Riga n.
Alberto Arbasino
Roland Barthes
Come vivere insieme

il metodo e la cultura (12 gennaio 1977) Metodo? Al momento di iniziare questo nuovo corso, penso a un’opposizione nietzschiana cara a Deleuze: metodo/cultura. Il metodo suppone «una buona volontà del pensatore», «una decisione premeditata». Di fatto, un «mezzo per evitare di andare in un certo luogo, o per garantirsi la possibilità di uscirne (il filo nel labirinto)». Effettivamente, nelle cosiddette scienze umane – compresa la semiologia positiva – metodo (io stesso ne sono stato attratto): 1. Procedimento verso un fine, protocollo di operazioni volte a ottenere un risultato; ad esempio: metodo per decifrare, per spiegare, per descrivere esaustivamente. 2. Idea di strada dritta (che procede verso uno scopo). Paradossalmente, la retta via designa i luoghi dove in realtà il soggetto non vuole andare: feticizza il fine come luogo e attraverso questo procedimento, scartando altri luoghi, il metodo entra al servizio di una generalità, di una «moralità» (equazione kirkegaardiana). Il soggetto, per esempio, abdica a ciò che non conosce di se stesso, il suo irriducibile, la sua forza (senza parlare del suo inconscio). cultura: Nietzsche (≠ senso umanista, irenico) = «violenza subita dal pensiero», «una formazione del pensiero sotto l’azione di forze selettive, un addestramento che mette in gioco l’inconscio del pensatore» = la paideia dei Greci (che non parlavano di «metodo»). «Addestramento», «forza», «violenza»: non bisogna prendere queste parole in senso proprio. Si deve tornare all’idea nietzschiana di forza (e non è questo il luogo adatto per farlo), come generazione di una differenza: si può essere gentili, anche educati! E stare nella paideia. Cultura, come «addestramento» (≠ metodo), rinvia per me all’immagine di una sorta di dispatching dal tracciato eccentrico: esitare tra frammenti, frontiere di saperi, di sapori. Paradossalmente, cultura così intesa, nel senso di riconoscimento di forze, è antipatica all’idea di potere (che è nel metodo). (Volontà di potenza ≠ volontà di potere). Si tratta quindi, almeno in senso postulativo, di cultura, non di metodo. Non avere aspettative sul metodo – a meno di non considerare la parola nel senso che le attribuiva Mallarmé: «finzione»: linguaggio che riflette sul linguaggio. ➝ Esercizio della cultura = ascolto delle forze. Ora, la prima forza che posso interrogare, interpellare, quella che conosco di me, anche attraverso l’inganno dell’immaginario, è la forza del desiderio, o per essere più precisi (giacché si tratta di una ricerca), la figura del fantasma. Fantasma Cfr. Lezione inaugurale sull’insegnamento fantasmatico. Far partire la ricerca (ogni anno) da un fantasma. Scienza e fantasma: Bachelard: groviglio di scienza e immaginario (XVIII secolo). Ma moralismo di Bachelard: la scienza si costituirebbe per decantazione dei fantasmi. Senza discutere questo concetto (si potrebbe dire che non vi è decantazione, ma sovrimpressione del fantasma e della scienza), immaginiamo di trovarci prima di tale decantazione. ➝ Il fantasma come origine della cultura (come generatore di forze, di differenze). Prima di raccontare il mio fantasma originale (nulla d’indecente), qualche parola sulla forza fantasmatica in generale del Vivere-Insieme. Osservazioni: 1. Non mi occuperò del Falansterio, se non in modo episodico, per quanto sia evidente che Falansterio = forma fantasmatica del Vivere-Insieme. Due parole, comunque. In Fourier il fantasma del Falansterio, paradossalmente, non parte da un’oppressione della solitudine ma da un gusto della solitudine: «Amo essere solo». Il fantasma non è una contronegazione, né il luogo di una frustrazione vissuta come opposto: le visioni eudemoniche coesistono senza contraddirsi. Fantasma: scenario molto positivo che mette in scena il positivo del desiderio, che conosce solo elementi positivi. In altre parole, il fantasma non è dialettico (evidentemente!). Fantasmaticamente, non è contraddittorio voler vivere soli e voler vivere insieme = il nostro corso. 2. Sempre a proposito di Fourier: l’utopia si radica in un certo quotidiano. Più il quotidiano del soggetto è pregnante (sul suo pensiero), più l’utopia è forte (ben rifinita): Fourier è un utopista migliore di Platone. Qual era il quotidiano di Fourier? Due suoi commentatori (Armand e Maublanc) lo hanno sottolineato – e un terzo (Desroche) se ne è indignato (certamente a torto): «Il falansterio è un paradiso creato a proprio uso e consumo da un vecchio habitué di pensioni e bordelli» . Pensioni, bordelli (o luoghi simili): eccellente materiale di utopia. 3. Altra prova della forza fantasmatica del Vivere-Insieme: «ben» vivere insieme, «ben» coabitare; l’aspetto più affascinante nella vita degli altri, ciò di cui si può essere più gelosi: coppie riuscite, gruppi affiatati, persino famiglie unite. È il mito (l’inganno?) allo stato puro: la buona materia romanzesca. (Non esisterebbero famiglie se non ci fossero famiglie riuscite!) 4. Ho detto: il fantasma non è il contrario del suo contrario razionale, logico. Ma all’interno stesso del fantasma possono esservi contro-immagini, fantasmi negativi (opposizione tra due immagini fantasmatiche, due scenari – e non tra un’immagine e una realtà). Ad esempio: a. Essere rinchiusi per l’eternità con gente sgradevole seduta accanto a noi al ristorante = l’immagine infernale del Vivere-Insieme: il huis-clos. b. Altro fantasma orribile del Vivere-Insieme: essere orfano e ritrovarsi un padre volgare, una famiglia scalcinata: Senza famiglia (➝ Vivere insieme: ritrovarsi un «buon» padre, una «buona» famiglia: una Famiglia-Bene sovrano? Nell’ottica analitica, il vero fantasma! Il Familien-Roman). 5. A titolo di escursione fantasiosa: certo, considereremo il Vivere-Insieme come un fatto essenzialmente spaziale (vivere nello stesso luogo). Ma allo stato naturale il Vivere-Insieme è anche temporale, e bisogna considerare questo aspetto: «vivere contemporaneamente a…», «vivere nello stesso tempo di…» = la contemporaneità. Per fare un esempio, potrei sostenere senza mentire che Marx, Mallarmé, Nietzsche e Freud sono vissuti ventisette anni insieme. Potremmo pensare di riunirli in una città svizzera nel 1876 per – ultimo indizio del Vivere-Insieme – «discutere insieme». Freud aveva allora vent’anni, Nietzsche trentadue, Mallarmé trentaquattro e Marx cinquantasei. (Ci si potrebbe chiedere chi sia ora il più vecchio.) Questa fantasia di concomitanza vuole mettere in guardia rispetto a un fenomeno molto complesso, poco studiato, mi pare: la contemporaneità. Di chi sono contemporaneo? Con chi vivo? Il calendario non basta. È ciò che indica il nostro piccolo gioco cronologico – a meno che non diventino contemporanei ora? Da studiare: gli effetti dei sensi cronologici (cfr. le illusioni ottiche). Forse si aprirebbe un paradosso: un rapporto insospettato tra il contemporaneo e l’intempestivo – come l’incontro di Marx e Mallarmé, di Mallarmé e Freud sul tavolo del tempo. Il mio fantasma: l’idiorritmia Un fantasma (o almeno ciò che io definisco tale): un ritorno di desideri, di immagini, che vagano, si cercano in voi, anche per tutta una vita, e spesso si cristallizzano solo attraverso una parola. La parola, significante maggiore, indotto dal fantasma alla sua esplorazione. Il suo utilizzo attraverso diversi frammenti di sapere = la ricerca. Il fantasma si sfrutta come una miniera a cielo aperto. Per me, il fantasma che si cercava [non era] in nessun modo legato al tema dei due ultimi anni (il «Discorso amoroso» ). Non era l’uso di un fantasma (≠ il Vivere-Insieme). Qui, non si tratta del Vivere-in-due, il Discorso simil-coniugale che subentra – per miracolo – al Discorso amoroso. [È] un fantasma di vita, di regime, di genere di vita, diaita, dieta. Né duale, né plurale (collettivo). Una sorta di solitudine interrotta in un modo definito: il paradosso, la contraddizione, l’aporia di una condivisione delle distanze – l’utopia di un socialismo delle distanze (Nietzsche parla, per le epoche forti, non gregarie, come il Rinascimento, di un «pathos delle distanze»). (Tutto questo è ancora approssimativo.) Ora, questo fantasma, in occasione di una lettura gratuita (Lacarrière, L’été grec), ha trovato la parola che lo ha fatto lavorare. Sul monte Athos: conventi cenobitici + monaci allo stesso tempo isolati e relegati all’interno di una certa struttura (gli elementi di questa struttura saranno descritti al momento opportuno) = agglomerati idiorritmici. Ogni soggetto vi ha il suo ritmo proprio. 1. Bisogna capire che affinché vi sia fantasma dev’esserci la scena (lo scenario), cioè il luogo. Athos (dove non sono mai stato) procura un misto di immagini: Mediterraneo, terrazza, montagna (nel fantasma, si annulla; qui, la miseria, la fede). In sostanza, è un paesaggio. Mi vedo laggiù, affacciato a una terrazza, il mare in lontananza, l’intonaco bianco, con due camere a mia disposizione e altrettante, non lontano, per qualche amico + un’occasione di sinassi (biblioteca). Fantasma purissimo che prescinde dalle difficoltà che si presentano come apparizioni (questo: un po’ il tema del corso). «Idiorritmia», «idiorritmico»: è stato il termine che ha trasformato il fantasma in un campo del sapere. Attraverso questa parola, accedevo a cose che potevano essere apprese. Non significa che abbia potuto impararle, giacché le mie ricerche, sul piano bibliografico, sono spesso risultate deludenti. Ad esempio, le forme monastiche di idiorritmia, i beghinaggi, i Solitari di Port-Royal e le piccole comunità non mi hanno condotto a nulla (ci tornerò) – come tornerò sulla predominanza dei modelli religiosi. 2. Excursus: riferimento all’importante articolo di Benveniste sul concetto di «ritmo», Problemi di linguistica generale, I, cap. XXVII. Rhuthmos: si collega a rhein (è corretto sul piano morfologico, ma attraverso una scorciatoia semantica che Benveniste demistifica): «movimento regolare di onde»! Allora, la storia della parola: completamente diversa. Origine: antica filosofia ionica, Leucippo, Democrito, creatori dell’atomismo: parola tecnica della dottrina. Fino al periodo attico, rhuthmos non significa mai «ritmo», non è applicato al movimento regolare delle onde. Il senso è piuttosto: forma distintiva, figura proporzionata, disposizione; molto simile e diverso da schèma. Schèma = forma fissa, definita, posta come un oggetto (statua, oratore, figura coreografica). Schèma ≠ forma, nell’istante in cui questa è assunta da ciò che è in movimento, mobile, fluido, forma di qualcosa che non ha consistenza organica. Rhuthmos = pattern di un elemento fluido (lettera, péplos, umore), forma improvvisata, modificabile. Nella dottrina, modo particolare, per gli atomi, di fluire, configurazione senza fissità né necessità naturale: un «fluttuamento» (in senso musicale, cioè moderno: Platone, Filebo). Questo ricordo etimologico è importante: 1. Idiorritmo, quasi un pleonasmo, in quanto il rhuthmos è per definizione individuale: interstizi, fuggevolezza del codice, del modo in cui il soggetto si inserisce nel codice sociale (o naturale). 2. Rimanda alle forme sottili del genere di vita: gli stati d’animo, le configurazioni non stabili, i passaggi depressivi o esaltati; insomma, il contrario di una cadenza imperiosa, implacabile nella sua regolarità. Abbiamo dovuto aggiungere idios a ritmo poiché questo ha assunto un significato repressivo (vedi il ritmo di vita di un cenobita o di un falansteriano, che deve agire in un quarto d’ora): idios ≠ ritmo idios = rhuthmos Nel suo luogo originario (l’Athos), l’idiorritmia caratterizza la proporzione di comunità fantasmata – quello è il suo vantaggio, la sua forza motrice (per me). Proporzione = una ontologia dell’oggetto. Architettura. Ingrandimento: Cézanne/De Staël. In effetti, il fantasma = un proiettore netto, potente, sicuro, che taglia la scena illuminata in cui si insedia il desiderio lasciando nell’ombra i due lati della scena: 1. La coppia. Forse coppie idiorritmiche? Il problema non è questo. Il luogo della coppia non è spazzato via dal fantasma che appunto non vuole vedere l’immutabile camera da letto, la chiusura e la legalità, la legittimità del desiderio. L’appartamento centrale non può essere idiorritmico. Si potrebbe decidere di non parlare della coppia (o di coppie in quanto insiemi o elementi esterni), come al momento della sua fondazione la Società di Linguistica aveva deciso per statuto di non accettare interventi sull’origine del linguaggio. Aggiungiamo: il Sistema-Famiglia blocca ogni possibile esperienza di anacoresi, di idiorritmia. Nelle moderne «comuni» le famiglie si ricostituiscono e la comune fallisce a causa dell’incontro tra legge e sessualità. 2. All’altra estremità della scena, sempre nell’ombra: i macro-raggruppamenti, le grandi comuni, i falansteri, i conventi, il cenobitismo. Perché? Voglio dire: perché il fantasma non incontra queste grandi forme? Evidente: perché sono strutturate secondo un’architettura del potere (tornerò su questo concetto), e sono dichiaratamente ostili all’idiorritmia (è anche per questo, o contro questo, che le si costituisce storicamente – le si è costituite). Vedi la disumanità intrinseca del falansterio fourierista: l’opposto stesso dell’idiorritmia, con il suo timing di quarto d’ora in quarto d’ora: caserme, internati. Precisiamo inoltre: siamo alla ricerca di una zona situata tra due forme eccessive: − una forma eccessiva negativa: la solitudine, l’eremitismo − una forma eccessiva integrativa: il coenobium (laico o meno) − una forma mediana, utopica, edenica, idillica: l’idiorritmia. Notiamo che tale forma è molto eccentrica: non ha mai veramente preso piede in ambito ecclesiastico (sul monte Athos, abbandonata), che di fatto l’ha sempre combattuta (san Benedetto contro i Sarabaiti, monaci che vivono a piccoli gruppi di due o tre, soddisfazione dei desideri). D’altra parte, la psicanalisi non si è dedicata ai «piccoli gruppi». O il soggetto nella sua cerchia familiare, oppure la folla (a parte il libro di Walter Ruprecht Bion Esperienze nei gruppi e altri saggi, Armando, Roma, 1971; particolare: gruppi in ambito ospedaliero, libro assai poco chiaro). Insomma: né monasteri, né famiglia, sfuggendo alle grandi forme repressive. Per concludere questa prima presentazione dell’idiorritmia, aggiungo un elemento che mi pare caratterizzi il problema in modo topico. Dalla mia finestra (1° dicembre 1976) vedo una madre che spinge una carrozzina vuota con un bimbo per mano. Procede imperturbabile al suo passo adulto, tirando e sballottando il bambino, costretto ad arrancarle dietro come un animale o una vittima sadiana sotto il tiro della frusta. Va al suo ritmo, senza rendersi conto che quello del bambino è diverso. Eppure è sua madre! ➝ Il potere – la sottigliezza del potere – passa per la disritmia, l’eteroritmia. Monachesimo Forze attraverso le quali il fantasma accede alla cultura, o apre ad essa: non agiscono direttamente, subiscono tensioni imprevedibili. Esempio: fantasma di vita libera per alcuni ➝ idiorritmia Athos. ➝ Ritrovare in questa forma temi, tratti, strutture che permettano di delucidare problemi contemporanei. Non problemi generali, culturali, sociologici (ad esempio le comunità o comuni), ma problemi idiolettali: ciò che vedo intorno a me, negli amici, ciò che si postula in me. Si poteva pensare: direzione di una psicologia passionale, rapporto con gli altri, con l’altro. In realtà, qui, deviazione imprevedibile: il cristallizzatore, Athos, determina certe letture. Brancolamenti nei romanzi (molti romanzi della coppia, pochi sui piccoli gruppi) + lettura più sistematica: la vita (nel senso di diaita) monastica. Ora, queste letture si rivelano appassionanti, senza che si possa sapere quale fantasma toccano (sicuramente toccano un fantasma, non un significato: nessuna conversione alla spiritualità monacale). ➝ Investimento già squilibrante nel materiale monastico. E poi ancora una tensione: il fantasma, visibilmente, ripugna al cenobitismo. L’esplorazione di lettura si allontana dal cenobitismo occidentale di modello benedettino (VI secolo), e si interessa alle forme precenobitiche: eremitiche o semianacoretiche (idiorritmia), ovvero al monachesimo orientale (Egitto, Costantinopoli). D’altronde, da lì si torna all’Athos. A questo proposito voglio, una volta per tutte, precisare bene qualche data (vedi schema successivo). Notiamo che tutto si è giocato nel IV secolo. Questa data determina almeno un effetto di senso impressionante. Il cenobitismo, come liquidazione dell’anacoretismo (eretismo, semi-anacoretismo e idiorritmia, considerati pericolose marginalità, resistenti all’integrazione in una struttura di potere), è strettamente contemporaneo (con Pacomio) al al capovolgimento che ha trasformato il cristianesimo da religione perseguitata (dei martiri) a religione di Stato, ovvero dal Non-Potere (o Depotere) al Potere. Il 380, data dell’editto di Teodosio, è forse la data più importante (e meno nota: chi la conosce?) della storia del nostro mondo: collusione di religione e potere, creazione di nuove marginalità, separazione tra Oriente e Occidente ➝ occidentalocentrismo (trionfo del cenobitismo). Diocleziano (275-305 - fine III sec.); Antonio nel deserto; Eremitismo Conversione Costantino (313 - inizio IV); Anacoreti intorno ad Antonio (Sinai); Semi-anacoretismo (314 - inizio IV); Pacomio inaugura in cenobitismo; Idiorritmia Cristianesimo religione di Stato (380 Editto di Teodosio - fine IV-V); S. Agostino: Regola di S. Agostino; Stiliti Divisione Oriente/Occidente (395 - VI); San Benedetto sul monte Cassino; Cenobitismo occidentale (534 - X); Fondazione di laura sul monte Athos. chiusura (2 marzo 1977) Chiusura – enclosure – dello spazio vitale: dossier molto vasto, in cui gli elementi provengono da scienze diverse. Tema davvero pluridisciplinare. Indico qui soltanto le funzioni antropologiche della chiusura. Funzioni Antropologia: chiusura deve essere messa in relazione con un fatto etologico: animali da territorio (torneremo senz’altro su questo termine). Spazio di sicurezza (cibo, riproduzione) nel quale non sono tollerate intrusioni del vicino. Ogni soggetto è dominante a casa sua. Soprattutto: roditori, carnivori, ongulati, primati – e certi uccelli (il pettirosso, ad esempio). Leroi-Gourhan: l’uomo = animale territoriale, come il cervo e il pettirosso . La nozione di territorio è connessa all’opposizione pubblico/privato. È un’opposizione che ha aspetti storici, ideologici (legislazione, difesa legale del «privato»), ma un fondo antropologico. Il privato, è il territorio. Possono esservi cerchi concentrici (concentrati) di privato, vale a dire un territorio in un territorio: possedimento ➝ casa (braccianti agricoli esclusi) ➝ camera (non tutti gli abitanti della casa vi sono ammessi) ➝ letto. Territorio della zia Léonie: il suo letto, un tavolo di fianco alla finestra = il suo privato assoluto ≠ repressione (prigioni, ospedali, caserme, internati: divieto di privato, di territorio). Etologia: il territorio non è solo proibito, è anche segnalato (l’ippopotamo marca il suo territorio con gli escrementi). Se ne deducono due funzioni della chiusura (nel suo rapporto originale con il territorio): di protezione, di definizione. a. Protezione Funzione protettiva della chiusura. Solo per memoria, poiché è banale ed è un dossier vastissimo: l’etologia, l’architettura, l’ideologia (trasformazione del territorio in proprietà, della protezione in divieto). Notiamo soltanto, dal nostro corpus: 1. Monasteri. Materialmente chiusi: muri di delimitazione + «Clausura» in senso monastico. Sezione vietata ai secolari; chiusura rispetto al mondo, negazione dell’elemento mondano in quanto altera l’identità del monaco; divieto legato a uno spazio sacro, ovvero consacrato (il monaco è consacrato dai suoi voti; cfr. studi di Benveniste sul sacro). ≠ Spazi idiorritmici (eccetto i beghinaggi). Senza chiusura, o a chiusura leggera, lassista. L’idiorritmia non protegge una «purezza», cioè un’identità. La sua modalità di insediamento nello spazio: non la concentrazione, ma la dispersione, il distanziamento. 2. Descrizione della chiusura-protezione: Robinson Crusoe. Robinson: protezione minuziosa, quasi delirante (quasi ossessiva) contro l’uomo. Non appena appare la possibilità (tracce) di un altro uomo: misure folli di protezione; casa completamente nascosta, invisibile, tutto un sistema di difesa, di nascondigli. ➝ la chiusura come delirio, come esperienza-limite (cfr. infra). b. Definizione È il senso di «definire»: tracciare limiti, frontiere. Chiusura = definizione del territorio, e dunque dell’identità del suo / dei suoi occupanti. Per esempio: 1. Monasteri buddisti (a Ceylon). Costruzioni distribuite in un cortile-giardino: vi è chiusura, ma (≠ monasteri cattolici, e, lo abbiamo visto: beghinaggi) non protezione o divieto, solo definizione abbastanza astratta: barriere in fil di ferro; porta a due battenti, sempre aperta, e campagna: apertura larga, senza battenti. ➝ La comunità si definisce, non si chiude, non proibisce, non esclude. 2. L’immobile borghese (Pot-Bouille) è senz’altro protetto (porte chiuse, sprangate, portiere e oggi spioncino), ma ha anche tutto un sistema di delimitazione: il suo perimetro. Il perimetro ha il compito di mostrare il ritiro dall’interno, lo spazio «privato». Zola lo descrive minuziosamente: facciate, porte, finestre uniformi, senza gabbie d’uccelli (nel cortile), persiane perennemente chiuse. Del resto (simbolismo): facciate fasulle, boria, polvere negli occhi: modanature, dorature, guide di velluto sulle scale, tinteggiatura, ma «non ha ancora dodici anni e va già in pezzi». Questo territorio generale (l’edificio) definisce l’essenza della comunità: la rispettabilità borghese. All’interno di questo territorio, territori più piccoli (ma rigorosamente delimitati): gli appartamenti, [che] definiscono l’essere canonico della famiglia. La scala (borghese) con tutte le porte chiuse funziona allora come spazio delimitante. Berthe, in adulterio con Octave, sorpresa col suo amante, porte tutte chiuse, erra per le scale, braccata, per così dire, da uno spazio esterno implacabile: tutte le famiglie la allontanano dal contesto familiare. Dunque, chiusura = segnale. Esperienza-limite La questione più seria posta dall’antropologia: non esattamente: a quando risale l’uomo?, ma: quando, come e perché ha avuto inizio il simbolismo? È iniziato all’improvviso (Lévi-Strauss), dato che le cose non possono cominciare ad avere significato poco per volta? In modi diversi, su vari fronti contemporaneamente, allo stesso tempo? Vi è presunzione, verosimiglianza, concomitanza di apparizione tra le principali manifestazioni preistoriche del simbolico: gli strumenti, il linguaggio, l’incesto – sui tre punti, passaggio a una «doppia articolazione» (Jakobson, Lévi-Strauss) –, le incisioni murali, ritmate (prima della figurazione), la sepoltura dei morti, l’abitazione. Dunque, parlare con prudenza della soddisfazione dei bisogni in termini puramente funzionali: chiusura = protezione? Sì, senza dubbio, ma la protezione e la segnalazione (esistono tra gli animali) sono messe in funzione dal simbolico. La chiusura è presa in una nevrosi a dominante ossessiva: vi sono rituali di chiusura ➝ esperienze-limite della chiusura; o, se mi si passa l’espressione: chiusure-folli (questo termine è affettuoso). Già in Robinson Crusoe, soggetto «sano», «razionale», «empirico» se mai ve ne sono, il panico del pericolo (tracce di passi sulla spiaggia) ➝ comportamenti difensivi illimitati (protezione assoluta mai raggiunta: miraggio, asintoto): palizzata-recinto camuffata nel legno, niente porta (tema evidente di chiusura assoluta, cfr. infra), solo una piccola scala che si solleva. Cfr. appartamento dei coloni in L’isola misteriosa nella muraglia di granito: scala che si ritira, poi ascensore. Simbolismo della dissimulazione e dell’immuramento, a partire da un dato empirico di protezione (simbolicamente, l’unica protezione assoluta è nel ventre materno). Uscire, è rinunciare alla protezione: la vita stessa. Impossibilità per il nemico di entrare si trasforma, per eccesso, radicalità nevrotica, in impossibilità, auto-imposta, di uscire. Molti anacoreti, chiusi nelle loro capanne, comunicavano con i visitatori solo attraverso una piccola finestra, dia thuridos. La storia lausiaca: Doroteo, successore di Elia, gestisce da lontano un monastero femminile. Chiuso in un granaio senza scala, ma una finestra con vista sul monastero: seduto sempre alla finestra, impedisce alle donne di litigare. Giungiamo così alle grandi «follie» di chiusura, o di auto-sequestro. Due esempi: 1. Simeone lo Stilita (figlio di un pastore, Siria e Cilicia: sud-est dell’Anatolia: 390-459). Furore di ascesi da auto-sequestro: si sotterra in un giardino, in una fossa, fino alla testa, per tutta un’estate; quaranta giorni in una cantina senza luce (➝ il monastero cerca di sbarazzarsene). Si fa murare vivo, fa cementare la porta: quaranta giorni senza cibo. Nel 423, presso Antiochia: sale su una colonna, dapprima bassa, poi rialzata; nel 430: quaranta cubiti (= venti metri). Lassù fa mettere una balaustra (e aizza l’Imperatore contro gli Ebrei). Sorta di gara sportiva nell’ascesi: chi si rinchiude meglio, e più a lungo. Sorta di olimpiade dell’ascesi: prova di reclusione come salto con l’asta. Istituzione del cenobitismo: limitare questi eccessi attraverso la virtù benedettina per eccellenza: la discretio. Cfr. Dostoevskij: ne I demoni, parla di Elisabeth, folle in Cristo: vive in una sorta di gabbia da diciassette anni, senza parlare ad anima viva, senza lavarsi, senza pettinarsi. 2. Arriviamo così al sequestro laico (quindi, secondo i nostri criteri normativi, rimanda alla pura psicosi): La sequestrata di Poitiers. Sequestro volontario o imposto dalla famiglia? Secondo la norma: imposto dalla famiglia (inchiesta, processo); di fatto, secondo i documenti: responsabilità condivisa. Famiglia in preda alla follia collettiva del sequestro: a. Il nonno materno, M. de Chartreux: recluso volontario nella sua stanza. Reclusione assoluta: non esce alla morte del genero, che muore nella stanza a fianco. b. Casa borghese: grande porta d’entrata sempre chiusa a chiave (bisogna passare dal cortile; ma comunque, solo le cameriere). c. Trauma che ha messo in moto il processo di sequestro: Mélanie, giovane, isterica, esibizionista, si mostrava nuda alla finestra. ➝ Chiusura ermetica della finestra. d. Chiusura assoluta (per venticinque anni ➝ 1901): persiane chiuse, finestre serrate col lucchetto al secondo piano. Imposte sprangate da una sbarra di ferro, finestra dai giunti bloccati da listelli (polizia: per aprire la finestra, bisogna sollevarla dai cardini). Evidentemente odore insopportabile (sporcizia, escrementi, parassiti). Tuttavia una serva dorme nella camera sopra un piccolo letto di ferro. Odore tollerabile, se si lascia la porta semiaperta; ma la madre lo proibiva: «avrebbe detto che volevamo che sua figlia si prendesse un raffreddore». Si può andare oltre nella follia della chiusura? Sì, Mélanie stessa ne dà il segreto tematico. La sua pulsione profonda e unica, durante il sequestro: la coperta. Deposizione della madre: «Non voleva dormire nelle lenzuola; rifiutava di indossare una camicia… Era felice soltanto quando era interamente avvolta in una coperta». E «ha la mania di coprirsi». Tema sottile della coperta sul corpo nudo (cfr. divieto ai monaci di dormire nudi): sottrae il corpo al protocollo familiare, domestico, dell’abbigliamento notturno. È il velo che avvolge, oscura (bambino che si nasconde sotto le coperte), isola completamente: chiusura in una seconda pelle; regressione verso il liquido amniotico. (Fare l’amore a letto: chiudersi, abolire il mondo = fare l’androgino). Di questo profondo occultamento, Mélanie era cosciente come di una felicità: a questo buco assoluto, dava un nome: «la sua cara piccola grotta». Quando la portano all’ospedale: «Tutto ciò che vorrete, ma non toglietemi dalla mia cara piccola grotta»; o ancora: «Caro-Buono-Grande-Fondo»; o, nel suo linguaggio incomprensibile: «la sua cara buona fondo mulino di gesso», «mio caro grande fondo Malampia». Notare: Ciò che descriviamo qui, la chiusura assoluta, è un concetto in quanto possiede un nome, un nome nuovo, inventato: Malampia. Mélanie è logoteta (quindi dio). Chiamiamo Malampianismo ogni moto di affetto, anche fuggevole, che porta il soggetto alla fuga, a coprirsi, ad annullare il mondo, non secondo una via di ascesi (reclusione monastica), ma secondo una via di godimento. Inutile ricordare che la società reprime il Malampianismo: Mélanie è strappata dalla giustizia alla sua «cara piccola grotta» e sistemata alla luce del sole, in un letto d’ospedale, nella pulizia e nella religione. Non ritengo di dover dare una spiegazione – o una descrizione pseudo-psichiatrica, o pseudo-psicanalitica, delle «follie» di reclusione –, noto soltanto che la clinica parla di claustro-fobia, ma non di claustro-filia o di claustro-mania. Ora, di claustro-filia forse vi è traccia in molti di noi. La scopro, comunque, in me stesso: gusto di creare spazi chiusi (di lavoro, di vita, di sonno), protetti da sbarramenti, da difese. Per finire, mi limito a indicare due forme archetipiche di spazi chiusi – e li indico perché sono paradossali, essendo apparentemente aperti: 1. Il Labirinto: simbolizza il lavoro paradossale attraverso il quale il soggetto si impegna a crearsi delle difficoltà – a chiudersi nei labirinti di un sistema. È lo spazio stesso dell’ossessione. Il labirinto è lo spazio della chiusura attiva (≠ cella chiusa a chiave: non resta che stringersi in un angolo, a meno di non essere Edmond Dantès). Lavoro vano e incessante per uscire. Il soggetto lavora alla sua propria chiusura attraverso gli sforzi che compie per uscire. Cammina senza sosta, gira e rigira, e tuttavia crea immobilità. Labirinto: sistema ermeticamente bloccato dalla sua autonomia. Esempio: sistema di una passione amorosa; all’interno, nessuna via d’uscita, e tuttavia lavoro immenso. Per uscirne: atto quasi magico; percezione di un altro sistema, al quale bisogna passare: il filo di Arianna. Questo stato è ben simboleggiato dal labirinto; sistema inestricabile di protezioni a cielo aperto: niente soffitto (episodio del Satyricon di Fellini). Significa che, dall’esterno (vista dall’alto), la soluzione è evidente, ma non per chi si trova all’interno: caso tipico della situazione amorosa. 2. Una seconda forma, antinomica al labirinto, ma ancora spazio archetipico della chiusura: chiusura, ancora più archetipica, poiché senza barriere: il Deserto (eremos, eremus ➝ eremita). Il deserto anacoretico presenta l’ambivalenza fondamentale della chiusura: a) luogo felice della solitudine, della pacificazione; influenza dell’ellenismo (Filone): hesuchia ; b) regione sterile e demoniaca: rappresentazione egiziana e semitica. Inoltre, per i Cristiani dell’epoca patristica: eremus = realtà biblica, fa parte di una cultura: Esodo, Sinai, Mosé, Elia, Eliseo, Giovanni Battista, digiuno e tentazione di Cristo. Ciò che desidero sottolineare: il deserto = un tema di esistenza: vita eremitica. Dunque, suscettibile di variazioni di intensità. Esiste un’intensità ultima del deserto, che lo identifica alla reclusione assoluta: il «deserto-assoluto» (paneremos) che ha conosciuto Antonio. È la forma superlativa del Malampianismo: paneremos è veramente come la coperta di Mélanie. cibo (30 marzo 1977) Il problema delle simbolizzazioni alimentari richiederebbe da solo un’enciclopedia. Ci avevo pensato, per reazione contro la commercializzazione unilaterale dei libri di cucina «moderni», centrati su una dietetica presentata come «razionale» che sembra ignorare del tutto quanto ancora al giorno d’oggi esista una simbolica e un rituale degli alimenti. Si collega alla grande impostura ideologica dell’«igiene», della «salute». Questa enciclopedia: dal Tao alla Bibbia, dalla Bibbia a Lévi-Strauss (Il crudo e il cotto). Mi limito quindi a socchiudere il dossier (a partire dal nostro corpus di testi): 1) i ritmi, 2) le sostanze, 3) le pratiche. Ogni rubrica è di per sé enciclopedica: sulla terra e nel tempo. 1. I ritmi = Ritmi (orari) delle assunzioni di cibo. Tre problemi: 1. Orari dei pasti nelle comunità. Importante, poiché a) scandiscono il quotidiano più che altrove; rapporto tra il ritmo inflessibile e l’otium (orari meticolosi del pensionato isolato in campagna; pasti: contro-noia), b) occasione di incontro, convivialità (festa discreta). Anacoreti d’Egitto: anche da soli, seguono alcune regole. In generale, un solo pasto al giorno: verso la nona (le tre del pomeriggio), dopo la siesta. Apparizione del cenobitismo: grande indecisione fino alle regole severe del cenobitismo occidentale: conventi di san Pacomio. Talora un pasto al giorno, ciascuno quando voleva; tal’altra, pasto comune in refettorio (mezzogiorno e sera) + possibilità di assumere il pasto nella cella, ma senza conservarvi nulla. Nel contesto ascetico, il problema è rendere assente il cibo: sia riducendo al massimo gli orari di assunzione, sia regolarizzandoli all’estremo, poiché lo scopo di una regola ben costruita e ben mantenuta è di rendere il tempo trasparente. Il codice rende assente (ben più della spontaneità, l’irregolarità). 2. Orari e digiuni: l’eccesso ascetico (anacoreti orientali) realizza il digiuno attraverso la soppressione dei pasti. In numerose agiografie: veri e propri scioperi della fame di molti giorni – e di solito: un pasto famelico al giorno. Da qui la reazione «integralista»: il vero digiuno non consiste nel privarsi brutalmente e radicalmente di cibo, ma nel mangiare senza saziarsi (oggi è la regola delle diete: pochissimo, ma spesso). San Gerolamo (IV secolo) alla giovane vedova Furia: «Scegli cibo sobrio, che non riempia lo stomaco, piuttosto che digiunare per tre giorni: meglio mangiare poco ogni giorno che ingozzarsi una volta ogni tanto». A proposito del digiuno a intervalli, san Gerolamo parla di «astinenza vorace». Notiamo che il ritmo condannato da san Gerolamo è stato per secoli un obbligo economico. L’irregolarità delle risorse ➝ alternanza disordinata di un’alimentazione famelica e di un brusco straripamento alimentare: regime abituale nel Medioevo. Ne deriva il carattere per noi incomprensibile – irrealista – delle descrizioni di menù del passato: si notavano solo quelli (Fasti alimentari). Il numero delle portate li rende oggi impraticabili (ancora in Brillat-Savarin). Del resto, era la tavola come sfoggio, potlatch, che era ricca: ciascuno mangiava a piacimento. 3. Altro modo di rendere assente il cibo: non guadagnarlo, metterlo fuori da un obbligo di scambio (lavorare per guadagnarsi il pane/ la bistecca). È la pratica dell’elemosina di cibo: chiedere e farsi dare cibo (doni in natura/doni in denaro). Pratica universale. Ma l’aspetto più interessante è il simbolismo buddista dell’elemosina del cibo. Si rende assente il cibo tre volte: a) non guadagnandolo, ma lasciandolo arrivare, b) non chiedendolo, c) non guardandolo. In effetti, nei monasteri di Ceylon, benché i giri di elemosina si facciano sempre più rari (cibo portato al monastero), sussistono e conservano il loro pieno valore simbolico. Il giro si fa verso le 10-11. I monaci escono uno per volta, ognuno diretto a un gruppo di case (rientrano singolarmente verso le 11.30, pasto verso le 12), ciotola contro il petto, ma nascosta dalla toga. Il monaco cammina con gli occhi bassi, abbastanza lentamente ma senza esitare. Ogni tanto si ferma davanti a una casa o un negozio e attende, immobile e silenzioso, senza girarsi verso la porta. Qualcuno esce, sposta la toga e versa il cibo nella ciotola, o la prende per riempirla in cucina, poi la rimette nelle mani del monaco. Il laico saluta; il monaco mormora una benedizione e si allontana lentamente. = Monaco, immobile e silenzioso, senza uno sguardo per il cibo. Avrete notato tutte le operazioni di annullamento, non solo del cibo, ma della stessa richiesta: o grande ipocrisia o grande dignità (sono di questo parere). In tutto ciò, è evidente che ci siano due gruppi di ritmi legati a strutture (in senso proprio: a ideologie) diverse: 1) un ritmo mortificatorio che sopprime il cibo (castiga il corpo), 2) un ritmo neutro, che rende il cibo assente, vuole renderlo trasparente, insignificante, anaffettivo. 2. Le sostanze Qui ancora, abisso di domande, soprattutto in relazione al proibito, cavallo di battaglia dell’antropo-etnologia – per non parlare della psicanalisi: a. Le distinzioni del proibito: ciò che è proibito/ciò che è tollerato. Divieti universalmente noti: carne/pesce (quaresima); sostanze animali/vegetali (regime vegetariano); pesci a scaglie/senza scaglie e altri tabù ebraici (non cuocere i capretti nel latte materno: niente scaloppina normanna!) e tutto il problema del Kosher. Segnalerò soltanto due divieti meno noti, poiché mostrano bene il dedalo delle proibizioni (insistenza ossessiva), la linea sottile delle distinzioni: 1. Anacoreti d’Oriente. Essenzialmente: insalata cruda (lattuga, lachana), legumi verdi (crudi), sale, pane (al giorno: due gallette di sei once ciascuna = una libbra romana # 340 grammi). ≠ Divieto: cibi cotti, vino, olio (salvo al convito del sabato), leguminose a baccello. Olio: l’anziano Pacomio vede olio sul sale schiacciato: «Il Signore è crocifisso e io mangio olio!» (Olio: non un liquido, ma sostanza densa, ipernutriente, cfr. mangiare la minestra + forse, tema euforico della lubrificazione ≠ secco, aspro, che non scivola). Legumi a baccello (piselli, fave): simili ai farinacei; probabilmente perché troppo nutrienti. Ma nel Tao, divieto rigoroso dei cereali; ma per una simbolica diversa da quella legata al lusso, alla mortificazione, alla colpa. I cereali causano la morte (Tao vuole rendere il corpo – e non l’anima – immortale), poiché fanno nascere nel corpo vermi che corrodono la vitalità (= Esseri trascendenti). Tre larve: 1) il Vecchio-Blu (rende ciechi, sordi, calvi, fa cadere i denti, ostruisce il naso), 2) la Signorina-Bianca: palpitazioni del cuore, asma, melanconia, 3) il Cadavere-Sanguinolento: coliche, reumatismi, pelle che appassisce, astenia, demenza precoce. Imposizione: «Interrompere i cereali» (riso, miglio, grano, avena e fagiolini): «I Cinque Cereali sono le forbici che tagliano la vita, fanno marcire le cinque viscere, accorciano la vita. Se un grano ti entra in bocca, non sperare nella Vita Eterna! Se desideri non morire, che il tuo intestino resti libero!». Cereali malefici, in quanto essenza della Terra, sono esclusivamente yin, mentre il Cielo è yang. Ho citato il Tao, poiché il proibito non è direttamente collegato a un errore (e dunque a un riscatto attraverso la mortificazione), ma a un’anatomia metafisica del corpo (del resto, da studiare: il nostro corpo è storico). 2. Altra distinzione sottile: elemosina ai monaci buddisti (cfr. supra). Possono accettare tutto (nella ciotola) – tranne il vino – se è cibo preparato (legumi, pesce, carne). Se il cibo offerto non è cotto, non possono ricevere né carne, né pesce, né uova. I domestici possono acquistare carne e pesce, ma non uova, poiché rompendole si uccide la vita = stessa astensione di responsabilità che nella richiesta di cibo. Non si rifiuta l’oggetto, ma si evita qualunque azione su di esso: cfr. il Wou-wei, l’agire senza agire. L’equazione è: non-agire e tuttavia vivere (equazione difficile da risolvere!). b. Le connotazioni di cibo (il cibo connotante) 1. Un menù, quando viene visto o raccontato, racchiude un significato che va oltre la sua semplice funzione. Non è la stessa cosa leggere «prosciutto + insalata + patate» e «fegato d’oca, quaglie tartufate, fagiano, asparagi ecc.». Non è solo un semplice meccanismo di trasformazione del fatto in indizio e dell’indizio in segno: il costo parametra la rarità e questo indice diviene segno, segno di lusso (o di festività). È che, non appena vi è segno, il segno è preso in un sistema complesso di immagini interlocutorie che funziona da solo. Bollito di carne e verdura = rusticità, popolarità (un tempo, a Parigi, carne lessa cosparsa di sale grosso nei ristoranti dei cocchieri); può trasformarsi in esibizione di lusso, per snobismo. Tutto un sistema delle immagini sociali del cibo. Ad esempio, storia movimentata della pizza: i cibi più volgari (popolino di Napoli) ➝ a Parigi, italianità snob ➝ ridiventa simbolo di cibo modesto, non costoso per economiche uscite serali: pizzeria di Saint-Germain. Questo sistema evidentemente vale per ogni epoca. In Brillat-Savarin, menù tipo che si riferiscono a diversi livelli sociali, veri e propri codici di menù, ma vi è, come in ogni lingua, una diacronia (Brillat-Savarin # 1825): Prima serie Reddito presunto: 5000 franchi (Mediocrità) Un grosso girello di vitella steccato col lardo e cotto nel sugo. Un tacchino di fattoria farcito di castagne di Lione. Piccioni di voliera ben grassi, avvolti in fette di pancetta e cotti a puntino. Uova sbattute. Un piatto di crauti (sauer-kraut), irto di salsicce e guarnito di lardo affumicato di Strasburgo. Espressione: «Accidenti! Sembra proprio buono: coraggio: bisogna farsi onore!…». Seconda serie Reddito presunto: 15000 franchi (Agiatezza) Un filetto di manzo roseo al centro, steccato e cotto nel sugo. Un quarto di capriolo con salsa di cetriolini tritati. Un rombo al naturale. Un cosciotto di castrato alla provenzale. Un tacchino tartufato. Pisellini novelli. Espressione: «Ah, amico mio, che amabile apparizione! Ma questo è un autentico festino!». Terza serie Reddito presunto: 30000 franchi e oltre (Ricchezza) Un tacchino di sette libbre, farcito di tartufi del Périgord fino a ottenere la conversione in sferoide. Un enorme pâté di fegato di Strasburgo in forma di bastione. Una grossa carpa del Reno à la Chambord, con ricco contorno. Quaglie tartufate al midollo, adagiate su crostini imburrati al basilico. Un luccio di fiume steccato, farcito e accompagnato da una crema di gamberi, secundum artem. Un fagiano frollo al punto giusto, lardellato, adagiato su un crostino lavorato à la sainte alliance. Cento asparagi novelli, del diametro di un pollice, in salsa all’osmazoma. Due dozzine di ortolani alla provenzale secondo la ricetta di Le Secrétaire et le Cuisinier. Espressione: «Ah signore, o meglio altezza, il vostro cuoco è un uomo veramente ammirevole! Queste cose si trovano soltanto da Voi!». Le pietanze sono valori quotati alla Borsa della Storia. Per Brillat: «Uova montate a neve»: segno di «mediocrità» ➝ oggi, buoni ristoranti. Il sistema delle connotazioni alimentari = tracce laiche della grande simbolica del cibo, spostata con l’immaginazione dalla «Natura» (metafisica, religiosa) all’apparenza sociale (la «Società» è diventata la nostra «Natura»). 2. Una semiologia del cibo? I codici di connotazione = la sua prima branca. Ma non è tutto: un altro problema semiologico: il profilo (il «prospetto») della parola alimentare. In generale, sono persuaso che il rapporto della parola con il referente non è riducibile una volta per tutte a uno schema universale. Il soggetto lettore, uditore, ha un rapporto differenziale con le parole in funzione dei loro referenti. Questa sarebbe una via di ricerca della filologia attiva, voluta da Nietzsche: filologia delle forze, delle differenze, delle intensità. La lettura può (potrà) trovare la sua teoria solo se tiene conto del rapporto con la parola (al singolare), in quanto distinto dall’affetto, il desiderio, il disgusto ecc. In certe parole brilla, come un flash, un’immagine, un’idea del referente: non posso leggere «omelette» senza un moto fugace di appetito o di nausea. ➝ In ogni racconto, o rapporto, leggere dei menù significa trovarsi all’intersezione di questi due assi semiologici: la connotazione e l’affetto. 3. Qualche esempio di menù da leggere, considerati secondo una lettura semiologica. (Naturalmente, la lettura affettiva non può essere sostenuta da nessuna interpretazione. È nell’ordine del «fa venire voglia»/«disgusta»). ➝ Tipologie di esercizi di interpretazione simbolica che mi limito a segnalare: — Monasteri buddisti di Ceylon. Prima colazione: tè o caffè con zucchero, pane, gallette, burro, marmellata, miele. Pranzo: riso al curry, verdura, latte fresco o cagliato, frutta. Cena: tè o caffè zuccherato, ma senza latte, o succo di frutta. ➝ Frugalità, regime vegetariano, ma occidentalità e comodità: niente di ascetico. — Comunardi, Francia # 1970. A mezzogiorno: omelette ai funghi, insalata, formaggio di capra. Sera: patate all’aglio o riso integrale, castagne grigliate. ➝ Rusticità, francesità, regime semi-vegetariano, culto della macrobiotica. — Nutrimento di Mélanie. Vive in una sporcizia incredibile, sequestrata, ma paradosso: cibo curato e ultra-borghese, costoso (anche se la madre è avara). Colazione: vuole soltanto una tazza di cioccolata della Compagnia Coloniale, senza pane. Pranzo: una sogliola fritta, una cotoletta con contorno di patate; talvolta, dall’Hotel de France (di Poitiers): pollo in salsa bianca con funghi, pollo con salsa al burro fuso, ostriche, pâté di fois gras + vino di prima qualità (bordeaux, due o tre franchi a bottiglia). Cena: vuole solo una brioche o una pasta chiamata «gesuita» (?). ➝ Francesità, borghesia, capriccio. — I pasti dai Josserand: famiglia borghese in ristrettezze, in preda ai problemi dell’«apparire», della «dissimulazione», della «polvere negli occhi» (titolo di un testo teatrale di Labiche). Per blandire lo zio Narcisse e fargli dare cinquantamila franchi di dote a una delle figlie: razza al burro rancido, poco fresca, annegata nell’aceto + una torta salata grassa (vol-au vent, bouchée à la reine) + un pezzo di vitello cotto in pentola, fagiolini lessi + gelato vaniglia-ribes. Notare che, secondo il procedimento epico, Zola stesso dà i significati, o almeno separa il significante in: tenore di vita apparentemente obiettivo se ci si limita al nome (pesce, antipasto, arrosto, gelato = elevato livello sociale) + attributo di deterioramento (grasso, troppo aceto, acquoso). È il tema epico. Borghesia: facciata dell’apparenza su una diversa realtà (adulterio, ristrettezze) = la menzogna sociale. — Menù da uomo solitario (tema del celibe). Descrizioni sinistre di pasti in cattivi ristoranti di quartiere: Alla deriva di Huysmans (stesso procedimento epico che in Zola). Tutto il nutrimento connota la decadenza, l’assenza di eredi del celibe urbano – con il richiamo intrinseco alla rigenerazione mistica in monastero. ≠ Nutrimento del filosofo solitario: cibo sobrio e felice. Spinoza, alla fine della vita, ritirato nella sua camera a Voorburg. Un giorno intero di zuppa di latte fresco con burro e un boccale di birra. Un altro giorno: solo miglio con uvetta e burro – un litro di vino al mese. ➝ Sobrietà, frugalità, naturalità (cfr. i monaci di Ceylon). Ovviamente qui si tratta di connotazioni. Non si tratta di attributi oggettivi collegati a una certa condizione sociale (che dipendono allora da una sociologia), ma di segni (semiologia). Un gioco d’immagini, di specchi: l’alimentazione inserita in una storia, un testo (agiografia, giornalismo, romanzo, biografia): il cibo come noi lo leggiamo. Ma facciamo qualcos’altro oltre a leggerci gli uni con gli altri? Ci leggiamo mentre stiamo mangiando: il cibo come segreto privato (caso del seminario all’Ecole pratique des Hautes Etudes, 1963-64). Vi è un reale senza immagine? L’immagine è immediata, concomitante, il bisogno si frantuma sul desiderio, l’indizio sul segno, la funzione sul simbolico. 3. Le pratiche = il problema del Mangiare-Insieme: la convivialità, in senso stretto. Do questa rubrica come memoria, poiché è un dossier etnologico enorme: tutto il rituale dei banchetti, associazioni o riunioni per Mangiare-Insieme. Indico solo qualche punto di approccio al tema: — l’orrore del mangiare da soli sembra generale. Nota di maledizione: la solitudine nella sua essenza. Dunque oggetto privilegiato del rovesciamento filosofico o mistico (eremiti, Spinoza) + talvolta godimento narcisistico a mangiare da soli leggendo (Gide al Lutetia). — I riti di comunione: ingestione comune di un alimento simbolico, la cui condivisione è anch’essa simbolica. ≠ Non si mangia col proprio nemico. Comunione: rito di inclusione, di integrazione, di imitazione (cfr. discorso da banchetto: atto di parola integrativa). — Le comunioni estatiche: liberando il soggetto dalla sua corazza individuale per effetto del cibo (delle bevande) e della messa in comune dei corpi. Forma estrema: l’orgia. Ma nella nostra civiltà, sostituti insulsi di questa provocazione d’estasi: banchetti, pasti familiari. Alcol, cibo + lunghezza smisurata ➝ sorta di intossicazione attraverso il tempo: il carattere proprio di un’orgia è di non misurarsi; cfr. i Kiefs balcanici. — La convivialità come incontro: il pasto-insieme è una scena cripto-erotica in cui succedono delle cose. La montagna incantata: «i pasti che pur sapeva di solito apprezzare per le ansie e le curiosità che offrivano» + Cambiamento dei posti a tavola: la scelta dei posti è erotica (cfr. Il simposio). La convivialità comporta due effetti: 1) la sovradeterminazione dei piaceri (Brillat-Savarin dice che dura solo la prima ora ), 2) Eros è messo in posizione indiretta – in rapporto al piacere «ufficiale», gastronomico, ovvero in posizione di perversione (godimento secondo). — Nelle pratiche cenobitiche: pasti in comune (a partire da san Benedetto). Si rende il cibo assente (cfr. supra) ma si rende assente anche il piacere della convivialità, per lettura monodica di un testo pio. conclusione o quanto meno ultima considerazione: — Cibo: associato alla vita, al vitale (biologico). Per inversione metonimica: tutte le metafore della vita, in quanto dotate di senso, di valore, si rovesciano sul cibo. Vi è scambio simbolico tra i cambiamenti di vita e i cambiamenti di cibo. Nascere di nuovo = mangiare un altro cibo: intussuscepzione (assimilazione di una sostanza per incremento) dell’embrione / latte materno al neonato / svezzamento. — I malati del sanatorio della Montagna incantata: sono là per salvarsi la vita, nascere di nuovo fuori dalla malattia. Vengono loro serviti alimenti mostruosamente assimilabili, li si rimpinza di cibo, per farne dei nuovi umani. Ma inversamente (è logico, tutto dipende da dove si parte), le diete dimagranti: spesso associate alla voglia di «cambiare vita», nascere ad altra vita, rinascere giovani, padroni del proprio desiderio e dunque del mondo. — Passaggi da un nutrimento all’altro. Sposarsi: passare dal cibo della madre a quello della moglie (di cui il cibo, se lo si accetta pienamente, diverrà quello di una seconda madre: i piccolo-borghesi chiamano la moglie «mamma»). Il passaggio può costituire tutto un lavoro: al tempo stesso di lutto e di rinascita. utopia (4 maggio 1977) Avevo pensato che sul Vivere-Insieme ci sarebbero state tredici lezioni, e avevo progettato di dedicare la tredicesima alla costruzione, davanti a voi, di un’utopia del Vivere-Insieme idiorritmico – dato che questo corso è partito da quel fantasma. Avrei quindi: a. selezionato i tratti positivi del dossier percorso: tutto ciò che, nel modo di vivere dei diversi soggetti coinvolti nel corpus, mi avrebbe dato piacere, voglia – e che avrei in seguito coordinato, combinato per produrre una finzione (quasi romanzesca) del Vivere-Insieme: il Vivere-Insieme di un gruppo al tempo stesso contingente e anonimo; b. ma avrei anche voluto invitarvi a fornire voi stessi elementi, frammenti, residui di rappresentazione di una comunità idiorritmica – poiché credo sempre più che si debba accettare e favorire il lavoro proiettivo di un’opera, di un discorso, di un corso. Questa tredicesima lezione non avrà luogo – per lo meno non nella forma pura, ovvero soggettiva, che avevo immaginato. Perché? Per ragioni contingenti, innanzitutto: mancanza di tempo per raccogliere i vostri contributi, mancanza di slancio personale per costruire allegramente un’utopia felice. Ma anche, ragione teorica che mi è apparsa poco a poco: l’utopia del Vivere-Insieme idiorritmico non è un’utopia sociale. Ora, tutte le utopie scritte sono state sociali, da Platone a Fourier: ricerca di un modo ideale di organizzare il potere. Da parte mia, ho spesso rimpianto che non ci sia, ho spesso avuto voglia di scrivere un’utopia domestica: un modo ideale (felice) di rappresentare, di predire il buon rapporto del soggetto con l’affetto, col simbolo. Ora, ciò non è proprio un’utopia in senso stretto. È solo – o al di là, eccessivamente – la ricerca figurativa del Bene Sovrano. Qui: il Bene Sovrano quanto all’abitarlo. Ora, il Bene Sovrano – la sua raffigurazione – mobilita tutta l’estensione e la profondità del soggetto, nella sua individuazione, cioè nella sua storia personale al completo. Di questo, solo una scrittura potrebbe rendere conto – o se si preferisce un atto romanzesco (se non un romanzo). Solo la scrittura può raccogliere l’estrema soggettività, poiché nella scrittura vi è accordo tra l’indiretto dell’espressione e la verità del soggetto – accordo impossibile sul piano della parola (quindi del corso), che è sempre, si voglia o meno, al tempo stesso diretta e teatrale. Il libro sul Discorso amoroso è forse più povero del seminario, ma lo considero più vero. ➝ Mi limiterò quindi a presentare qui alcuni principi apparentemente oggettivi del Bene idiorritmico – almeno per quanto mi fa credere l’analisi del corpus studiato: 1. Ricordare un esempio delle condizioni di funzionamento soddisfacente di un gruppo. Walter Ruprecht Bion, Ricerche sui piccoli gruppi: a) Un obiettivo comune (vincere, difendere, ecc.); b) coscienza dei limiti del gruppo; c) capacità di integrare o di perdere (flessibilità); d) assenza di sotto-gruppi interni con limiti rigidi; e) ciascuno: libero e importante; f) almeno tre membri: relazioni interpersonali (due = relazione personale). Sentimento popolare di una soglia qualitativa tra due e tre: «Due, è l’intimità, tre, è la folla». 2. Questo conduce al problema del numero. Numero ottimale di un gruppo idiorritmico. Abbiamo visto qualche suggerimento di numero a proposito delle idiorritmie dell’Athos. Ecco due indicazioni ulteriori. Monasteri di Ceylon: una decina di monaci residenti. Comunità moderne, parahippy = USA: venti o trenta in media; Francia: circa quindici. (Penso che queste cifre siano eccessive – per quanto molto limitate in confronto ai monasteri cenobitici. Penso che il numero ottimale debba essere inferiore a dieci – persino a otto). 3. Sappiamo che in etologia, nei gruppi più chiusi di animali, i meno individualizzati (banchi, stormi), le specie apparentemente più gregarie regolano tuttavia la distanza inter-individuale: è la distanza critica. Sarebbe senza dubbio il problema più importante del Vivere-Insieme: trovare e regolare la distanza critica, al di là o al di qua della quale si produce una crisi. (Mai, in nessun uso del termine, dimenticarsi di collegare critica a crisi: la «critica» (letteraria), soprattutto, ha lo scopo di mettere in crisi). Problema tanto più acuto oggi nel nostro mondo (quello industrializzato della società cosiddetta di consumo): ciò che costa caro, il bene assoluto, è lo spazio. Nelle case, appartamenti, treni, aerei, corsi, seminari, il bene di lusso è avere intorno a sé dello spazio, ovvero «qualcuno» ma pochi: problema tipico dell’idiorritmia. ➝ Se si immaginasse una sorta di regola telemita, calcata sulla regola monastica, oggi potrebbe dare questo: regole di san Benedetto: l’abate dà ad ogni monaco degli oggetti in possesso: una cocolla, una tunica, scarpe, calze, una cintura, un coltello, un travicello, un ago, un fazzoletto, delle tavolette = dono di oggetti secondo il bisogno vitale; minimo necessario e significativo (poiché a quest’epoca, ciò che costa, ovvero oggetto di dono: gli oggetti fabbricati). Ebbene, oggi, la regola telemita non darebbe più oggetti (troppo facile, troppo poco valore per costituire un dono consacrante), ma spazio. ➝ Dono dello spazio: sarebbe costituente della regola (utopistica). 4. La distanza come valore. Non deve essere considerato nella prospettiva meschina del semplice «stare sulle proprie». Nietzsche fa della distanza un valore forte – un valore raro: «[…] il baratro tra uomo e uomo, tra classe e classe, la molteplicità dei tipi, la volontà di essere se stessi, di spiccare sugli altri, quel che io chiamo pathos della distanza, tutto ciò che è proprio di ogni età forte» ➝ La tensione utopistica – che risiede nel fantasma idiorritmico – viene da questo: ciò che è desiderato, è una distanza che non rompa l’affetto («pathos delle distanze»: eccellente espressione). ➝ Quadratura del cerchio, pietra filosofale, grande visione chiara dell’utopia (hupar); una distanza pervasa, irrigata di tenerezza: un pathos in cui entrerebbero Eros e Sophia (grande sogno chiaro). Forse, nel suo genere, con le distinzioni di epoca e di ideologia, come ciò che immaginava Platone sotto il nome di Sofronisterio (cfr. Asceterio e Falansterio) (sophron: moderato, saggio). Possiamo collegarci qui a quel valore che cerco di definire a poco a poco con il termine «delicatezza» (termine un po’ provocante nel mondo attuale). Delicatezza vorrebbe dire: distanza e riguardo, assenza di peso nella relazione, e, tuttavia, calore vivo di questa relazione. Il principio sarebbe: non usare l’altro, gli altri, non manipolare, rinunciare attivamente alle immagini (degli uni, degli altri), evitare tutto ciò che può alimentare l’immaginario della relazione. = Utopia propriamente detta, in quanto forma del Bene Sovrano. E il metodo? Questo corso è iniziato ricordando un’opposizione nietzchiana: quella del metodo e della paideia («Cultura»). Metodo: «una buona volontà di pensatore», una «decisione premeditata», modo chiaro, deliberatamente scelto per ottenere un risultato voluto. ➝ Metodo: feticizzare lo scopo come luogo privilegiato, a discapito di altri luoghi possibili. ≠ Paideia: tracciato eccentrico di possibilità, titubare tra blocchi di sapere. Evidentemente, qui, non ci si è posti dalla parte del metodo, ma dalla parte della paideia, o per dirlo più prudentemente (e provvisoriamente) dalla parte del non-metodo. Significa cambiare psichismo, optare per una psiche contro un’altra. Metodo = psichismo fallico di attacco e protezione («volontà», «decisione», «premeditazione», «andare dritti», ecc.) ≠ Non-metodo: psichismo del viaggio, della mutazione estrema (sfarfallamento, bottinaggio). Non si prosegue un cammino, si espone man mano ciò che si è trovato. Struttura «isterica»? In ogni caso, genera la fifa; nessuno di questi corsi senza fifa ➝ «espongo» = «mi espongo» + la domanda dell’isterico, in ogni momento: quanto valgo? Dunque, niente metodo – ma un protocollo di esposizione (del bottino). Protocollo, qui, mi sembra, in cinque punti: 1. Tratti, figure, caselle Cfr. Frammenti di un discorso amoroso. Figure del discorso: non in senso retorico, ma piuttosto ginnastico: schema. Non «schema» (fallismo del metodo), ma gesto di azione (atleta, oratore, statua). Ogni «figura» = l’attitudine in movimento di qualcuno che lavora (senza tener conto del risultato). Due conseguenze: 1. Si fissano delle caselle = una topica (griglia dei luoghi). Sta a ciascuno riempirle; gioco di gruppo: puzzle. Io sono il costruttore (l’artigiano) che taglia il legno. Voi siete i giocatori = Principio di non-esaustività: l’esposizione di una figura non è esaustiva. Andrò più lontano (forse un modo per assolvermi). Il corso ideale sarebbe forse quello in cui il professore – il locutore – risulti più banale dei suoi uditori, in cui ciò che dice sarebbe più indietro rispetto a ciò che suscita. Esempio tipico e recente: l’escremento e La Sequestrata di Poitiers. Vi era modo di essere più intelligente, di andare oltre. Ma, se il corso è sinfonia di proposizioni, la proposizione deve essere incompleta – altrimenti è una posizione, un’occupazione fallica dello spazio ideale. Il sogno: una sorta di banalità non opprimente, alleggerita (cfr. «Delicatezza»). 2. Supponiamo una vaga allegoria: il Vivere-Insieme. Tocchi successivi: una goccia di questo, un barlume di quello. Mentre si fa, non si capisce cosa ne verrà fuori; cfr. in pittura: la tecnica dei Macchiaioli, il divisionismo (Seurat), il puntinismo. Si giustappongono i colori sulla tela, invece di mescolarli sulla tavolozza. Giustappongo le figure nell’aula del corso, invece di mescolarle a casa mia, sulla mia scrivania. La differenza, è che qui non vi è un quadro finale: nel migliore dei casi, starà a voi farlo. 2. Classificazione Se si rinuncia a dare un senso a una sequenza di figure, se si tiene a questo non-senso, il processo apparentemente più giusto sarebbe il caso: estrarre le figure da un cappello. Ma il caso può produrre mostri (dice un matematico). Il mostro sarebbe un frammento di connessione logica che assume l’aspetto di ciò che si voleva evitare: una dissertazione sviluppata in più punti. Ne deriva il ricorso a un processo creativo che conosceva bene la pittura cinese: il caso controllato, il leggero controllo del caso, nell’operazione di classificazione: l’elenco alfabetico. In effetti, l’ordine alfabetico non significa nulla, non è sottoposto a nessuna finzione logica. Ma questo caso è corretto due volte: a) vi è una decisione sul titolo: non posso scegliere qualsiasi titolo, ma posso scegliere fra tre o quattro titoli; ad esempio tra «Sporcizia», «Odore», «Escremento», da cui le lacune che si notano nell’ordine alfabetico delle mie figure; b) l’ordine alfabetico è aleatorio secondo la ragione, ma non secondo la Storia: ordine millenario, dunque: caso combattuto dalla familiarità. 3. Digressione Questa nuova retorica (del non-metodo): diritto illimitato alla digressione. Si potrebbe persino immaginare, tendenzialmente, un’opera, un corso, costruito solo su digressioni, a partire da un titolo fittizio: poiché il «soggetto» (la quaestio) è distrutto da una fuga incessante. Cfr. le Variazioni Diabelli: il tema è quasi inesistente, un vaghissimo ricordo ne attraversa a sprazzi le trentadue variazioni, di cui ciascuna è così una digressione assoluta. 4. Aprire un dossier In ogni momento ho detto (quasi ad ogni figura): «Ci limitiamo ad aprire un dossier». Aprire un dossier: atto enciclopedico per eccellenza. Diderot ha aperto tutti i dossier della sua epoca. Ma a quel tempo, atto effettivo, poiché il sapere poteva essere controllato, se non da un uomo (come al tempo di Aristotele o di Leibniz), quanto meno da un gruppo di lavoro. ≠ Oggi: impossibile esaustività del sapere, interamente pluralizzato, diffranto in linguaggi non comunicanti. L’atto enciclopedico non è più possibile (cfr. il fallimento delle enciclopedie attuali) – ma il gesto enciclopedico ha per me il suo valore di finzione, il suo godimento: il suo scandalo. 5. Il testo d’appoggio Tutto il lavoro è stato fatto appoggiandosi su qualche testo. I testi-tutori: ciò che permette di parlare ➝ l’intertesto, qui ammesso, costitutivo di ogni enunciazione. Tra questi testi, due – mio malgrado – hanno insistito: a) La sequestrata di Poitiers: il testo della marginalità assoluta, di un Vivere-Soli così intenso da aver coinvolto gli aspetti clandestini e acuti del vivere-con. b) Il testo dei monaci; non me lo aspettavo. ➝ Collegamento oscuro, sicuramente. Perché? 1. Ha giocato soprattutto in contrasto: rispetto al monachesimo troppo conosciuto dell’Occidente e rispetto al cenobitismo della caserma (anacoreti, idiorritmiche): stesso valore di disturbo e di proiezione (per me) dell’Estremo Oriente. 2. Oppure, più profondamente: il religioso – la categoria del religioso – non nel suo rapporto con la religione, ma come esposizione privilegiata del simbolico. Simbolico qui proiettato sul grande schermo dalla lotta tra la marginalità e l’istituzione (ecclesiale, comunitaria). 3. E poi un’Utopia (soprattutto nel quotidiano) si costruisce con frammenti di reale presi a prestito qua e là con disinvoltura. Melting pot di ciò che vi è di positivo in civiltà, pensieri, in usi diversi. I monaci d’Oriente hanno aggiunto qui la loro parte. Tali sono, credo, i tratti principali del protocollo di esposizione, che viene al posto del metodo. Ho detto all’inizio: non-metodo. Come sempre, il non è troppo semplice. Sarebbe meglio dire: pre-metodo. È come se preparassi dei materiali in vista di un trattamento metodico; come se, a dire la verità, non mi preoccupassi del metodo che li gestirà. Tutto è possibile: di questi materiali, la psicanalisi, la semiologia, la critica ideologica potrebbero servirsi – il che ha dispensato la presentazione dei materiali dall’essere in sé, come si è potuto notare, psicanalitica, semiologica, politica. Tuttavia – e con questo concludo –, questa preparazione di metodo è infinita, infinitamente espansiva. È una preparazione la cui realizzazione è continuamente rinviata. Il metodo è accettabile solo a titolo di miraggio: è nell’ordine del Più tardi. Ogni lavoro è così assunto in quanto animato dal Più tardi. L’Uomo = tra il Mai più e il Più tardi. Non vi è presente: è un tempo impossibile.
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