in Sconclusione si è ab­bassato al livello del sottopensie­ro, si è consegnato alla coscien­za larvale, subesistenziale, dell’assurdo. Il problema è sem­pre lo stesso: come si fa a uscire dal copione dell’universo? E questo libro è “più odioso” forse perché offre finalmente la risposta, allegorica e inverificabi­le: contribuisci pure “al marasma lessicale e onomastico”, il diluvio laverà tutti i segni dopo averli stinti l’uno sull’altro.

Era inevitabile che il carattere diluviale, obliquo, della prosa man­ganelliana arrivasse a identificarsi con l’archetipo della pioggia. La presenza più consistente, più ontologica e ipersurreale del li­bro è, appunto, quella invadente e continuamente discontinua dell’acqua verticale. Il narratore, tap­pato in casa con i suoi “prenati” e “rivivi” e “rimorti”, padre e madri congiunti e mogli “subesistenziali”, sente e ausculta e ipo­tizza l’essere di questo diluvio che “fascia” la demente vita dome­stica. Curioso particolare: la piog­gia possiede le qualità del fuoco. “Quando la pioggia oscilla su sé stessa, mi pare ancora di intravedere orme di altri edifici, angoli, marciapiedi, resti di alberi folgorati dall’acqua, dalle goc­ce, dal loro infinito”.
Nel suo intenso sottopensiero il narratore può avocare a sé tutte le contraddizioni e accettarle. L’interminabile fine del mondo sarà “un annacquarsi e innacquarsi dell’acqua, un rincalzarsi dell’acqua con acqua”, e il mondo ri­solto in palude e verde putrefa­zione sarà finalmente “tale da non consentire quella distinzione netta e a parer mio volgare tra vivi e morti che è causa di tante ingiustizie e tanti dolori”.

La rutilante irriverenza, abitua­le nel Manganelli, è diventata più affabile (“a parte le flatulenze, non sono un figlio cattivo”), la cattiveria convive con la pietà, e sempre più godibile è la sua virtuosistica capacità di variazioni nel cosmico e nel re1igioso. Che party mostruosamente affol­lato, la resurrezione! Sapere che tutti incontreranno tutti “‘pare uno dei più irreparabili inconvenienti della creazione: parola quasi osce­na che alludo ai genitali della di­vinità”. E quel mediocre uovo del sole “non potrà mai nutrire la atavica anemia del cielo”. An­zi: “Può essere che lo stesso sole venga conseguito a surrettiziamente dalla pioggia e si copra di una qualche materia fungosa o mel­mosa, tutto il suo fuoco, vecchio bastardo, ridotto ad una pasta di cenere morta e tetra, la pietra aperta che rotola per il cielo, un cielaccio tutto pozzanghere e mer­de di cavalli di Febo”.

Certo, non dobbiamo aspettarci che tutte le invenzioni di questa Sconclusione, che ne è piena, siano della stessa tempra; alcune sono frivole, altre opache. E il nuovo linguaggio basso del Manganelli non resiste alle tentazioni dotte (si sarà notato, nella cita­zione precedente, l’uso latineggian­te di quel “conseguito” che a me suona un pochino stonato). Ma a sconcludere, e a sconclusio­nare il lettore è perfettamente riu­scito. Un libro inverifìcabile da cima a fondo, senza connessioni palesi, senza struttura, voleva es­sere scritto, ma con garbo e sommessamente. Più che giusto che quel libro abbia scelto proprio lui, il più “tautofonico” e, lo dico con ammirazione, il più rapido recensore di immagini latenti nel copione della nostra lingua.
 
 
“la Repubblica”, 13 ottobre 1976; poi [senza il primo capoverso, espunto] in Alfredo Giuliani, Le droghe di Marsiglia, Adelphi, Milano 1977
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