Riga n. 44
Giorgio Manganelli
Walter Pedullà
La sovrana letteratura di Giorgio Manganelli

Una volta era un modo infallibile di fare un affronto quello di dire di uno scrittore di prestigiosa bravura letteraria: “Che grande scrittore sarebbe se avesse qualcosa da dire!”. Giorgio Manganelli che della propria prestidigitatrice abilità retorica gongola e gorgoglia con roca soddisfazione, strizza l’occhio, si frega le mani, invece ci tiene a non aver nulla da dire, anzi ci fa una questione d’onore a non averne, e sulla propria assenza di “messaggi” fa grandi salti di gioia, più acro­batici di quanto consenta la sua mole: tanto, la realtà non esiste, essendo tutto linguaggio: che è l’unica verità in cui egli confessa di credere; il resto è menzogna. La quale però non è più la riprovevole fantasia di altre epoche moralistiche: anzi è ormai il solo contrassegno possibile, nutrimen­to e struttura, condizione di sopravvivenza e di qualità della letteratura: come dire del bene supremo, dell’arma più efficace con cui ci si difende dalla vita, oltre naturalmente che con la morte.

Nelle sei prose di Agli dei ulteriori, Manganelli fa stare col fiato sospeso per un ribaltamento con cui diventa qualità il “negativo” della precedente cultura, patita di pienezza concreta, di esplicite verità ideolo­giche, di Vita: sono cioè “positivi” per lui il vuoto, la forma, la men­zogna, connotati funzionali di una morte che fa giustizia di tutte le parole idee e comportamenti di cui vive il mortale, o meglio, il moribondo che è, di fatto, ogni uomo; ma è giustizia allegra, come di festa funebre in cui i bagordi facciano dimenticare il defunto e i pianti siano reazione di vino abbondante e maldigerito. Gli uomini, i loro progetti e le loro azioni cambiano, sono sostituiti, si avvicendano non diversamente dalle parole che fanno metafore e metonimie per lasciare le cose come stavano secondo leggi strutturali antiche e inesorabili quanto la morte. Essi in­somma fanno retorica, non solo nel senso che dicono parole che non corrispondono a cosa, ma anche nel senso che vivono come se fossero una proposizione o altro lacerto di linguaggio, e in questo solo sostanzial­mente prendono forma nonché vita: che è spettacolo ridicolo, da morire dal ridere, almeno a tenersi alla reazione più illuminata del lettore di questo libro di Manganelli.

Nessuno dunque ha nulla da dire e ognuno può dire tutto, tanto non c’è alcunché che gli appartenga individualmente. Se esiste solo il linguag­gio, uno può essere tanti quanti esso è capace di formare, esistenze co­munque precarie quanto un neologismo abortito. Una piccola spinta, o attrazione, e ti trovi coinvolto in una serie di frasi che godono di non avere uno scopo, tesi o progetto e di non dovere corrispondere a qual­cosa di estraneo, magari la realtà. È una leggerezza che darebbe alla testa non solo a quel megalomane che è il personaggio di Un Re e che pensa di essere, e quindi è, un’aquila; un leone, un serpente. In quel vuoto Giorgio Manganelli ne fa di serpentine, giravolte e acrobazie con la sintassi e col lessico. Il vocabolario è il suo regno e il suo alimento. Un arcaismo gli fa percorrere in un baleno centinaia di anni ed egli subito si acclimata al punto da sembrare nato da quelle parti o da quei tempi: un raro preziosismo lo invita in corti secentesche dove può discor­rere e concorrere con padre Bartoli: un neologismo lo fa frequentatore di bassifondi, borgate, ospedali e piazza-navone; che invece Manganelli non frequenta nella realtà, perché la sua sovranità egli la esercita sul mondo delle lettere, magari prese da piccole, quando cioè sono ancora nell’alfa­beto e ci puoi fare tutto ciò che vuoi, combinandole a tuo piacimento e cavando significati insoliti dall’aggiunta o sostituzione di una sillaba o di un fenomeno: e meglio ancora se combina parole convocate sulla stessa pagina da epoche e classi lontane lungo le quali l’autore trascorre velo­cemente alla ricerca di sorprese con cui evitare la logorante e insipida noia dei linguaggio comune.

Manganelli è veramente un sovrano letterato: dove i due termini fan­no una volta da sostantivo e una volta da aggettivo: come dire un let­terato di alto livello e insieme uno che con la letteratura fa quello che vuole, secondo i capricci di re insofferente della routine. Il paradosso è che a furia di “deviare dalla norma” il suo regno è una... repubblica, dove a ogni passaggio di parole ti può capitare un’aggressione lessicale che non ti lascia un periodo in pace. Succede spesso che tutta l’energia se ne vada per le punte di una metafora arguta o di un elettrico ossimoro (una figura comune che Manganelli si è accorto di avere usato sino a consu­marla nelle opere precedenti e che magari pratica non più come scontro di parole bensì di frasi messe paradossalmente a cozzare tra loro nell’am­bito di un ragionamento ora più normale e pacato a livello lessicale) e che il resto della frase serva solo da pista per una buona rincorsa verso il successivo salto in alto, ma lo scopo è sempre un “nuovo ordine” o, per coerenza con la politica dei ribaltamento tipica della cultura degli anni sessanta, un “nuovo disordine”: che trionfa nel Discorso sulla diffi­coltà di comunicare coi morti (già pubblicato sul “Menabò” di Vittorini e Calvino) e ora nelle Simulazioni, i due pezzi del volume, nei quali Manganelli più che sovrano letterato è scrittore capace di “combinare” la vicenda autonoma con cui un prosatore esce dalla schiera dei “clienti” di una tradizione letteraria e mette su bottega in proprio.

Anche se è veramente difficile come dice, Manganelli comunica, par­la, coi morti, nel senso che “si esprime” attraverso di loro, prestandosi il lessico di uno, la sintassi di un altro, il tono e il ritmo di altri ancora, specialmente dopo aver vinto il sospetto che i morti siano meno vivi dei mortali e che il passato non è peggiore del futuro: i suoi “innumerevoli orologi scandiscono tutti i tempi possibili”: “porte e finestre sono spa­lancate” per ricevere suoni e parole che pare non possano essere più inventate ma solo diversamente associate in serpentine combinazioni, che sembrano essere infinite sinché non compaiono costanti pressoché osses­sive. Manganelli “simula” di essere illimitatamente disponibile e di po­tere assumere ogni forma o meglio ancora di sfuggire a ogni forma che rassomiglia a sagoma di individuo, lasciandosi in quelle libere evoluzioni nel vuoto che vorrebbero obbedire solo a leggi retoriche. Certo questo succede anche troppo spesso per chi non vede l’ora che egli la smetta di rotolarsi lungo i periodi di Alcune ipotesi sulle mie precedenti reincar­nazioni e di Dal disonore, ma basta che la pagina prenda un po’ d’aria perché il corpo dello scrittore incontri le resistenze della realtà, le sue “intragne” personali e quelle di un’epoca, che di fatto limitano le sue reincarnazioni, legittimando solo quelle che coincidono con ciò che si è veramente, dopo avere consumato gli stili “simulati”. Nel Discorso, che resta sempre la sua prosa più scintillante nonché la più esemplare (al punto da generare di fatto gli altri pezzi del volume, anche quando essi prendono maggiore distanza e distacco e regale decoro e portamento) fermentano gli umori, i puntigli, i rancori, gli estri, i veleni di un ecce­zionale scrittore satirico, che, mentre impazza nelle più rocambolesche in­venzioni di una “retorica” sfrenata dallo schizofrenismo degli sperimen­tali, trascina nella provocatoria decisione con cui precisa se non il proprio volto la propria maschera attuale (“simulazione” sostituibile come ogni volto della cultura) anche i connotati morali, ideologici e linguistici di una società; che magari è pure un’altra, ma è innanzitutto quella dei bene­stanti anni sessanta. Tuttavia nella furia comica che coinvolge ogni idea o comportamento c’è specialmente l’accanimento di un metafisico, come si vede anche in Simulazioni dove egli tenta di deviare in umo­rismo e in figurazioni una ossessione di morte, che invece non si lascia distrarre e insinua e impone la sua tetra identità, ormai insostituibile con altra cosa vera o simulata. E in ciò consiste la ricchezza ma pure la “povertà” di Manganelli, che fa della propria micidiale e funerea “men­zogna” una verità perentoria per tutti e terroristica anche verso la pro­pria ricerca letteraria.
 
 
“Avanti!”, 23 luglio 1972; poi in Walter Pedullà, L’estrema funzione. La letteratura degli anni Settanta svela i propri segreti, Marsilio, Venezia-Padova 1975; “fuoriformato” Le Lettere, Firenze 20102
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