Marco Belpoliti
J&B
J&B
Milano, 13 luglio 2011
Chi è John Berger? Uno scrittore, si dovrebbe rispondere, uno scrittore poliedrico, più esattamente, dal momento che non è solo romanziere, ma anche saggista, critico d’arte, poeta, drammaturgo, sceneggiatore cinematografico, giornalista, commentatore politico, documentarista e persino disegnatore. Tuttavia la risposta non è sufficiente perché c’è qualcosa d’altro che connota la sua attività, qualcosa che ha strettamente a che fare con il suo modo d’essere. In ogni campo e attività Berger utilizza non tanto una specifica abilità tecnica – c’è anche questa –, ma, appunto, un modo d’essere, il proprio, che è prima di tutto un modo di guardare.
Come ha scritto in uno dei capitoli del suo volume di saggi dedicati alla fotografia e all’arte, Sul guardare, ci sono “momenti vissuti” in cui l’occhio non è un semplice registratore di sensazioni visive, bensì uno scrutatore sensibile di problemi e di questioni irrisolte sia per l’arte sia per la vita. “Avviene a volte – dice Berger – che la visione di un singolo riesca a distanziarsi dalle forme sociali della cultura esistente, compresa la forma sociale dell’arte. Quando ciò avviene, le opere concepite in base a tale visione vivono in una solitudine che non è solo personale, ma storica”.
Berger sta qui parlando dell’opera di Alberto Giacometti, tuttavia l’affermazione calza perfettamente anche per lui, dato che la sua poliedricità non è solo un’irrequietezza nei confronti delle forme e dei ruoli tradizionalmente circoscritti, per cui difficilmente un romanziere è anche un saggista o un disegnatore o un critico d’arte, quanto piuttosto un modo d’essere in continuo dissidio con la società in cui vive, e dunque anche verso le forme d’arte da essa riconosciute. Detto altrimenti, Berger è, come altri scrittori della sua generazione (Roland Barthes, per esempio, ma anche Italo Calvino, Hans Magnus Enzensberger e Alberto Arbasino), un critico della cultura contemporanea con cui ha ingaggiato un confronto serrato, frontale ma non polemico, complesso ma anche sottile.
Prendiamo Splendori e miserie di Pablo Picasso, pubblicato in inglese nel 1965, uno dei suoi primi libri. Quello che colpisce nel saggio è il modo con cui guarda il lavoro dell’artista spagnolo, la sua intera personalità di uomo e di pittore. Non si concentra come altri solo sull’opera o la legge attraverso la vita dell’artista, ma mette a tema la personalità e l’opera come prodotto di questa. La presenza di Berger in quello che scrive, cosa rara in questo tipo di autori, non sembra transitare per la cruna d’ago di un Io individuale, ma per l’ampio arco del Noi. Ecco, forse proprio questo è il talento peculiare di John Berger, talento senza dubbio naturale: la sua cifra di scrittore. Quello che dà forza al suo scrivere è infatti una forma d’attenzione che lo porta a interrogare di continuo, anche quando racconta in un romanzo, ciò che accade sotto i suoi occhi; e mentre la maggior parte dei critici d’arte fornisce spiegazioni, lui pone invece domande – questa è la forma d’attenzione –, tanto da indurci a credere che la sua ricerca non sia radicata tanto nella letteratura, o nelle arti visive, quanto piuttosto “in più ampie esperienze umane, specialmente in quelle in cui l’energia del corpo supera la normale fisiologia”, per usare le parole con cui descrive l’opera di Picasso. L’energia è uno dei temi di fondo della sua personalità artistica che si esprime nei gesti stessi del suo disegnare e dipingere e che si coglie in ogni riga dei suoi testi: si sente la forza della sua mano (la mano e anche la voce: due energie convergenti).
Questione di sguardi (1972), uno dei suoi libri più belli e giustamente citati, è un perfetto esempio sia della capacità di Berger di guardare il mondo delle immagini senza incagliarsi nei luoghi comuni dell’arte, sia di fare opera di critica sociale, ovvero di mettere in discussione i presupposti visivi della cultura contemporanea, senza con questo gettare il discredito sulle immagini, senza demonizzarle. Berger ama le immagini e dialoga con loro in modo amoroso: appassionato e seduttivo. Questione di sguardi nasce da una fortunata trasmissione televisiva, dal medesimo titolo, Ways of Seeing, andata in onda alla Bbc a cura di Berger stesso; di questa origine reca il peculiare segno grafico: la scelta dei caratteri e l’impaginazione sono fortemente visivi. Il libro è composto di testi e immagini; alcuni capitoli poi sono composti solo di immagini; il testo, sia perché in neretto sia per il corpo prescelto, sembra una didascalia che accompagna le immagini, le affianca, le circonda, senza mai soffocarle.
In questo modo il lettore legge contemporaneamente immagini e parole, parole che diventano immagini, immagini che contengono parole. E non si tratta solo d’immagini di quadri, opere artistiche, ma anche di fotografie pubblicitarie, mescolando così motivi sublimi e motivi umili. Qualcosa che ricorda il lavoro di Marshall McLuhan, alla fine degli anni Cinquanta, ma senza la corrosiva intelligenza e l’insolenza intellettuale, il sarcasmo e la provocazione del critico e massmediologo canadese. Berger non è un iconoclasta, aspira piuttosto a una sorta di classicità, ma scomposta. Meglio: una classicità critica.
Questioni di sguardi (come in un certo senso tutti i libri di Berger) è un libro militante: a tratti veloce e sommario, come deve essere un libro del genere, composto di intuizioni folgoranti e di continui cortocircuiti, ma senza mai perdere in eleganza e sottigliezza anche quando è rapido e conciso: lo dimostra appunto l'attenzione con cui conduce la sua lettura della pubblicità contemporanea. La tesi principale del libro è che la pittura ad olio si è sviluppata nel momento in cui gli uomini hanno dato vita a un sistema sociale ed economico fondato sul possesso delle cose e che l'immagine pubblicitaria è il suo corrispettivo odierno. Un tema già sollevato da McLuhan, in modo diverso, nei primi capitoli di Understanding Media (1964).
Quella di Berger è una tesi politica: “La pittura ad olio fece alle immagini ciò che il capitale aveva fatto alle relazioni sociali. Le ridusse all’equivalenza degli oggetti. Tutto divenne intercambiabile, poiché tutto si tramutò in merce”. Gli storici dell’arte ignorano questa fondamentale verità, dice lo scrittore inglese, e mettono avanti i nomi di Rembrandt, Turner, Vermeer, Frans Hals, mentre spesso si tratta proprio di eccezioni, di artisti ignorati o quasi in vita, i cui quadri migliori ritraggono personaggi o situazioni (poveri, malati, umili, ecc.) rigettati dal gusto dell’epoca. Berger ha il senso della storia, la rispetta, ma insieme ama la veridicità del tempo.
La pubblicità contemporanea è a suo parere la degna continuatrice della pittura a olio: “La pubblicità è la cultura della società del consumo. Essa propaga per via d’immagini ciò che tale società pensa di se stessa. Le ragioni per cui queste immagini usano il linguaggio della pittura a olio sono numerose”.
Berger sta qui conducendo un discorso sul realismo, su un particolare tipo di realismo che si è realizzato con la fotografia a colori (i suoi saggi sulla fotografia sono tra le poche cose significative su questo argomento, insieme ai libri di Roland Barthes, Vilém Flusser, Susan Sontag e Rosalind Krauss); e il punto focale del discorso è là dove affronta uno dei termini chiave degli anni settanta e ottanta, la categoria del glamour: “Il glamour è un’invenzione moderna. All’epoca della pittura a olio non esisteva”.
Se infatti osserviamo con attenzione il ritratto di Mrs. Siddons dipinto da Gainsborough, scrive Berger, ci accorgiamo che la donna “non ha glamour, non è presentata come invidiabile e, di conseguenza, felice. La si può considerare ricca, bella, piena di talento, fortunata. Ma si tratta di qualità sue personali, che sono riconosciute come tali. Ciò che lei è non dipende semplicemente dal desiderio degli altri di essere come lei. Non è una semplice creatura dell’invidia altrui come, per esempio, la Marilyn Monroe di Andy Warhol”.
La società moderna, democratica e capitalista, è fondata sul sentimento dell’invidia; è una società che si è avviata verso la democrazia, ma, scrive Berger, si è fermata a metà strada. Se è vero che “la ricerca della felicità individuale è stata riconosciuta come un diritto universale”, a partire dalla Rivoluzione francese, è anche vero che l’individuo moderno si sente impotente: “Egli vive nella contraddizione tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere”. Sono l’invidia, il glamour, il senso d’impotenza, la promessa eterna di futuro, la dimenticanza continua del presente, afferma, a fornire alla pubblicità tutto il suo credito. Sono trascorsi alcuni decenni da quando il critico e romanziere inglese scriveva queste frasi, ma niente sembra mutato. Merito della sua capacità di previsione o sintomo dell’immobilità del mondo in cui viviamo?
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Il discorso sul realismo, cioè sui modi di rapportarsi alla realtà, di percepirla e rappresentarla o di costruire l'orizzonte, o meglio: gli orizzonti, del suo darsi a vedere, viene declinato dallo scrittore in molte altre forme, più ampie e originali rispetto a quelle tradizionali.
Alla fine degli anni settanta Berger è in Turchia. Visita il museo di Besiktas e si ferma davanti a un piccolo quadro intitolato Taglialegna nella foresta. L’ha dipinto un artista turco, Seker Ahmet Pasa, morto all’inizio del Novecento. Lo scrittore non riesce a spiegarsi il suo interesse, diventato ben presto un’ossessione. S’informa su Seker Ahmet Pasa. Scopre che ha vissuto a Parigi, che ha lavorato e dipinto seguendo Courbet e la scuola di Barbizon, che poi è rientrato in patria divenendo uno dei maggiori pittori turchi, che è stato uno dei primi a introdurre un’ottica europea nell’arte del proprio paese.
Nel quadro è raffigurato un povero taglialegna che torna dal lavoro con l’asino carico; subito davanti a lui, gli alberi della foresta: due grandi fusti leggermente inclinati, un altro immenso tronco in secondo piano; sulla destra di chi guarda c’è l’inizio di una collina. Descrivendo l’opera in un breve saggio, raccolto l'anno successivo in Sul guardare (1980), Berger argomenta che ciò che l’ha colpito è un’incoerenza visiva, quasi un errore accademico, che fa sì che quel piccolo dipinto consenta di vedere le cose allo stesso tempo da dentro e da fuori: dal punto di vista del taglialegna, e insieme dal nostro, quello di osservatori. Ciò che non gli torna in Taglialegna nella foresta, scrive, è infatti l’orizzonte. Spiega meglio: lo spettatore, o il viaggiatore, guarda verso l’orizzonte, mentre per il contadino, che lavora chino a terra, “l’orizzonte è invisibile oppure è il bordo di un cielo che tutto avvolge e da cui arrivano il buono e il cattivo tempo”. Allo scrittore pare che nella pittura europea di paesaggio, salvo rare eccezioni, nessuno sia riuscito a dare voce all’esperienza visiva del contadino.
Seker Ahmet e la foresta non è probabilmente uno degli scritti più importanti di Sul guardare (uso questo aggettivo “importante” con il suo significato etimologico di reggere, sopportare, sostenere), ma è quello in cui viene posta la questione fondamentale anche per capire il lavoro poliedrico di Berger, e non solo quello: l’orizzonte come momento decisivo. Cosa intendo dire?
Per capirlo bisogna ricordare un momento della biografia dello scrittore inglese. Alla metà degli anni settanta, proprio quando sta completando questo libro, John Berger si trasferisce in un piccolo villaggio delle Alpi francesi che conta ottanta anime, Quincy, che è stata – lo ha ripetuto più volte – la sua vera università; da lì vengono, poi, anche molte delle storie che racconta. Quincy è anche il luogo che l’ha spinto a ripensare in modo radicale ciò che aveva scritto sino a quel momento. L’orizzonte da cui escono libri saggistici, acuti e insieme lirici, come Sul guardare o Sacche di resistenza (2001), libro successivo di vari anni, o il bellissimo libro di racconti Una volta in Europa (1987), è il piccolo villaggio francese. Questo è esattamente quello che Berger vede nel quadro del pittore turco: il suo stesso orizzonte.
Seker Ahmet, scrive, quando decise di passare dal linguaggio della tradizione pittorica turca, fondata sulle miniature tradizionali e sullo spazio spirituale, a quello della cultura occidentale, ha compiuto un passo impegnativo e problematico. La sua decisione non era tecnica, bensì ontologica. La prospettiva spaziale nella pittura di paesaggio dell’arte europea è strettamente connessa alla questione del tempo. Il sentiero su cui s’incammina il taglialegna è infatti quello del tempo unilineare. Esiste uno stretto parallelismo tra il modo di rappresentare pittoricamente lo spazio e i modi di raccontare le storie. Il romanzo moderno, ci ricorda Berger, è l’effetto della perdita dell’orizzonte contadino, “è l’espressione di uno sradicamento”: le forme narrative precedenti sono bidimensionali, non tridimensionali, “ma non per questo meno reali”. Che cos’è dunque l’orizzonte? Per spiegarlo Berger ricorre a un dialogo di Heidegger, L’abbandono: “il campo visivo è qualcosa di aperto, ma la sua apertura non è dovuta al nostro guardare”; e ancora: l’orizzonte pone il problema dell’ “approssimarsi della lontananza”.
Per afferrare la questione cruciale dell’orizzonte bisogna aprire e leggere Sacche di resistenza. Lì c’è uno scritto dedicato al Po, o meglio: al cinema di Michelangelo Antonioni. Come si sa la Pianura padana è il luogo in Italia dove l’orizzonte ha la sua massima estensione; per molti versi questa ampia pianura alluvionale è l’esatto contrario del paesaggio italiano, segnato invece dalla presenza di una valle chiusa, orientata verso il mare, custodita dalle colline: spazio circoscritto e definito. Il paesaggio padano è l’opposto: aperto, non-concluso, indefinito; forse per questo è anche uno dei paesaggi più misteriosi del mondo. Scrive Berger che in Olanda, luogo di spazi aperti e pianure, il cielo è sempre in tumulto. Nella Valle padana accade il contrario: grigio d’inverno, azzurrino d’estate, fumoso in autunno, il cielo è sempre uniforme. Proprio per questa ragione lì le cose appaiono; si tratta di uno spazio apparentemente senza tempo, perfetto per il cinema di Antonioni. Il regista inquadra le scene come “se il fulcro del suo interesse fosse sempre a fianco dell’evento rappresentato e il protagonista mai al centro, perché il centro è un destino incomprensibile dai contorni ancora troppo vaghi”.
Potremmo dire che tutto lo sforzo del lavoro di Berger si potrebbe compendiare in questo tentativo: trovare un centro, ma al tempo stesso non assumerlo come definitivo, proprio perché il destino, come ricordano i personaggi di Una volta in Europa, è appunto qualcosa d’incomprensibile. La lotta con il destino è per Berger quanto di più umano esista, sebbene si concluda sovente con una sconfitta, come nel caso di Odile, la protagonista del suo più bel racconto; ma per Odile la sconfitta è a sua volta un nuovo inizio.
Nel 1963 Berger si è recato a Colmar a vedere la pala di Grünewald. Lo racconta in Fra due Colmar. Si era allora alla vigilia di un cambiamento epocale che solo poche persone avevano previsto o presentito. Dieci anni dopo, nel 1973, poco dopo la sconfitta che è seguita a quel momento, il Sessantotto, Berger è tornato a osservare la pala commissionata al pittore dall’ordine degli Antoniti, che a Isenheim aveva un suo ospizio per i malati del fuoco di Sant’Antonio, i sifilitici, i lebbrosi, i malati della pelle. Il dipinto è una macchina terapeutica che procedeva dalla identificazione con il terribile crocefisso ulcerato e rappreso fino alla splendida resurrezione finale: un globo di luce iridescente che avvolge il Salvatore. I malati ne traevano giovamento, o almeno consolazione.
Mentre Berger è lì che osserva la pala, accade qualcosa. Da dietro le nubi esce il sole. Accade quello che Novalis ha condensato in una frase: “La percettibilità è una forma di attenzione”. Lo scrittore capisce, grazie al mutamento di orizzonte percettivo, che la pala è stata dipinta con “la luce fiammeggiante delle tenebre”. Comprende che “la speranza attrae, irradia come un punto a cui vogliamo essere vicini”, mentre “il dubbio non ha centro, è ubiquo”. Ancora l’orizzonte e il suo mistero: in un periodo di fede rivoluzionaria, scrive, egli ha visto un’antica disperazione; nel momento della sconfitta e della sofferenza, ha scorto la medesima opera aprire “miracolosamente un esile varco in mezzo alla disperazione”.
Come ha detto Heidegger in una celebre intervista: là dove massimo è il pericolo, massima è anche la possibilità di salvezza. Berger ci sta dicendo proprio questo, e altro ancora.
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L'orizzonte dà a vedere, ma nello spazio, e nel tempo, da esso aperto la realtà è tutta da scoprire, e per scoprirla lo strumento privilegiato è l'attenzione. Uno dei modi più efficaci di mettere in atto l'attenzione e quindi di scoprire la realtà, per Berger che non a caso è anche pittore, è il disegno, come egli ci spiega nel libro che nel 2005 ha dedicato appunto a questo tema: Sul disegnare (2005). L’atto del disegnare, più ancora che il risultato materiale. Un atto non solo visivo, bensì manuale. Meglio, mentale.
Come dice di Watteau e dei suoi disegni: “per un artista osservare non è solo questione di usare gli occhi; è il risultato della sua onestà, della sua lotta con se stesso per capire quello che vede”. La parola “onestà” non ha per Berger un significato morale, bensì estetico. Onesto da honos: onore. Il problema dell’arte è sempre un problema d’onore, di nobiltà d’animo, e questa nobiltà non si conquista con una forma di rettitudine morale – si pensi a Giacometti o a Bacon, artisti nobilissimi eppure, ciascuno a suo modo, artisti dell’infamia –, bensì attraverso la lotta, che è prima di tutto una lotta con se stessi, e poi con il mondo. L’artista lotta con quel mondo che è lui stesso. La sua integrità è tutta lì, costanza nel conflitto.
Tale costanza, pur nel fluire, ma anche nelle crepe e nei sussulti del tempo, oltre che nella diversità delle forme, degli strumenti e dei loro modi di funzionamento, è anche ciò che dà unità all'opera di Berger e le assicura l’intensità del dire e la coerenza e la compattezza del detto. Lo scrittore inglese è convinto di averla trovata, più che altrove, proprio nel disegno, nell’antica arte del “segnare intorno”: di-segno.
Ci sono, sostiene, tre modi di funzionare dei disegni – di funzionare, non di “essere”: quelli che studiano e interrogano il visibile; quelli che annotano e comunicano idee; e quelli fatti a memoria. La distinzione è interessante e sottile. Nel primo tipo di disegno, quello che un tempo si chiamava “studio”, le linee sono le tracce stesse dello sguardo dell’artista, il quale interroga la singolarità del reale, l’enigma di ciò che ha davanti agli occhi, “per quanto ordinario e quotidiano possa essere”. Si tratta insomma di una sorta di “migrazione ottica” dello sguardo dell’artista, quello che egli ha scelto di guardare: roccia, albero, animale, donna. Se il disegno riesce, dice Berger, “rimane lì per sempre”. Fa un esempio: lo studio di Leonardo sull’addome e la gamba sinistra di un uomo nudo in piedi e di profilo. Un disegno senza età, perché l’atto di guardare di Leonardo, come quello di un altro anonimo disegnatore, mettiamo, di un secolo o due dopo, è cambiato assai poco nel corso dei millenni. Era così per gli Egizi, è così per Giacometti. “Il tempo è obliterato – scrive – da un eterno presente. Presente indicativo”.
La seconda categoria segue un movimento opposto. Si tratta di portare sul foglio ciò che è già nell’occhio della mente. Sono disegni datati e databili, non mettono in gioco il visibile, ma dipendono dal linguaggio visivo di quell’epoca: Rinascimento, Manierismo, Romanticismo. Poussin e Rembrandt ne hanno fatti di questo genere. Somigliano ai giardini privati: “quando c’è abbastanza spazio, la visione rimane aperta e noi entriamo. Condizionale”.
Il terzo tipo di disegno è quello “fatto a memoria”. Appunti presi in fretta per un altro uso, dopo. Un modo per raccogliere informazioni, per conservare impressioni. Spesso funziona come esorcismo contro un ricordo che tormenta, per togliere dalla mente un’immagine che assilla. Goya è un grande disegnatore di questo genere. C’è un suo disegno che raffigura un prigioniero torturato dall’Inquisizione: indelebile. “Il disegno – scrive Berger – si limita a dichiarare: ho visto questo. Passato prossimo”.
Una volta stabilita questa partizione – una classificazione, ma anche una dichiarazione di poetica, un modo di vedere il mondo – Berger si chiede cosa sia poi, alla fin fine, il disegnare. E si risponde, da vero materialista: è la carta. Il segreto del disegno è proprio la carta. Fa l’esempio di un paesaggio montano disegnato da Pieter Bruegel: la carta che diventa immagine pur restando sempre carta. Un animale non potrebbe mai riconoscere il disegno, l’uomo sì. Disegnare è un atto umano. E sulla carta si palesa ciò che è proprio dell’uomo: progettare. Sulla carta realtà e progetto sono inseparabili “poiché impiegano il futuro, simili disegni prevedono. Per sempre”.
Poche pagine più avanti, nel libro, Berger parla di un suo disegno – da vero scrittore egli disegna – che ha fatto al padre nella bara, appena morto. Disegnare qualcosa che si è manifestato nel tempo, che è visibile, e non si manifesterà mai più, afferma. Sono pagine struggenti, non tanto per il tema affettivo – il padre morto –, bensì per la riflessione sul tempo, sulla concreta lotta con il tempo che conduce ogni artista e ogni scrittore. Il visivo “è sempre il risultato di un incontro momentaneo e irripetibile”. Cita una frase di Cézanne: “Un attimo nella vita del mondo sta passando. Dipingilo com’è”.
Mentre leggo queste frasi di Berger, dette in modo così lirico, eppure secco, mi viene fatto di pensare: come distinguere un vero artista da uno che non lo è? Un vero scrittore da uno che riempie solo delle pagine? Dov’è il discrimine tra la letteratura che possiamo chiamare “industriale” e la vera letteratura? Nella lotta con il tempo. La lotta per dire contro il tempo, per salvare qualcosa del visibile, non per sorprenderci, colpirci, stupirci, blandirci, sedurci, affascinarci? No, la differenza sta solo nella nuda lotta col tempo. Per questo l’arte e la letteratura sono il terreno dell’onestà, dell’onore, ci dice Berger. Per questo il suo libro non ci parla solo del disegnare, ma anche dello scrivere.
C’è un suo breve racconto, con i disegni di Paul Davis, La tenda rossa di Bologna, pubblicato da un piccolo editore italo-inglese, Drawbridge Books, nel corso del 2007, dove Berger racconta la sua vocazione di scrittore attraverso la figura di uno zio e intanto salva dal flusso del tempo un atto del visibile: una visita a Bologna. Possiede una forma lirica, dolce e delicata, come un disegno fatto a memoria. Ma è solo nella corrispondenza con James Elkin in Sul disegnare che Berger chiarisce fino in fondo la propria idea del disegno, e dell’arte. Elkin, che insegna disegno, dice: hai ragione, il disegno cerca di abolire il principio di Sparizione, ma non ci riesce.
Fa l’esempio di Giacometti, nel restringersi delle sue teste nel segno: sempre più piccole, quasi a scomparire. Berger replica: non sono d’accordo, perché “senza distanza (spazio) non ci sarebbe nulla! Le teste di Giacometti non sono sul punto di sparire, ma al contrario sono sempre lì! Per questo non possiamo dimenticarle”, aggiunge.
In My Beautiful, riflessioni sulle fotografie di Marc Trivier dedicate alle sculture di Giacometti, libro straordinario, Berger spiega questo pensiero in modo poetico. Disegnare, risponde a Elkin, “è toccare la resistenza”. È il punto dell’intero libro, e di Berger stesso, dove si congiungono poesia e politica: è il suo modo di essere uno scrittore dedito all’onore e insieme alla bellezza, uno scrittore di giustizia, in senso biblico. Resistere a cosa?
Al tempo: “disegnare è implicare quel che non ci sarà più quando in seguito guarderemo il disegno”. Di più: “i disegni offrono ospitalità all’invisibile compagnia che è al nostro fianco”. I disegni di Giacometti, come quelli di Rembrandt, “non piangono la distanza, ma rispondono a una sola parola: QUI”. Il disegno non è dunque un concetto, ma si riferisce alla struttura essenziale dello spirito umano, “senza il quale non ci sarebbe nessun riconoscimento della distanza”. Un pensiero che mi stordisce, e mi riverbera dentro la realtà, il mondo, tutto il mondo.
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“Qui” è il titolo della seconda parte di E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto (1984), mentre quello della prima parte suona "Una volta". In esse Berger parla rispettivamente dello spazio e del tempo: del riconoscimento della distanza e della separazione. E lo fa, più ancora che di consueto, senza operare transizioni nette tra disegno e scrittura, tra parole e immagini, tra generi e stili, in modo più significativo quanto più di ciascuno riconosce caratteri e forza. Nella copertina dell’edizione originale non ci sono immagini. L’autore – ricorda Maria Nadotti che l’ha tradotto in italiano – ha tracciato sul rettangolo di carta opaca questa frase in color tortora, e poi ha firmato col proprio nome e cognome: John Berger. Non è un titolo, ma piuttosto un autografo.
Nella versione italiana del volume, la prima edizione apparsa nel 2002 presso L’ancora del Mediterraneo, Berger ha ripetuto il medesimo gesto calligrafico, nella nostra lingua, questa volta: E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto; non su un fondo uniforme, bensì sul lato destro di una fotografia. L’ha scattata Antonio Biasucci e rappresenta un albero: un lungo tronco senza rami né foglie sotto cui sta seduta, la vediamo appena, una coppia (così sembrerebbe: lei vestita di bianco e lui che le passa il braccio intorno alla vita).
L’albero è esso stesso un segno calligrafico, un’improbabile linea color seppia che partisce lo spazio della copertina. Il libro di Berger è davvero inconsueto e originale. Composto di poesie e di prose che si mescolano, si succedono, senza un ordine prestabilito. Quando lo scrittore vuole parlare di alcune cose che gli stanno a cuore, passa dalla prosa alla poesia, senza stacco, senza segnalarlo: dal saggio ai versi; ma accade anche il contrario: dai versi all’argomentazione saggistica. Senza dubbio la poesia appare più immediata della prosa, più diretta, ma anche meno comprensibile, più misteriosa, più criptica.
E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto è un libro che parla di molte cose; lo fa con un tono e un garbo davvero rari. È un libro di pensieri, ma anche d’intensità emotive. È una serie di lettere d’amore, ma anche un diario; un libro sulle concezioni del tempo, ma anche sulla pittura (Caravaggio, Rembrandt) e insieme sulla sessualità; una riflessione sull’atto del vedere, ma anche sul tema dell’emigrazione. Uno di quei libri che o si amano follemente oppure si decide di non sfogliare neppure (grave perdita).
Non bisogna dimenticare che John Berger è anche uno scrittore politico, ma non certo nel senso tradizionale del termine. Come fa notare Maria Nadotti, “non c’è discorso più pubblico e politico, più radicalmente comunitario, di quello sui sentimenti e sull’intimità”. E di questo scrive qui Berger. L’interrogazione sul tempo domina i primi brevissimi capitoli, dedicati indifferentemente alla poesia (“Il poeta pone il linguaggio oltre la portata del tempo”), e alla pittura (“I dipinti sono statici”). Guardare più e più volte un dipinto – per giorni o nel corso di anni – “è un’esperienza unica perché, mentre tutto cambia, l’immagine resta uguale a se stessa”. Berger distingue la pittura dalla fotografia attraverso il loro rapporto col tempo: mentre esiste l’istante fotografico, come porzione prelevata dal flusso temporale, l’istante pittorico non è mai esistito (i dipinti non fissano l’istante).
C’è in E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto un desiderio di conciliarsi col tempo, con lo scorrere stesso del tempo, proprio mentre in Occidente, all’apogeo del suo sistema economico e sociale (ricordiamo che il libro è uscito in originale nel 1984), domina incontrastata la Pratica-Istantanea: “L’età moderna della quantificazione inizia con l’algebra e il calcolo infinitesimale. Ne deriva che non conta più ciò che si ha, ma ciò che non si ha. Tutto si trasforma in perdita”. Berger collega il processo d’invecchiamento alla sessualità. Se noi non invecchiassimo, non fossimo destinati alla morte, la riproduzione stessa non avrebbe senso, e con essa la sessualità medesima. Con la sessualità la specie scavalca la morte: “L’animale sessuale – come il chicco di grano – è il condotto che dal passato immette nel futuro”.
La perdita, intesa anche come sradicamento, migrazione forzata o scelta, è la vera condizione della contemporaneità. Il XX secolo, scrive il saggio storyteller inglese, è stato, e ancora è, il secolo dell’esilio. E anche della separazione. L’opposto dell’amore non è infatti l’odio, ma la separazione: tutte le passioni vengono messe alla prova dalla separazione. Che è un’esperienza essenzialmente spaziale: “la forza da cui ha avuto origine lo spazio è stata con ogni probabilità un’alternanza di espulsione e attrazione, estensione e passione. Ecco perché, in ogni lingua, l’amore parla di stelle. Ed ecco perché ogni cosmologia ritorna sulla sessualità”.
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Uno dei simboli principali della separazione è il muro, e davvero la nostra è “l’epoca del muro”, pensa Berger mentre visita al Museo Maillot di Parigi la mostra di Francis Bacon nel maggio del 2004. Per cinquant'anni il critico e scrittore inglese ha mal giudicato il suo conterraneo, convinto che dipingesse per sconcertare se stesso e gli altri. Una pittura compiaciuta, pensava. All’improvviso, davanti ai suoi ritratti, ai corpi in agonia o smembrati, Berger ha un'illuminazione: Van Gogh, che dipingeva avendo nella testa l'ardente fede ottocentesca nella democrazia, in realtà ci rivela che i corpi umani sono in rovina, impotenti davanti alla crudeltà; Bacon raccoglie quei brandelli e “li usa come tamponi”.
Da Bacon alla situazione attuale, quella che stiamo vivendo, segnata dalla guerra in Iraq, dalla costruzione del Muro nei Territori occupati, dagli attentati suicidi in Israele, ma anche viceversa: dal terrore continuo alla lettura delle opere del pittore inglese. La conclusione di Berger è fulminante: “Oggi servirsi del vocabolario tradizionale, usato dai potenti e dai media, non fa che aumentare l'oscurità e la desolazione in cui siamo immersi. Il che significa essenzialmente rimanere in silenzio. Significa scegliere le voci a cui vogliamo unirci”.
Berger, che ha superato gli ottant'anni, è probabilmente, come si diceva in apertura, l'ultimo scrittore politico europeo in circolazione, in ogni caso l'unico che sia rimasto testardamente legato a una lettura realista e insieme poetica del mondo, l'unico che somigli per passione e insistenza a Pier Paolo Pasolini, di cui continua lo spirito profetico in un'età in cui gli intellettuali si sono trasformati in consulenti, opinion maker, brillanti tornitori delle viti del presente. Berger è ancora uno scrittore contro.
Lo è senza passare attraverso l'uso del paradosso, genere in cui uno scrittore come Enzensberger è invece maestro. E non è neppure uno scrittore politico alla Grass, controcorrente, ma sempre lungo la strada principale. Berger è un poeta come si comprende ancora una volta leggendo la raccolta di interventi politici, Abbi cara ogni cosa, apparsi tra il 2001 e il 2007. Lo è per come scrive, per il ritmo che hanno le sue frasi, per la costruzione dei testi, piccoli collage di proprie e altrui parole, per il continuo rimando tra l'attualità e l'arte. Berger si mette dentro i pezzi che scrive, in senso fisico, getta pasolinianamente il proprio corpo nella lotta, un corpo fatto di parole, sensazioni, momenti.
Ecco, la parola giusta per afferrare il lavoro di Berger è “istante” – un’altra delle parole che ci portano dritti dritti al centro del suo lavoro. Istante: il momento in cui lo scrittore cammina lungo una stradina pietrosa in una valle a Sud di Ramallah, oppure visita la mostra di Bacon nella capitale francese, o si concentra a scrivere al suo tavolo di lavoro nella casa del piccolo paese delle Alpi dove vive. L'istante è l'eternità, qualcosa di assoluto, il punto di congiunzione tra i vivi e i morti. Meglio: il modo attraverso cui i vivi sperimentano l'atemporalità dei morti, entrano in contatto con loro. L'assoluto è compartecipato così.
L'istanza politica di Berger si situa qui, in una visione del tempo che supera gli schemi ideologici e attinge a una forma di utopia, quella marxista. Questa è la comune radice con Pasolini, scrittore utopico. Spesso qualcuno torna a chiedersi: cosa avrebbe detto Pasolini? Cosa avrebbe scritto della guerra irachena, della deflagrazione delle Torri gemelle, del terrorismo islamico? Berger risponde a questi interrogativi come se fosse Pasolini – eppure non lo è, per via della sua straordinaria bontà, sentimento che invece non apparteneva all'eternamente ferito poeta friulano, dolce e insieme violento.
Lui, ebreo di ascendenze mitteleuropee, visita la Palestina e descrive lo stato di subordinazione violenta in cui è tenuto quel paese dalle truppe d'occupazione israeliane; londinese espatriato guarda con angoscia l'attacco terroristico alla sua città, vede gli infiniti patimenti dei poveri nel mondo e chiama gli oppressori per nome e cognome. Ci chiede di avere cara ogni cosa, uomo, parola o pietra che sia, di dire da che parte stiamo, di scegliere “tra il rispetto di sé e il caos di sé”.
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Berger fa della letteratura il principale strumento per indagare e difendere i sentimenti più intimi dell'uomo. L'altro aspetto fondamentale del suo lavoro è di essere uno storyteller, ovvero un narratore di storie nell'epoca in cui questo mestiere sembrerebbe definitivamente tramontato a vantaggio del romanziere. Il narratore, secondo la celebre definizione di Walter Benjamin, è una “persona di consiglio” per chi l'ascolta; il suo orientamento è pratico (“consiglio, cucito nella stoffa della vita, è saggezza”, dice il filosofo e scrittore tedesco); al contrario, scrivere un romanzo “significa esasperare l'incommensurabile nella rappresentazione della vita umana”. La vita vissuta, raccontata nei brevi affascinanti racconti-istantanee di Fotocopie (1996),è la fonte principale della narrazione di Berger che è insieme un narratore e un ascoltatore: un narratore perché sa ascoltare. Anche per questo nello scrittore inglese, che ha pure centrato la propria attenzione sui temi visivi, è decisiva, come già si è detto, l'insistenza sul tema del tempo.
In un film-documentario girato nella Pianura padana dallo scrittore Gianni Celati, Case sparse, dedicato alle case abbandonate dai contadini, Berger è seduto in riva al Po. Si appoggia a un tavolo e parla con alcuni fogli davanti. Riflette ad alta voce sul rifiuto dell'uomo contemporaneo del tempo che passa, delle rovine, di quella rovina vissuta che diventa, con il trascorrere degli anni, il volto dell'uomo. Più avanti, nel corso del film, Berger è in piedi dentro un edificio semicrollato. Indica fuori dalla finestra una piantagione di pioppi. Gli alberi sono perfettamente allineati lungo linee parallele, così da creare naturali prospettive in tante direzioni. Non una sola, bensì molte prospettive.
Berger parla della Storia, dell'inganno dell'ideologia della Storia: “A scuola ci insegnano che c'è un unico sentiero, il grande sentiero della Storia, la grande interpretazione storica del passato che sarebbe la via principale. Balle! In realtà, quando ci si trova davvero di fronte al passato, ci sono tanti sentieri da prendere, forse tanti quante sono le persone che guardano e scelgono le loro strade”. In questa frase detta davanti alla macchina da presa c'è l'intera idea del suo narrare, e del suo vivere.
John Berger è un uomo, uno scrittore, cui piace avviarsi non verso un'unica direzione, ma verso tante. Gli piace l'idea dello scrivere come ascolto, ma anche come vagabondaggio: l'andare nomade verso non un solo, ma molti destini, non solo individuali, ma anche collettivi.