Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Consolini
Lo spettatore adulto. Barthes e l'energia metaforica del testo

...una mente che vede cose. Là dove gli altri non le avevano viste. Umberto Eco In Brecht troviamo una carica straordinaria della visualità, una fiducia sconfinata nell’occhio... Roland Barthes Tornare a riflettere su Roland Barthes e il teatro significa, in modo pressoché obbligato, interrogarsi di nuovo sul significato e sulle conseguenze di un abbandono. Inutile tentare di rispondere alla domanda che Barthes stesso formulò già nel 1965, a pochi anni di distanza dalla fine della sua attività di critico militante: «Ho sempre amato molto il teatro, eppure non ci vado quasi più. È un voltafaccia che insospettisce anche me. Cos’è accaduto? Quando è accaduto? Sono cambiato io o è cambiato il teatro? Non lo amo più o lo amo troppo?[1]». È semmai necessario ripartire dall’enigmatica frase gettata lì, un decennio dopo, in modo quasi provocatorio, nel Roland Barthes di Roland Barthes: «Al crocicchio di ogni opera, forse il Teatro: non c’è alcuno dei suoi testi, in realtà, che non tratti d’un certo teatro, e lo spettacolo è la categoria universale sotto le cui spoglie è visto il mondo[2]» e ancor più dalla sbrigativa risposta contenuta in un’intervista del 1977 : «Ho dei rapporti complicati con il teatro. Come energia metaforica per me conserva ancora oggi un’estrema importanza: vedo il teatro dappertutto, nella scrittura, nelle immagini, ecc. Ma quanto ad andare a teatro, andare a vedere del teatro, la cosa non mi interessa più granché, non ci vado quasi più[3]». Guardiamoci bene dalla tentazione di voler sciogliere l’enigma, contentiamoci piuttosto di esaminare alcune tracce di quest’energia metaforica, forti di una constatazione: gli studi teatrali continuano a nutrirsi ancor oggi dei suoi scritti esplicitamente consacrati al teatro, trovando nello sguardo di Barthes un’energia – concreta, tutt’altro che metaforica – capace di dissezionare il corpus teatrale di un’epoca, gli anni Cinquanta, cruciale nell’evoluzione contemporanea dell’arte drammatica[4]. Ed è ben noto che l’energia, anche quando sembra disperdersi, non fa altro che trasformarsi. Il teatro, luogo del visibile Il titolo di questo numero di «Riga», Barthes: l’immagine, il visibile, fornisce uno spunto di partenza: è forse questa la particolarità dello sguardo teatrale di Barthes, l’aver sempre pensato il teatro per immagini, fedele (e in questo ha senz’altro svolto un ruolo cruciale la sua formazione da ellenista) all’etimologia greca – Theatron, luogo da cui si vede – che indica nel visibile il nucleo essenziale dell’esperienza teatrale. Un dato tutt’altro che scontato nel contesto della tradizione «testocentrica» francese, specie negli anni dell’apprendistato e poi della maturità dello spettatore Barthes, a cavallo della seconda guerra mondiale, quando ancora, come è solito annotare uno dei suoi modelli intellettuali, André Gide, andare a teatro significa innanzitutto aller écouter une pièce. Il fenomeno nuovo e motore della rivoluzione teatrale novecentesca, la regia, pur avendo mosso i suoi primi passi proprio sul suolo francese, ha infatti qui vissuto un vera e propria impasse, tardando ad evolvere verso quella piena autonomia della scrittura scenica che ha caratterizzato i percorsi registici di altri paesi, come la Germania o la Russia. La rivendicazione esplicita della preponderanza dell’esperienza visiva, nella relazione spettacolo-spettatore, interverrà più tardi, in uno dei rari testi dedicati al teatro posteriori al 1960, Diderot, Brecht, Ejzenštein, ove Barthes afferma senza mezze misure che: Il teatro è [...] una pratica che calcola il posto guardato delle cose: se metto lo spettacolo qui, lo spettatore vedrà questo; se lo metto in un altro posto, non lo vedrà e io potro approfittare di questo nascondiglio per produrre un’illusione: la scena è per l’appunto la linea che taglia il fascio ottico, disegnando il termine e per così dire il fronte del suo schiudersi: in tal modo si troverebbe fondata, contro la musica (contro il testo), la rappresentazione[5] . Ma basta rileggere i suoi primi testi critici per rendersi conto che ciò che conta, ciò che determina il rigetto o l’adesione, è fin da subito il visibile. Barthes, che pure è cresciuto teatralmente nelle sale del Cartel, pieno del ricordo uditivo, musicale di quegli «attori di dizione» che erano stati per lui Dullin, Pitoëff e Jouvet, esordisce infatti come critico teatrale sull’onda di un’infatuazione tutta visiva, quella provata dall’alto delle gradinate del Théâtre National Populaire di Jean Vilar, a strapiombo sulla scena «immensa, aperta a tutti i venti come una nave scura attraversata da bagliori, da volti o da bandiere» del Principe di Homburg interpretato da Gérard Philipe. Ero in piccionaia, e dall’alto della mia montagna di Chaillot scorgevo uno spazio sprofondato nella notte, pieno di un’aria proveniente dall’esterno, che faceva tremare la luce delle fiaccole; da qui mi arrivava, a seconda dei momenti, il vento della guerra o la freschezza di un palazzo privo di comodità. Da questa notte profonda, fatta di una reale densità dello spazio, e non più appesa, come di solito accade, a dei fondali dipinti, sentivo che la tragedia esprimeva la sua virtù essenziale: creare una rappresentazione dell’avvento[6]. Si trattava in realtà di un miraggio, spiegherà più tardi Barthes con una punta di disprezzo per il lavoro di Vilar, quasi pentito di averlo all’epoca esaltato: Ricordo cosa mi ha orientato, all’inizio, verso la difesa di Vilar, difesa che ho in seguito attenuato e in qualche modo ribaltato, […] ero seduto nella piccionaia della vecchia sala del Palais de Chaillot e, da lassù, vedevo in lontananza la scena illuminata, come attraverso un cannocchiale, ed è questo che mi aveva affascinato[7]. In questo ricordo relativizzato, che spiega la passata esaltazione con un abbaglio, con un effetto ottico, c’è in fondo tutta l’attività singolare e paradossale di Barthes spettatore, ostinatamente impegnato a rivendicare il proprio ruolo attivo, «adulto» come amava ripetere. Spettatore che scruta, seleziona, estrae, ritaglia il corpo spettacolare. Prima: per rivendicare in modo talora violento un’esigenza di totalità. Tutto si tiene, insistono con puntiglio le sue prime critiche drammatiche: i dettagli (specie se visivi) non possono essere trascurati! I costumi «sbagliati» del Cinna di Corneille messo in scena da Vilar, per esempio, fanno gridare (prima ancora d’aver scoperto gli amatissimi costumi del Berliner Ensemble) un Barthes che non vuole sentire ragioni sul resto delle qualità dello spettacolo, perché un tale errore compromette irrimediabilmente «tutta la mirabile esteriorità dell’atto tragico», che è così letteralmente «sottratta agli spettatori»[8]. E l’éblouissement brechtiano intervenuto di lì a poco non può che inasprire le cose: il modello teatrale dell’autore di Madre Courage, fondato sull’idea di discontinuità, di frammentazione, l’autorizza ad assumere con ancor maggiore intransigenza questo ruolo di notomizzatore del teatro che gli si para davanti. Poi: per nutrire la sua scrittura con una propria, personale, teatralizzazione astratta. Una volta caduto il progetto estremizzato di fare del teatro, sulla scorta dell’insegnamento di Brecht, lo strumento più efficace e implacabile della demistificazione sociale, Barthes approderà infatti a un progetto euristico altrettanto estremizzato, che pretende di usare il teatro negandolo, fermandolo come si ferma l’immagine di un film. Una sorta di fantasma teatrale che Barthes si guarda bene dall’alimentare con la visione di nuovi spettacoli reali. Prima di Brecht Conviene, per cominciare, tornare all’inizio, agli esordi di Barthes critico teatrale, insistendo ancora su di un dato già segnalato: nel clima teatrale della Francia del 1953, Barthes è sorprendentemente attrezzato per «vedere cose che gli altri non vedono» (per riprendere la felice formula di Eco), perché pur senza aver letto Artaud e non aver praticamente alcuna idea della teoresi registica europea che va da Adolphe Appia e Gordon Craig, fino a Vsevolod Mejerch’old, Erwin Piscator e allo stesso Brecht, egli ha già spostato il baricentro del teatro dalla lettera del testo drammatico alla dimensione plastica dello spettacolo. Leggiamo ancora dalla prima recensione: Si può e si deve dire che la plasticità di uno spettacolo è più importante della pièce in sé. Il principe di Homburg di Kleist non è che una pièce; Il principe di Homburg di Vilar è uno spettacolo, non certo un insieme di accidenti e di accessori riuniti intorno a un testo deificato conformemente al culto tutto borghese della Letteratura [...], ma piuttosto l’idea sensibile di un determinato atto storico che impone la sua plasticità a tutti i sensi del pubblico e la distribuisce in parti uguali al testo, allo spazio, allo stile, ai movimenti, etc”[9]. E non è affatto esagerato, per una volta, dire che questo primo lungo articolo consente letteralmente di vedere la messinscena di Vilar, di vederne la materialità, le proporzioni, la geometria dei movimenti, in una parola: la teatralità. Quella teatralità che Barthes definisce magistralmente pochi mesi dopo, nel celebre testo sul teatro di Baudelaire: Che cos’è la teatralità? è il teatro meno il testo, è uno spessore di segni e di sensazioni che prende corpo sulla scena à partire dall’argomento scritto, è quella specie di percezione ecumenica degli artifici sensuali, gesti, toni, distanze, sostanze, luci, che sommerge il testo con la pienezza del suo linguaggio esteriore[10]. È questo l’orizzonte d’attesa in cui s’inserisce l’incontro con il teatro di Brecht, avvenuto del resto probabilmente in contemporanea con la stesura di queste ultime righe citate, nel giugno del 1954. Un incontro che porterà in breve tempo Barthes ad ammirare il drammaturgo e a consacrare un vero e proprio culto al teorico, ma che avviene in prima battuta, occorre ricordarlo, con il Brecht regista (funzione che a ben vedere rappresenta la sintesi dialettica delle due precedenti[11]). L’éblouissement brechtiano Barthes ha parlato a questo proposito di éblouissement, termine che è stato tradotto con «folgorazione»[12], ma a cui potremmo accomunare «abbagliamento», «accecamento». In ogni caso si tratta ancora una volta di un’esperienza innanzitutto visiva, a proposito della quale va segnalato un importante elemento fattuale: a differenza dal suo collega Bernard Dort, redattore di «Théâtre Populaire» e futuro compagno di lotte in favore del «brechtismo» in Francia, Barthes non pratica affatto la lingua tedesca, e la Madre Courage che giunge al 1° Festival Internazionale di Parigi non può certo avvalersi delle attuali tecniche di sottotitolazione. Egli dispone probabilmente del riassunto di una trama che già conosce, perché una versione francese della pièce è stata da poco messa in scena da Vilar, e questa condizione di spettatore menomato nella percezione verbale ha senz’altro contribuito alla violenza dell’impatto. Se lo spettacolo del Berliner Ensemble lo ha «letteralmente infiammato» è perché Barthes ha percepito in modo fulmineo che in quel fare teatrale si realizzava la «congiunzione di un pensiero marxista» rigoroso e un acuto «senso del piacere, delle forme», e questa consapevolezza istantanea è stata indotta dalla visione, senza mediazione alcuna, «dei colori, delle illuminazioni, delle stoffe, di tutta la materialità dell’arte pensata in maniera così straordinaria[13]». Barthes ha ripetuto, con un’insistenza quasi maniacale, che ciò che fonda l’insegnamento profondo di Brecht, magistralmente esemplificato da Madre Courage, consiste nel mettere lo spettatore di fronte alla cecità di personaggi incapaci di vedere la propria condizione, non eroi (positivi o negativi che siano) ma piccoli uomini e donne sopraffatti dalle circostanze. Vedere questa cecità, significa afferrare il senso di quel concetto brechtiano che a molti è parso astruso (specie alla critica drammatica francese contro cui si scaglierà Barthes negli anni Cinquanta): il gestus sociale, cioè la condizione sociale di un personaggio o di una situazione, materializzata in comportamento concreto e visibile. Barthes, nel già citato Diderot, Brecht, Ejzenštein, prima lo spiega con grande chiarezza nei suoi tratti generali, poi torna ancora all’esempio di Madre Courage: Che cos’è il gestus sociale? [...] È un gesto, o un insieme di gesti (mai però una gesticolazione) in cui si può leggere tutta una situazione sociale. Non tutti i gestus sono sociali: niente di sociale nei movimenti che un uomo compie per sbarazzarsi di una mosca; ma se questo stesso uomo, vestito miseramente, si dibatte contro dei cani da guardia, il gestus diventa sociale; [...] Si prenda Madre Courage: si arriva sicuramente a un controsenso, se si crede che il suo soggetto sia la guerra dei Trent’anni, oppure la denuncia in generale della guerra. Il suo gestus non è questo: esso va individuato nella cecità della commerciante che crede di poter vivere la guerra e che ne muore; e soprattutto, è nella veduta che lo spettatore ha di questa cecità[14]. Se l’idea di veduta ci riporta alla natura eminentemente visiva della lettura del gestus, la traduzione italiana di questo passo nasconde la sottolineatura personale, quasi biografica, adottata da Barthes: «bien plus, il est dans la vue que j’ai, moi, spectateur, de cet aveuglement». Io, spettatore Barthes, sono il protagonista di questa esperienza visiva, sembra volerci dire l’autore, all’aveuglement di Madre Courage corrisponde il mio éblouissement. Il numen e il gestus Questo protagonista della significazione teatrale è lo spettatore adulto già preconizzato da Barthes prima dell’arrivo «epifanico» di Brecht. Spettatore messo a distanza, a cui si chiede di scegliere e a cui non si semplifica il lavoro con la scusa di rendergli più agevole la digestione: Ora, è importante, à fondamentale che sia l’uomo-spettatore ad assicurare la funzione demiurgica e a dire al Teatro, come Dio al Caos: questo è il giorno, quella è la notte, questa è l’évidenza tragica, quella l’ombra quotidiana. Lo sguardo dello spettatore deve essere una spada e con questa spada, l’uomo deve separare il teatro e il suo altrove, il mondo e il suo proscenio, la natura e la parola. […] Questo luogo [il Cortile del Palazzo dei Papi di Avignone] esigeva che si trattasse l’uomo non come un bambino ritardato a cui si mastica il cibo, ma come un adulto a cui si dà la possibilità di fare lo spettacolo[15]. Quando Barthes tentava di definire idealmente tale ruolo demiurgico assegnato allo spettatore – pienamente sensibile alla plasticità del movimento scenico, alla teatralità, ma al tempo stesso protetto dall’isteria sempre in agguato non appena il corpo dell’attore prende possesso della scena – egli era quasi ossessionato dall’idea di numen, definito come «il congelamento solenne di una posa[16]», una sorta di fermo-immagine teatrale che si produrrebbe nella percezione dello spettatore grazie alla perfetta esteriorità e leggibilità dei segni teatrali, come quella che egli individuava nei lottatori di catch, corrispettivo moderno dell’antica tragedia greca. Non a caso, l’articolo dedicato al Mondo del catch che sarà ripreso in apertura di Miti d’oggi, reca l’epigrafe che sarà più volte ripresa a illustrare il concetto di numen: «la vérité emphatique du geste dans les grandes circonstances de la vie[17]». Questa frase è tratta da Charles Baudelaire, ma come è avvenuto per il concetto di teatralità, Barthes non è andato a cercarla nei suoi progetti teatrali, bensì nei suoi scritti sull’arte pittorica, più precisamente nel commento a due quadri di Delacroix[18]. Ancora un’idea paradossale, fondata su di una concezione puramente ottica del fatto teatrale: il teatro potrà farsi veicolo di un messaggio chiaro ed efficace, e sarà capace di farne pienamente partecipe lo spettatore, quando saprà trasformarsi in quadro, in istante pregnante. Il gestus sociale di Brecht, che per Barthes riprende per l’appunto l’idea dell’istante pregnante già formulata da Lessing, o dell’istante perfetto di Diderot, darà una risposta concreta a questo desiderio contraddittorio, a questa aporia. Il teatro brechtiano è infatti esso stesso «successione di istanti pregnanti»: ...nel teatro epico (che procede per quadri successivi), tutta la carica, significante e piacevole, invest[e] ogni scena, e non l’insieme; a livello dell’opera, niente sviluppo, niente maturazione, un senso ideale, certamente (per ogni quadro), ma nessun senso finale, solo dei ritagli ciascuno dei quali detiene una potenza dimostrativa sufficiente[19]. Le ragioni dell’«incendio» brechtiano sono ovviamente molteplici, e ho già avuto modo di soffermarmi su quelle di carattere politico, con la «militanza» in favore di Brecht condotta sulle pagine di «Théâtre Populaire» a costituire un engagement marxista in qualche modo protetto, lontano dall’agone politico-ideologico propriamente detto degli anni Cinquanta, perché rigorosamente circoscritto all’ambito teatrale[20]. Resta il fatto, tuttavia, che lo spettacolo del Berliner Ensemble si imprime in modo indelebile nell’occhio di Barthes perché soddisfa oltre ogni speranza il sogno di un teatro che, pur mantenendo tutta la vivezza e il dinamismo dell’azione drammatica, assume le sembianze di un istante raggelato, pronto ad essere contemplato, letto e riletto nella perfezione dei suoi dettagli. Questo avviene grazie alla qualità visiva di Madre Courage, alle celebri luci uniformi che rendono ogni sua scena un quadro, una veduta «circoscritta e illuminata». È proprio a queste due caratteristiche che Barthes farà riferimento, molti anni dopo e con un’insistenza che non teme la ripetizione, per definire il proprio «feticismo iconico»: C’è un tipo d’immagine che, personalmente, valorizzo molto ed è l’immagine in quanto vue (veduta), cioè il paesaggio, la cosa, l’essere umano, l’oggetto in quanto al tempo stesso circoscritto e illuminato; il teatro che ho amato è sempre stato un teatro che si fondava su di una drammaturgia del circoscritto e dell’illuminato. [...] Ebbene, le condizioni del mio feticismo iconico, sono il circoscritto e l’illuminato, l’incarnazione ideale dell’immagine circoscritta, illuminata e feticizzata, sarebbe il tableau vivant, che non esiste più e che ha segnato la mia infanzia attraverso certi ricordi[21]. La militanza brechtiana: oggetti, materie, dettagli Scoprire la bellezza, l’efficacia del teatro di Brecht e farsene il più entusiasta e incendiario sostenitore in Francia furono per Barthes, com’è noto, una cosa sola. Per diversi anni, sulle colonne di «Théâtre Populaire» e altrove, egli condusse una vera e propria battaglia per imporre la «Rivoluzione brechtiana», battaglia di cui non è il caso di ripercorrere qui le tappe. Basti dire, come riassume Gianfranco Marrone, che «Brecht fornisce a Barthes gli strumenti estetici e ideologici per quell’opera di demistificazione che egli andava compiendo con Miti d’oggi e che a posteriori troverà conferma teorica grazie alla semiologia[22]». E il teatro, grazie a Brecht, resta un terreno fertile per continuare a snidare lo stereotipo, a metterne in luce i meccanismi ideologici celati dall’apparente «naturalità»[23]. Il testo inedito che qui pubblichiamo, Cos’è un francobollo?, è posteriore all’epoca delle «petites mythologies», risale infatti al 1964, ma ne costituisce in qualche modo un piccolo prolungamento, applicandosi (pur in assenza quasi totale del vetriolo polemico degli articoli apparsi il decennio precedente su «Les Lettres nouvelles») a un luogo quasi ovvio dello stereotipo visivo, il francobollo appunto. Vi si trova una frase di difficile traduzione, che riassume icasticamente l’apparente «naturalità» inoffensiva del francobollo: «le timbre est sage, sage comme une image». Frase in cui Barthes riprende il complimento che si è soliti fare a quei bambini particolarmente ammodo, che sanno stare al loro posto, immobili per l’appunto come un’immagine. Ebbene, a posteriori, potremmo dire che i suoi anni d’entusiasmo brechtiano furono animati dall’ambizione di demistificare sistematicamente l’ingannevole sagesse delle immagini teatrali correnti. Questo traspare con evidenza, per esempio, in Le malattie del costume teatrale, uno degli articoli più brechtianamente «ortodossi» mai scritti da Barthes (gli valse infatti la critica spietata di Ionesco che a lui e a Bernard Dort s’ispirò per concepire i dottori in «scenologia» de L’improvviso dell’Alma, Bartholoméus I e II), in cui il suo sguardo, forte di una dottrina (il già citato gestus sociale) impugnata con sprezzante sicurezza[24], può soffermarsi con quasi fastidiosa meticolosità sul dettaglio, sulla materia dei costumi, per isolarne i virus. Il teatro è fermo, comme une image, sul suo tavolo di lavoro, grazie ovviamente alle fotografie di scena, che Barthes ritaglia, seziona, analizza. «Adoro apporre delle didascalie alle immagini[25]», confesserà molti anni dopo, riproducendo forse inconsciamente la postura brechtiana che consiste nell’isolare l’oggetto del reale, «posarlo a distanza» e offrirlo «spoglio di ciò che gli sta dietro e di ciò che lo circonda[26]». Basti pensare al Diario di lavoro di Brecht, fitto d’immagini ritagliate e fatte reagire (in senso quasi chimico) col breve testo di commento, con la didascalia. L’articolo di Barthes, che è stato ripreso in Saggi critici senza corredo d’immagini, nella sua versione originale pubblicata su «Théâtre Populaire» contiene infatti un vero e proprio collage fotografico. Ecco allora Barthes pronto a cogliere il segreto dell’efficacia materica della scrittura scenica brechtiana: In Mutter Courage del Berliner Ensemble non è mai la data storica effettiva a indicare la verità del costume : è la nozione di guerra, di guerra in movimento, interminabile, che è stata sostenuta e costantemente esplicitata non dalla veracità archeologica di una certa forma o di un certo oggetto, ma dal costante grigiore, dall’usura delle stoffe, dalla povertà densa e ostinata dei panieri di vimini, delle corde e dei legni. Del resto, è sempre grazie ai materiali (e non alle forme e ai colori) che possiamo essere sicuri di trovare una storicità profonda. [...] La verità storica degli uomini si trova nelle cose, non nella loro piatta rappresentazione[27]. Come i costumi, gli oggetti scenici attirano irresistibilmente lo sguardo di Barthes. È il caso, per esempio, de La locandiera goldoniana messa in scena da Visconti, che gli fornisce l’occasione di mettere a nudo uno degli stereotipi più duri a morire (ancor’oggi) nella doxa teatrale francese: l’italianità, categoria assoluta con la quale si sancisce che ogni spettacolo in qualche modo riconducibile al nostro paese debba essere «vivo, spiritoso, leggero, rapido, ecc.[28]», ovvero una conferma del buon vecchio mito della Commedia dell’Arte. La regia che Visconti presenta a Parigi nel 1956 costruisce invece un realismo minuzioso e raffinato, ispirato al contempo all’universo pittorico di Pietro Longhi e a quello di Giorgio Morandi, entro il quale si sviluppa un’azione «fatta di silenzi, di episodi prosaici, in cui gli oggetti familiari (la salsa che si versa, la biancheria che si stira) raddensano la durata teatrale come in una pièce di Čechov.[29]» È proprio l’oggetto, tramite la sua nuda presenza e la sua manipolazione, a rivelare i rapporti (sentimentali e sociali) fra i personaggi, a reggere «un teatro della mediazione, cioè [...] un’arte in cui il reale, lungi dall’essere il segno di un’essenza, è l’ostacolo stesso attraverso cui si crea l’uomo[30]». Si applica così ancora una volta la lezione brechtiana, alla ricerca della congiunzione fra verità materiale della scena e suo trattamento «non naturale», una scena al contrario costruita, illuminata e pensata come un quadro. Il dettaglio dell’oggetto è, dice Barthes, «decisivo»: Non stiamo dicendo che si deve ritrovare [...] una verità naturalistica dell’oggetto: in Antoine, l’oggetto era vero come un’essenza d’oggetto; nel realismo brechtiano, ben più ricco da questo punto di vista, l’oggetto deve esser vero come una funzione, gli oggetti sono dei mediatori: tutta una situazione passa negli oggetti, si manifesta attraverso gli oggetti[31]. Non stupisce il rigetto dell’estetica naturalista di André Antoine, specie se si tiene conto dell’immagine stereotipata di «ottuso realista» del bric-à-brac che negli anni Cinquanta avvolge stabilmente la memoria del primo regista moderno, e di cui Barthes è, stavolta, vittima palese. Eppure è forse proprio in Antoine che potremmo trovare una pista per investigare ulteriormente il suo fascino per il dettaglio reale in scena: l’oggetto e le materie (stoffa, cuoio, vimini, ecc.), e questo al di là della lezione brechtiana. Quando Antoine, a inizio Novecento, cercava di definire a tentoni la regia moderna, svincolandola dalla ripetizione di schemi spaziali e recitativi precostituiti, scriveva: A mio parere, la regia moderna dovrebbe assumere il ruolo che nel romanzo è svolto dalle descrizioni. La regia dovrebbe […] non soltanto fornire il giusto quadro all'azione, ma determinarne il vero carattere e constituirne l’atmosfera[32]. Certo, Barthes sembra lontano anni luce da un realismo che costruisce la scena (contro il trompe-l’œil delle tele dipinte dell’epoca) come uno spazio di vita, abitabile, preso com’è dall’ebbrezza brechtiana di un oggetto e una materia assolutamente funzionali, significanti. Ma quest’ebbrezza, lo sappiamo, non durerà a lungo e Barthes, in concomitanza con lo scemare della sua militanza critica teatrale, e poi attraverso la sua «avventura semiologica», scivolerà progressivamente verso un interesse sempre più pronunciato per il dettaglio «superfluo», «inutile», proprio per l’appunto della descrizione romanzesca. Ci riferiamo, ovviamente, alle celebri tesi espresse ne L’effetto di realtà, dove il barometro di Mme Aubain in Un cuore semplice di Flaubert rappresenta l’oggetto gratuito, «né incongruo né significativo[33]», che proprio perché non può rinviare a null’altro che a se stesso, consente l’effetto di realtà. Ma la scena teatrale letta come una descrizione romanzesca non può più interessare Barthes; l’interrogazione sull’insignificanza, sul neutro, che pure era iscritta nel suo percorso fin dai tempi dell’écriture blanche del Grado zero della scrittura, lo portano davvero da un’altra parte. Perché a contatto con il teatro in carne e ossa, la lezione brechtiana in primo luogo, ma forse anche la sua più antica predilezione per la tragedia greca, non gli permettono di evacuare il portato morale e civico del messaggio drammatico: Nei saggi che ho scritto e che concernevano la letteratura e non il teatro, ho spesso lottato perché non si limitasse la lettura di un testo a un senso definito. Ora, dal momento che c’è spettacolo, ho bisogno che ci sia un senso forte, unico, una responsabilità morale o sociale. Perché sono sempre fedele alle idee di Brecht a cui ero molto attaccato quando mi occupavo del teatro come critico[34]. Come avevamo annunciato all’inizio, la questione dell’abbandono ossessiona inevitabilmente chi interroga il rapporto di Barthes col teatro; ecco forse un altro tassello da prendere in considerazione nel rompicapo di tale questione insolubile: la tensione verso ciò che definirà più tardi, a proposito di fotografia, il punctum, il «particolare imprevisto e aleatorio, rintracciabile soltanto a livello di una soggettività “in situazione”[35] », non può che allontanarlo dal teatro reale. Le foto di Madre Courage, preludio all’abbandono In prossimità di questo allontanamento definitivo, sul limitare degli anni Sessanta, uno dei pochi luoghi (forse il solo) che gli consentono ancora di parlare senza fastidio di teatro è proprio la fotografia, e una fotografia speciale: quella che documenta una volta di più l’inesauribile Madre Courage. La lettura in parallelo dei due testi dedicati al film fotografico dello spettacolo del Berliner Ensemble realizzato da Roger Pic, pur scritti a breve distanza l’uno dall’altro, mostra un’evidente evoluzione dello sguardo di Barthes, spia evidente del processo di abbandono. Il primo, Sette fotografie-modello di Madre Courage, annuncia una lettura del dettaglio, ovvero «esattamente lo spazio in cui risiede il significato[36]» del teatro brechtiano, ma la realizza solo in minima parte. Dopo aver osservato abbastanza minuziosamente un primo scatto, denominato «Il dito alzato», l’attenzione di Barthes si sposta in effetti verso la significazione d’insieme delle situazioni sceniche corrispondenti alle fotografie. Prevale qui l’urgenza di esplicitare, ancora e di nuovo, l’efficacia al contempo teatrale e ideologica dell’arte scenica di Brecht. Cambiano le cose nel Commento che funge da introduzione al libro fotografico pubblicato appena un anno dopo. Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, il testo non recupera che brevissimi passaggi del primo articolo, e concentra davvero l’osservazione sui particolari, costruendo un vero e proprio elogio della «carica straordinaria della visualità» in Brecht e della sua «fiducia sconfinata nell’occhio[37]». Barthes non dimentica certo di sottolineare che «c’è in Brecht una morale del dettaglio» e che quest’ultimo «è un’arma contro la metafisica, una ribellione del mito dell’ineffabile, cioè dell’insignificante[38]», ma tale dettaglio, potremmo dire, comincia a manifestare nella percezione di Barthes una sua vita autonoma... Assistiamo cioè a un abbozzo della ricerca dichiaratamente individuale di ciò che chiamerà poi senso ottuso o ancora punctum. Per esempio: l’articolo si sofferma abbondantemente sulla questione del degrado delle materie (costumi e oggetti) che significano, materializzandola, l’usura inesorabile della guerra, e aggiunge: Ma forse si deve andare oltre: dietro questo significato c’è ancora una cifra. Ben più che nei materiali degradati, tale cifra può essere scoperta in alcune sostanze fresche e fragili [...]: il colletto semiaperto di una camicia, la pelle di un viso, un piede nudo, il gesto infantile di una mano, una casacca troppo corta o abbottonata à metà...[39] Il dettaglio, scrive ancora Barthes, è ciò che a teatro «ha la più alta significazione» e la fotografia permette di portarlo «in superficie dalla piattezza generale della riproduzione» per essere così «immediatamente visto e consumato[40]». Il progetto dichiarato è quello di contribuire a una più efficace intelligibilità dell’estetica teatrale brechtiana, ma resta il fatto che le immagini sono progressivamente svincolate dalla loro origine: il teatro. Barthes le osserva e s’interroga su ciò che ancora «lo punge» di quello spettacolo tanto amato. Ancora due esempi illuminanti che si focalizzano su di una sola parte del corpo, la schiena. Barthes si sofferma sulla fotografia in cui Madre Courage rifiuta al cappellano le bende per i feriti, e scrive: Ebbene, quello che la fotografia mostra non è soltanto il volto di Madre Courage, è anche la schiena del cappellano, massiccia, ostinata, o più esattamente il rapporto tra questo volto che rifiuta e questa schiena che domanda. La fotografia, dunque, qui ha il potere particolare di fissare il più sottile e più complesso dei significati; liberando nello spettacolo un’infinità di spettacoli particolari, mostra da quale discontinuità è costituita una grande opera; sprigiona atomi di spettacolo e fonda, così un vero museo immaginario di Madre Courage[41]. E più avanti, a proposito della celeberrima immagine in cui Helene Weigel sintetizza in un grido muto tutto la disperazione di Madre Courage che ha appena perso un figlio: <>Qual è l’immagine più sconvolgente? La schiena del cappellano che si allontana, per pudore, per impotenza; questa schiena curva che si ritrae, raccoglie, per così dire, tutto il dolore della madre, di per sé insignificante[42]. Non siamo forse in presenza dello stesso atteggiamento che presiederà all’analisi dei fotogrammi di Ejzenštein? Anche qui, Barthes sembra chiedersi: «È tutto? No, perché non posso ancora staccarmi dall’immagine. Mentre leggo, ricevo (probabilmente per primo) un terzo senso, evidente, erratico e ostinato[43]». Ostinato, potremmo aggiungere, come la schiena del cappellano. Il teatro vero e proprio ha ormai ben poco a che fare con tutto ciò, al suo posto si sostituisce un «museo immaginario» che raccoglie un’infinità di «atomi di spettacolo». Lontano dal teatro Siamo nel 1960 e Barthes, in effetti, si separa brutalmente e definitivamente da tutto ciò che riguarda concretamente il teatro, dalla rivista «Théâtre Populaire» alle stesse sale di spettacolo. I brevi o brevissimi interventi, inediti in Italia, che qui pubblichiamo, non fanno che confermare il carattere irreversibile di tale separazione. Capita certo che Barthes rimetta piede a teatro, ma le tracce che testimoniamo la sua presenza comunicano quasi disprezzo, anche quando lo spettacolo visto è oggetto di elogi. È il caso di Turandot, che il regista rumeno Lucian Pintilie trae nel 1974 da Gozzi e da Puccini, e che è apprezzato in quanto «sontuoso» (un aggettivo solo pochi anni prima impensabile in una recensione teatrale di Barthes, il quale del resto si trova in completo disaccordo con le opinioni di Dort e a condividere quelle di Ionesco!) ma soprattutto perché impedisce anche un solo «minuto di noia», sentimento evidentemente associato in modo indissolubile all’esperienza teatrale. L’Edipo di André Boucourechliev, a cui Barthes assiste nel 1978 lo «commuove», ma egli non spende nemmeno una parola per il libretto di Hélène Cixous, né tantomeno per la regia di Claude Régy, perché è la musica del compositore a sostenere tutto, vera e propria regia della voce umana e del pathos, ancora un termine sorprendente, specie in considerazione della precisazione che segue fra parentesi: «termine nietzschiano, wagneriano[44]». È l’Opera, allora, ad esser diventata il suo rifugio teatrale? Il testo del 1967, scritto in occasione della Carmen messa in scena da Arbasino al Comunale di Bologna, potrebbe farlo pensare, perché deplorando l’arretratezza dello «spettacolo lirico tradizionale» sembra voler proporre una revisione dei suoi codici scenici. In un’intervista del 1973, Barthes arriva addirittura a immaginare «un’Opera libera e popolare quanto una sala cinematografica o di catch[45]», ma si stenta a credere a un suo effettivo interesse per il rinnovamento estetico (il Ring wagneriano di Boulez-Chéreau, realizzato a Bayreuth fra il 1976 e il 1980, vera e propria data spartiacque per la nuova regia operistica, non sembra averlo interessato più di tanto) e tantomeno sociologico dello spettacolo lirico. Il fatto è che in questo campo, come confesserà più avanti Barthes, «ci sono certamente due tipi di appassionati d’opera: si ama l’opera o partendo dalla musica, o partendo dall’opera in sé, e io faccio parte dei primi». Quello che conta, per lui, è «il piacere interiorizzato della musica e della voce» che gli consente di «chiudere gli occhi e godere del piacere musicale[46]». Se l’Opera può essere un rifugio, come già l’afferma tra le righe l’articolo del 1967, è perché in essa si può ritrovare «un teatro della cecità». Ovunque si vada a cercare, si trova conferma del sentimento di estraneità provato da Barthes nei confronti del teatro: «mi sento escluso dal teatro d’oggi[47]». Quando il «Nouvel Observateur» gli chiede, come è solito fare con le celebrità, di commentare gli appuntamenti culturali della settimana (dall’8 al 14 ottobre 1978), il teatro non vi trova quasi posto. Fra i pochi eventi teatrali che attirano la sua attenzione: la danza di Merce Cunningham, a cui lo lega un ricordo di «dolcezza» subito relativizzato[48]; un festival internazionale di marionette a cui associa immediatemente l’amatissimo Bunraku, aggiungendo che è «soltanto perché queste marionette vengono d’altrove che la mia curiosità rimane desta[49]»; e infine Edison, lo spettacolo di Bob Wilson, regista il cui lavoro confessa di non conoscere, e che sembra attirarlo, certo, perché «gli è stato detto» dei «nuovi rapporti che egli introduce fra il testo e l’immagine», ma soprattutto perché è intrigato dai «suoi occhi, dal suo viso», scorti nella foto di Robert Mapplethorpe che lo ritrae con Philip Glass. «Dopo tutto – conclude Barthes – questo può bastare per farmi andare a vedere lo spettacolo[50]». Ignoriamo se Barthes ci sia andato o no, ma quest’ultima frase non ha bisogno di commenti. Un luogo che lo attira invece in modo meno occasionale, è «Le Palace»: un teatro sì, ma trasformato in discoteca, che accoglie in quel momento un concerto del gruppo «disco-soul» Sisters Sledge. E Barthes, che ha già dedicato a «Le Palace» un articolo controverso[51], spiega una volta di più come stanno le cose: «ci vado soltanto a tarda notte. Amo molto il luogo un po’ vuoto. Un teatro deserto non mi annoia[52]». Un’operazione, la teatralizzazione Niente da fare. La sfera del «teatro», o piuttosto l’idea sempre più astratta e immateriale che Barthes se ne è andato facendo, lontano dai teatri reali e dal loro «contesto troppo brutale», serve ormai soltanto ad effettuare una delle «operazioni» che fondano, a partire dagli anni Settanta, la sua teoria del testo. Barthes, non a caso, si spiega a questo proposito con Bernard-Henry Levy, nella più volte citata intervista del 1977, proprio quando menziona i suoi «rapporti complicati» col teatro. Dopo aver ammesso di non andarci più, aggiunge: «Diciamo che resto sensibile alla teatralizzazione, e che questa è un’operazione nel senso che dicevo prima», ovvero uno dei procedimenti fondanti della «legge pirata» e «selvaggia» che gli consentono d’impadronirsi «dei temi e delle parole degli altri». Nel Barthes che rivendica questa pratica della rielaborazione, prossima al plagio (come la prassi drammaturgica di Brecht, del resto, basata sulla riscrittura sistematica di materiali preesistenti), ma anche alla variazione musicale, la teatralizzazione è dunque un’operazione centrale, specie per gli «slittamenti» di senso fatti subire alla materia iconica e verbale: «lo slittamento delle immagini»; «lo slittamento del senso delle parole[53]». Ho già segnalato altrove[54] che la teatralizzazione afferente alla materia verbale più esplicitamente messa il luce da Barthes, è quella che egli individua presso quei «formulatori, inventori di scrittura, operatori di testo» che sono per lui Sade, Fourier e Loyola. Dopo che il «logoteta» si è isolato, ha articolato e ordinato gli elementi che vanno a costituire la sua lingua, ecco che interviene la quarta ed essenziale operazione del teatralizzare, che non ha certo una funzione scenografica, decorativa, poiché serve nientemeno che a «illimitare il linguaggio». E cosa intenda Barthes con quest’ultima affermazione lo si comprende, ancora una volta, grazie a un’intervista in cui spiega che la teatralità a cui fa riferimento non è certo quella isterica e post-brechtiana tipica dell’Happening, bensì quella (i cui ispiratori, Freud e Mallarmé, non sono certo dei teatranti) che è «fondata su meccanismi di combinatorie mobili, concepiti in modo ch’essa sposta completamente, a ogni istante, il rapporto tra chi legge e chi ascolta[55]». Il teatro evitato, ignorato, rifiutato ormai definitivamente, rientra dalla finestra in una veste pienamente immateriale, vera e propria energia metaforica, ad alimentare le strategie produttive del testo, e in modo particolare a cancellare la separazione fra scrivente e lettore, fra interprete e ascoltatore[56]. Situazione paradossale se si osserva che Barthes critico drammatico è stato il più fiero avversario (e continua ad esserlo negli anni Settanta, come testimonia l’appena citato fastidio per l’happening) di ogni prospettiva di coinvolgimento diretto dello spettatore, di cancellazione anche solo parziale della linea che deve separare la «scena illuminata» dalla postazione di colui che vi assiste, che scruta. Il teatro, quello vero, rimane infatti per Barthes il luogo della rappresentazione, pienamente fedele in questo al dettato brechtiano, ontologicamente contrapposto, come ci ha ricordato in precedenza il passo tratto da Brecht, Diderot, Eizenstein, alla musica, al testo. Gianfranco Marrone, nella sua lettura sintetica quanto illuminante dell’articolo Dall’opera al testo, fa notare che, per esplicitare lo slittamento dalla prima alla seconda nozione, Barthes utilizza la polisemia del termine jouer, che in francese significa sia «giocare» sia «suonare»: leggere un testo significa giocare con il testo (nel senso ludico) ma vuol dire anche giocare il testo (nel senso musicale). Il lettore del testo opera insomma al modo di quei musicisti dell’antichità (recuperati dalla musica seriale) che sono al tempo stesso interpreti e ascoltatori. Leggere il testo vuol dire contribuire a scriverlo, partecipare attivamente all’atto di produzione linguistica, lasciar proliferare il simbolico[57]. Non è forse sorprendente che Barthes nemmeno prenda in considerazione l’accezione teatrale di questo stesso verbo, jouer, che in francese significa anche «recitare», agire scenicamente? Lo è assai meno di quanto non appaia a prima vista: colui che pratica il testo non può in nessun modo divenire attore, assediato com’è quest’ultimo dalla tentazione dell’isteria, anticamera della possessione, della trance, cioè quanto di più contrario, secondo Barthes, alla lucidità necessaria alla produzione del testo. Se un termine teatrale dev’essere impiegato è forse soltanto quello di spettatore, lo spettatore adulto a cui si è fatto riferimento in precedenza, capace di collaborare alla proliferazione del senso (cosa che del resto gli chiedeva di fare Brecht) e di effettuare autonomamente le proprie passeggiate intertestuali[58], senza muoversi di un centimetro dalla sua poltrona. Verso un teatro mentale Al di là della teoria del testo, Barthes tornerà in qualche modo al teatro con il suo libro più celebre, Frammenti di un discorso amoroso, che non a caso continua a tentare i registi (gli adattamenti e le messe in scena dalla fine degli anni Settanta in poi sono ormai innumerevoli) e che, come ha spiegato Jean-Pierre Sarrazac, integra alla voce proustiana di un narratore, una drammaturgia che, «reinvenzione di un teatro in cui scena e quadro, azione e meditazione sono strettamente articolate l’una all’altra[59]», esita fra il modello brechtiano e quello raciniano. «Paradosso – scrive ancora Sarrazac – di un testo non teatrale, ibrido fra saggistica e finzione, scritto da qualcuno che si è definitivamente allontanato dal teatro, ma che s’incarica o quantomeno si fa tramite del divenire del teatro stesso[60]», visto il ruolo di vero e proprio modello che questo libro ha assunto per molta drammaturgia contemporanea. Ma per tornare alla teatralizzazione in quanto «operazione», là dove Barthes converte l’energia metaforica del teatro con maggiore efficacia è nell’affrontare la materia iconica, specie quella fotografica. Il processo che abbiamo visto delinearsi a contatto con le fotografie di Madre Courage, lontano sempre più dalle platee dei teatri, si estremizza: all’atteggiamento dello spettatore adulto, perfettamente autonomo e consapevole dei suoi mezzi, che si permette di estrarre a piacimento porzioni d’immagine: i celebri 3cmq di Cezanne che diventano un intero quadro di Nicolas de Stael (metafora della trasformazione del senso attraverso l’ingigantimento d’un dettaglio, citata di continuo da Barthes[61]), si aggiunge quella dello spettatore completamente ingenuo, sul modello degli indigeni africani dell’esperienza più volte evocata di Ombredane, i quali del primo filmato a cui assistono memorizzano soltanto il pollo che attraversa fugacemente lo schermo[62]. Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura: è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione[63]. Questo éblouissement, è ora preso in considerazione in tutto il suo carattere non culturale, infantile, selvaggio («sono un selvaggio, un bambino – o un maniaco; io mi spoglio di ogni sapere, di ogni cultura[64]»). È la postura che soprassiede a La camera chiara dove, com’è noto, Barthes sceglie deliberatamente di concentrarsi sull’esperienza soggettiva di fronte alla fotografia, non solo assumendo la voce dell’io narrante, ma mettendo in scena l’intima ricerca dell’identità visiva della madre da poco scomparsa. Tale ricerca porta al ritrovamento – vera e propria agnizione teatrale – della foto che la ritrae bambina (e che al lettore non è concesso di vedere), capace sì di dare un volto all’oggetto del proprio lutto, ma soprattutto portatrice del senso ultimo (per Barthes) dell’immagine fotografica: «immagine viva di una cosa morta», «il reale allo stato passato», o ancora «reale che non si può più toccare[65]». Variamente declinata, quest’idea della fotografia come «agente della morte[66]» conduce Barthes a riallacciarsi al teatro, alle sue radici più profonde e rituali: Se la Fotografia mi pare più vicina al Teatro, è attraverso un singolare relais (può darsi che io sia il solo a vederlo): la Morte. Sappiamo qual è il rapporto originale che lega il teatro al culto dei Morti: i primi attori si distaccavano dalla comunità interpretando la parte dei Morti: truccarsi significava designarsi come un corpo vivo e morto al tempo stesso: busto imbiancato del teatro totemico, uomo dal volto dipinto del teatro cinese, trucco a base di pasta di riso del Katha Kali indiano, maschera del teatro giapponese. Ora, è appunto questo stesso rapporto che io ritrovo nella Foto; per quanto viva ci si sforzi d’immaginarla (e questa smania di «rendere vivo» non può essere che la negazione mitica di un’ansia di morte), la Foto è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti[67]. Barthes sembra quasi voler rispondere a Jean-Loup Rivière, il curatore dei suoi scritti sul teatro (pubblicati nel 2002 ma già in cantiere alla fine degli anni Settanta), che interrogando la sua antica passione teatrale aveva attirato la sua attenzione sul fatto che «l’attaccamento passionale al teatro» ha per forza a che fare con la «presenza, la prossimità della morte», poiché «il teatro è la sola arte che sia l’esperienza sempre rinnovata d’un atto che finisce in sé stesso», perché l’atto teatrale «fa della mortalità la sostanza d’ogni gesto e d’ogni oggetto[68]». Ma la fotografia, precisa Barthes nel suo ultimo libro, «è un teatro snaturato in cui la morte non può “contemplarsi”, rispecchiarsi e interiorizzarsi»; è un «teatro morto della Morte», che comporta «l’impedimento del Tragico» e quindi «esclude qualsiasi purificazione, qualsiasi catharsis[69]». Ecco infine realizzato il modello di teatro mentale che Barthes può ormai frequentare a piacimento, senza timore d’isteria; ecco il numen, che è per l’appunto «l’isteria fissata, eternizzata, intrappolata, perché finalmente viene tenuta immobile, incatenata sotto un solo sguardo[70]» e che consente ogni scivolamento di senso, ogni teatralizzazione al riparo dalla materialità della scena. Questo teatro mentale può infine essere «folle», può cioè rifiutarsi di essere «savio», sage, sage comme une image. [1] RB, «Testimonianza sul teatro» (1965), in Sul teatro, Roma, Meltemi, 2002, trad. di Laura Santi, p. 33. [2] RB, Barthes di Roland Barthes, Torino, Einaudi, 1980, trad. di Gianni Celati, p. 200. Occorre segnalare che la bellissima traduzione di Celati è in questo caso un po’ fuorviante. Barthes scrive infatti: «dans toute son œuvre». [3] RB, «A cosa serve un intellettuale?», intervista a cura di Bernard-Henry Levy (1977), in La grana della voce, Torino, Einaudi, 1986, trad. di Lidia Lonzi, p. 272. [4] La lettura degli scritti sul teatro di Barthes, come ha osservato il curatore dell’edizione francese, «è un’esperienza analoga alla lettura dei Salons di Diderot o di Baudelaire, o delle critiche letteraire di Lessing o Walter Benjamin» (Jean-Loup Rivière, Préface a RB, Ecrits sur le théâtre, Paris, Seuil, 2002, p. 12). [5] RB, «Diderot, Brecht, Ejzenštein» (1973), in L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi, 1985, trad. di Gianni Bottiroli, p. 89. [6] RB, «Il principe di Homburg al TNP» (1953), in Sul Teatro, cit., p. 41. [7] RB, discussione a proposito di Jean-Loup Rivière, «La déception théâtrale» (1977), in Antoine Compagnon (a cura di), Pretexte, Roland Barthes, Paris, Christian Bourgois, 2003, p. 125-26. [8] RB, «Dibattito su Cinna» (1954), in Sul Teatro, cit., p. 109. [9] RB, «Il Principe di Homburg al TNP», cit., p. 46. [10] RB, «Le théâtre de Baudelaire» (1954), in Saggi Critici, Torino, Einaudi, 2002, trad. di Lidia Lonzi, pp. 27-28. [11] Cfr., a questo proposito, Claudio Meldolesi, Claudia Olivi, Brecht regista: memorie dal Berliner Ensemble, Bologna, Il Mulino, 1989. [12] RB, «La Folgorazione», in Il Brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988, trad. di Bruno Bellotto. [13] RB, «Venti parole-chiave per Roland Barthes», intervista a cura di Jean-Jacques Brochier (1975), in La grana della voce, cit., p. 220. [14] RB, Diderot, Brecht, Ejzenštein, cit., pp. 93-96. [15] RB, «Avignone, inverno» (1954), in Sul teatro, cit., pp. 87-89. Barthes insiste molto sulla necessità di non «infantilizzare» lo spettatore. Critica per esempio l’interpretazione di Riccardo II da parte del celebre Gérard Philipe, colpevole a suo dire di «lusingare l’inerzia dello spettatore», offendogli un personaggio «tutto scorticato, disarticolato, spezzettato, ridotto e travasato come un alimento infantile o elementare, ingerito con la tettarella o la cannuccia» (RB, Fine di Riccardo II (1954), in ibid., p. 82). Sull’importanza del termine «adulto» negli scritti teatrali di Barthes, cfr. Jean-Loup Rivière, Préface, cit., pp. 14-15. [16] RB, «Fotografie-choc» (1955), in Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974, trad. di Lidia Lonzi, p. 103. [17] RB, «Il mondo del catch» (1952), in ibid., p. 5. [18] I due quadri in questione sono I crociati alla presa di Costantinopoli e La giustizia di Traiano, visti all’Esposizione Universale del 1855 e definiti da Baudelaire di «bellezza tutta shakespeariana». Cfr. Charles Baudelaire, «Esposizione universale, 1855, Belle Arti», in Scritti sull’arte, a cura di Ezio Raimondi, Torino, Einaudi, 2004, p. 198. [19] RB, Diderot, Brecht, Ejzenštein, cit., p. 92. [20] Cfr. Marco Consolini, Théâtre Populaire (1953-1964). Storia di una rivista militante, Roma, Bulzoni, 2002. [21] RB, discussione a proposito di Jean-Loup Rivière, La déception théâtrale, cit., p. 141. [22] Gianfranco Marrone, Il sistema Barthes, Milano, Bompiani, 1994, p. 50. [23] Ibid., pp. 54-55. [24] Una breve citazione a titolo d’esempio: «Tutto ciò che nel costume [...] contraddice, oscura o falsifica il gestus sociale dello spettacolo, è cattivo; al contrario, tutto ciò che, nelle forme, nei colori, nei materiali e nella loro organizzazione – aiuta nella lettura del gestes è buono» («Le malattie del costume teatrale» (1954), in Saggi Critici, cit., trad. di Marina Di Leo, pp. 40-41). [25] RB, «Sulla fotografia», in La grana della voce, cit., p. 350. [26] RB, «L’arte questa vecchia cosa» (1980), in L’ovvio e l’ottuso, cit., p. 202. [27] RB, «Le malattie del costume teatrale», cit., p. 42. [28] RB, «La locandiera» (1956), in Sul teatro, cit., p. 185. [29] Ibid., pp. 185-186. [30] Ibid., p. 186. [31] RB et Bernard Dort, «Brecht tradotto» (1957), in ibid., p. 194. [32] André Antoine, «Causerie sur la mise en scène» (1903), in Jean-Pierre Sarrazac, Philippe Marcerou (a cura di), Antoine, l’invention de la mise en scène, Arles, Actes Sud, 1999, p. 108. [33] RB, «L’Effetto di realtà» (1968), in Il brusio della lingua, cit., p. 152. [34] RB, «Un contesto troppo brutale» (1979), in La grana della voce, cit., p. 311-312. [35] Gianfranco Marrone, cit., p. 206. [36] RB, «Sette fotografie-modello di Madre Courage» (1959), in Sul teatro, cit., p. 225. [37] RB, «Commento a Madre Courage e i suoi figli», in ibid., p. 257. [38] Ibid., p. 252. [39] Ibid., p. 251. [40] Ibid., p. 252. [41] Ibid., p. 246. [42] Ibid., p. 251. [43] RB, «Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Ejzenštein» (1970), in L’ovvio e l’ottuso, cit., p. 43. [44] Si legga quanto scritto da Barthes alcuni anni prima in materia di tragedia: «Nonostante la sua bellezza, niente è più discutibile dell’opposizione nietzschiana tra il dionisiaco e l’apollineo; la tragedia pensata da Nietzsche non è quella di Eschilo, è quella di Wagner, ovvero il contrario di una tragedia, perché l’elemento musicale in essa ingloba trionfalmente tutti gli altri segni, e non c’è illusione più grande che credere a una fusione omogenea dei differenti livelli di pathos» (RB, «Poteri della tragedia antica», in Sul teatro, cit., p. 57). [45] RB, «Il fantasma dell’opera», intervista a cura di Hector Bianciotti (1973), in La grana della voce, cit., p. 182. [46] RB, A cosa serve un intellettuale?, cit. p. 258. [47] RB, «Barthes sur scène», intervista a cura di Caroline Alexander (1978), in Œuvres Complètes, III, Paris, Seuil, 1995, p. 898. [48] «Conservo un ricordo di grande dolcezza delle sue serate di balletto all’Opéra. È raro provare una tale sensazione con la danza che lascia vedere il muscolo, l’isteria o la ieraticità. Delicatezza dunque, ma ciò che mi restuisce il ricordo ha a che fare anche con l’arbitrarietà della rimembranza» (RB, «La semaine de Roland Barthes» (1978), in Œuvres Complètes, III, cit., p. 908. [49] Ibid., p. 910. [50] Ibid. p. 909. Il ritratto di Bob Wilson e Philip Glass fa parte del corpus di fotografie analizzate da Barthes ne La camera chiara, Torino, Einaudi, 1980, trad. di Renzo Guidieri, pp. 52-55. [51] RB, «Au Palace ce soir» (1978), in Œuvres Complètes, III, cit. Sul carattere quasi provocatorio di questo breve articolo che sembra voler rinnegare tutto il proprio passato teatrale, cfr. Jean-Pierre Sarrazac, «Le retour au théâtre de Roland Barthes» (1996), in Critique du théâtre, Saulxures, Circé, 2000, p. 121. [52] RB, La semaine de Roland Barthes, cit., p. 911. [53] RB, A cosa serve un intellettuale?, cit., p. 271. [54] Cfr. Marco Consolini, «La catégorie universelle sous les espèces de laquelle le monde est vu…», in Augusto Ponzio, Patrizia Calefato e Susan Petrilli (a cura di), Con Roland Barthes. Alle sorgenti del senso, Roma, Meltemi, 2006. [55] RB, «Piacere/scrittura/lettura», intervista a cura di Jean Ristat (1972), in La grana della voce, cit., p. 163. [56] Barthes ricorre di nuovo alla metafora teatrale per spiegare quest’idea: «Sulla scena del testo, niente ribalta: non c’è dietro al testo qualcuno d’attivo (lo scrittore) e davanti qualcuno di passivo (il lettore); non c’è un soggetto e un oggetto» (RB, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975, trad. di Lidia Lonzi, p. 16). [57] Gianfranco Marrone, cit., p. 130. [58] Barthes spiega così tali passeggiate: «Il lettore del Testo potrebbe essere paragonato a un soggetto inoperoso (che avrebbe dispiegato in sé ogni immaginario); tale soggetto relativamente vuoto passeggia (proprio questo è accaduto all’autore di quanto state leggendo, ed è così che è stato colpito da una visione pregnante del Testo), costeggiando una valle sul cui fondo scorre uno uadi (lo uadi è introdotto per dare l’idea di un certo spaesamento); quel che percepisce è molteplice, irriducibile, proveniente da sostanze e da piani eterogenei, staccati: luce, colori, vegetazione, calore, aria, esplosioni attutite di rumori, vaghi cinguettii d’uccelli, voci di bambini dall’altra parte della vallata, passaggi, gesti, vestiti di abitanti da vicino o in lontananza; tutti questi elementi sono identificabili solo per metà: provengono da codici noti, ma la loro combinatoria è unica, fonda la passeggiata come differenza che potrà ripetersi soltanto in quanto differenza» (RB, «Dall’opera al testo» (1971) in Il brusio della lingua, cit., pp. 60-61. [59] Jean-Pierre Sarrazac, cit., p. 126. [60] Ibid., p. 125. [61] Cfr. RB, «Requichot e il suo corpo» (1973), in L’ovvio e l’ottuso, cit., p. 227, o ancora «Arcimboldo ovvero Retore e mago» (1978), in ibid., p. 141 (dove curiosamente i centimetri diventano 5), ma la lista potrebbe continuare. [62] Cfr. RB, «La camera chiara», cit., p. 82; «Dritto negli occhi» (1977), in L’ovvio e l’ottuso, cit., p. 303; Antoine Compagnon, cit., p. 145. [63] RB, La camera chiara, cit., p. 50. [64] Ibid., p. 52. [65] Ibid., pp. 80, 83 e 87. [66] Scrive Barthes a questo proposito: «Tutti questi giovani fotografi che si agitano nel mondo, consacrandosi alla cattura dell’attualità, non sanno di essere gli agenti della Morte» (Ibid., p. 143-144). [67] Ibid., p. 32-33. [68] Jean-Loup Rivière, La déception théâtrale, cit., pp. 133-134. [69] RB, La camera chiara, cit., p. 91. [70] RB, Barthes di Roland Barthes, cit., p. 153.
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