Ermanno Cavazzoni
Il comico senza strategia
Il comico senza strategia
Se gli uomini fossero esseri perfetti non ci sarebbe il comico a questo mondo; se fossero dotati di pura ragione e parlassero la lingua logica dei calcoli, il comico non saprebbero neanche cos’è. Gli angeli, gli arcangeli, cherubini ecc. ad esempio non ridono, o almeno non risulta, perché sono intelligenze integrali senza difetti. Nei loro raduni si leggono reciprocamente la mente, perché sono anche telepatici, quindi non possono fare errori di pronuncia, o di lingua; si guardano dritti negli occhi e tutto è già trasmesso all’istante, in un lampo, quindi i loro raduni durano pochissimo, appena il tempo di arrivare, sedersi e son già stati fatti i saluti di inizio lavori, le relazioni, il dibattito, mezzo secondo per il dibattito, anche meno, le conclusioni, il saluto dell’autorità, che è un flash, e gli angeli sono già là che vanno ognuno per la sua strada, imperturbabili e seri come telecabine su una monorotaia. Non essendoci bisogno di parlare, non ci sono neppure errori di lessico o di sintassi (che nel comico sono fondamentali), né errori dovuti a sordità; che se invece ci fosse per caso un vecchio arcangelo sordo, con la cornetta, che chiede a tutti: come? eh? cos’è successo? cos’hai detto? ... allora forse, un po’, impercettibilmente ci sarebbe da ridere, e alle riunioni celesti ci si andrebbe anche più volentieri, io credo; o ci fosse un arcangelo che si addormenta, cioè piega la testa a destra, a sinistra, gli occhi a mezz’asta, il respiro pesante, e gli altri a chiamarlo: Michele! sveglia! si trattasse ad esempio di Michele arcangelo, in servizio dal principio dei tempi, si può dire, quindi almeno da 15 miliardi di anni, dall’epoca del big bang; 15 miliardi di anni si sentono, e anche gli arcangeli potrebbero andare verso il decadimento termico, alla riunione se ne starebbero vicino al calorifero: Michele tocca a te! non star lì a cuocerti! tutto sempre telepaticamente, ma anche la telepatia fa fatica a arrivare se un’intelligenza lavora a meno 270 gradi centigradi, che è la temperatura media attuale dell’universo, tre gradi sopra lo zero assoluto, in cui ogni cosa cessa di esistere. E ci fosse anche qualcuno un po’ balbuziente, e che anche telepaticamente presentasse una forma di balbuzie congenita, e tutti gli altri gli dicessero apposta: chiamalo tu Michele! e lui s’impuntasse telepaticamente come fanno i balbuzienti e spingesse invano la prima sillaba con il pensiero, ma il mi di Michele niente, non ci fosse verso di farselo uscire, ci sarebbe forse un pochino da ridere, o da ridacchiare; lui che s’impunta e Michele arcangelo che sonnecchia al caldo perché di riunioni ne ha sentite miliardi e non c’è mai niente di nuovo, la solita solfa, e allora gli cade la testa. E Dio Onnipotente magari direbbe: smettetela! ma sotto i baffi anche lui riderebbe, di questi arcangeli un po’ difettosi, cioè infantili, goliardici, eternamente lì a farsi scherzi, sono sicuro però che ai raduni se la spasserebbero, e che ci sarebbe poi qualcosa da raccontare, su cui si potrebbe ridere ulteriormente, nei corridoi, durante la ricreazione, o il sabato e la domenica, quando sono in libera uscita, e rievocano tutte le coglionate che hanno fatto durante la settimana, sempre telepaticamente, ma magari con qualche sconcezza, che gli arcangeli insegnano ai cherubini, o qualche forma di slang, mezza in dialetto mezza il latino, che i cherubini poi usano innocentemente davanti a Nostro Signore, tra lo spasso di tutti, io credo anche di Nostro Signore. Gli hanno insegnato magari a fare delle pernacchiette per via transmentale, i cherubini sono menti ingenue e quando attaccano non smettono più, come una valvola difettosa di una pompa ad aria compressa.
Invece l’angelo non ha difetti, non invecchia né ringiovanisce, non dorme, non russa o sornacchia, né gli cade la testa ad esempio durante una riunione strategica, non usa metafore, anacoluti, circonlocuzioni, né ha incertezze, né ad esempio si instupidisce col vino, la birra, la tequila, la vodka, la slivoviza, la grappa; l’angelo è astemio, se no ci sarebbe ulteriormente da ridere, vedere un loro raduno, dove tutti sono ubriachi; di vodka se sono angeli o arcangeli russi; di grappa se sono veneti o friulani, e il puro intelletto ondeggerebbe come l’acqua dentro una barca in mare. E lo stesso Dio Onnipotente fosse un famoso alcolizzato, ce ne sarebbe dopo da raccontare! e da ridere! per tutti gli errori, anche di Dio, che, si direbbe ad esempio, stava aggrappato a un lampione, mentre gli arcangeli cantavano in coro non litanie edificanti, ma cori come in caserma, con in mezzo fregnacce e coglionate, e quel blaterare di sesso onnipresente negli ubriachi.
Invece negli angeli non c’è difetto; come nelle macchine calcolatrici.
E anche le volte che parlano agli uomini, pur dovendo scendere al piano sintagmatico e paradigmatico dell’espressione, si limitano alla frase essenziale. «In hoc signo vinces», ad esempio, apparve scritto in cielo all’imperatore Costantino (312 d.C., prima della battaglia di Ponte Milvio). Era un consiglio molto elementare, di cambiare le insegne; ma non è così in genere che si dà un consiglio. Casomai quella frase sembra cavata dal repertorio delle frasi fatte; niente da eccepire sul piano sintattico grammaticale, è perfetta, anche la consecutio. Ma è una frase distante mille chilometri dal benvolere affettuoso che in genere c’è in un consiglio. «In hoc signo vinces», a chi è venuta in mente? Sembra una frase preregistrata, come quelle che si sentono dagli altoparlanti in stazione: Il diretto delle 14 e 20 arriverà e partirà sul terzo binario... «in hoc signo vinces». Non c’è vera comunicazione; se si parla agli umani bisogna mettersi sul loro piano, che è il piano dell’errore e dell’approssimazione. «Il capo dice - poteva apparir scritto in cielo a Costantino - il capo dice che se adottate questo segno qui, avete il 99 per cento di probabilità di vincere». «Grazie, ne tengo conto - avrebbe risposto Costantino - tenetemi aggiornato con le statistiche, e i miei rispetti al vostro capo, ci risentiamo». «Va bene - scritto come risposta su in cielo - auguri, state su col morale, e date da bere qualcosa a Costantino, che è un po’ pallido, e preoccupato. Il vino porta consiglio, in vino veritas». Quando si hanno i mezzi non ci vuole niente a fare scritte lunghe in cielo, anche andando a capo, scrivere una mezza paginetta, dando anche disposizioni più dettagliate per la battaglia: voi dovreste avanzare con l’ala sinistra, e intanto gettare nella mischia i peltasti, i frombolieri balearici ecc. ecc. «In hoc signo vinces» non tranquillizza nessuno. E se ci sono errori o refusi questo tiene allegri i soldati: «ragazzi - potevano scrivere in cielo - ragazzi, se a qualcuno va male, se qualcuno ci rimette le penne, ci vediamo poi qui su da noi, ma portate da bere, che qui abbiamo tutti la bocca asciutta».
Ma gli angeli, arcangeli, principati, cherubini, serafini ecc. è notorio che non hanno humor; anzi per loro è un po’ inspiegabile che quaggiù ogni tanto o spesso si rida. Gli uomini son fatti male, si dice, il riso è una compensazione dei loro errori, se nascessero con la scienza matematica logica e geometrica infusa, non avrebbero queste convulsioni. Tra gli angeli e gli uomini c’è una totale incomprensione: a noi gli angeli sembrano dei meccanismi automatici, con una lingua da segnaletica stradale o da istruzioni per l’uso o da prontuario turistico; agli angeli noi probabilmente sembriamo degli orologi svizzeri falsi e di similoro, che sembrano svizzeri ma poi non funzionano o funzionano male, cioè sbagliano ora, sbagliano data, saranno a immagine e somiglianza di quelli svizzeri a vederli in distanza, però dentro il loro meccanismo è tutto un errore permanente e continuo. E probabilmente sembriamo anche degli orologi matti, che prendono gusto a sbagliare, per avere uno spasmo di riso alla glottide, o anche solo un contorcimento alla mente.
Il fatto è che tra gli angeli vige il pensiero unico, sia nel senso che l’hanno tutti uguale (come le pecore, mi dispiace dirlo), sia che lassù c’è un modo solo di pensare giusto (come sotto Mussolini, in un certo senso, solo che Mussolini si è sempre sbagliato, e sotto di lui ognuno sbagliava a suo modo, dando un’immensa materia di riso, si pensi solo al vestiario, all’orbace, al fez, ai gerarchi di cento chili a passo di corsa, al sabato Balilla, a noi tireremo diritto, che se non fosse per le conseguenze funeste che ha avuto, si potrebbe dire che il fascismo, di errore in errore, di finzione in finzione, di coglionata in coglionata, ha creato un gran carnevale, una gran mascherata, un’Italia tutta di latta, di cartapesta e illusioni, dove ognuno tirava a fare i propri individuali interessi e il proprio teatrino). Gli angeli invece sono fatti con lo stampino, pensiero unico, come dice Averroè; si fa fatica a distinguerli da Dio Onnipotente, non si sono mai districati, come quei figli che restano in famiglia e non si sviluppano. E questo perché non hanno corpo. Tutti gli errori in genere vengono dal corpo, e dal fatto che siamo esseri distinti. In che senso? nel senso che il corpo interferisce con il pensiero, e che i pensieri degli altri interferiscono coi nostri. Gli esseri umani sono sì a immagine e somiglianza, ma la somiglianza è molto, molto, molto approssimativa.
«Fiat lux», sembra abbia detto Dio Onnipotente all’inizio, che è un bell’esempio di essenzialità, e io dico di incorporeità, perché se fosse stato grasso, ad esempio un dio grasso (come ce ne sono in Africa e Asia) e quindi indolente, e quindi ossessionato dagli angeli (più magri e più arzilli) che trovavano troppo buio e catacombale l’universo e senza possibilità di scorgersi reciprocamente, e fossero stati miliardi di miliardi di anni che gli angeli si lamentavano, non c’è niente, non c’è nessuno, non si sa che ora è, non ci si vede, non passa il tempo... miliardi di miliardi di anni, dandogli noia al suo quieto vivere da dio grasso coi trigliceridi alti, cosa avrebbe detto a un certo punto? «E facciamola 'sta luce!» avrebbe detto, che non è uguale a «fiat lux», cioè avrebbe parlato come uno pesante che non ne può più dei fastidi, cioè il corpo avrebbe interferito con il pensiero e il «fiat lux» si sarebbe, diciamo così, deformato, cioè non sarebbe stato un pensiero unico e puro, uno scheletro grammaticale fulmineo (che nell’originale doveva essere un impulso di telepatia), ma sarebbe uscita la frase lenta che ho detto («e facciamola ‘sta benedetta luce»).
Ma se gli angeli invece che ossessivi fossero stati dei buoni figlioli, un po’ mogi per tutto questo buio senza fine e senza sorprese, e il loro papà gli avesse voluto bene ai suoi angeli, li avesse voluti un po’ rallegrare, e fare come quei papà che regalano ai figli un trenino in scala ridotta con tutta la linea ferroviaria da montare, per giocarci con loro, papà e figli insieme, cosa avrebbe detto? «Ragazzi - avrebbe detto ai cherubini, serafini ecc. - ragazzi, adesso sapete cosa? adesso vi faccio la radiazione elettromagnetica». E la radiazione elettromagnetica fu. Che c’è dentro a questa frase, come si vede, parecchie altre frasi. «State allegri» c’è dentro, e anche una certa compiacenza tecnica da condividere, che presuppone che gli angeli siano maschi, abbiano cognizioni di fisica, e anche Dio sia un papà e non ad esempio una mamma, perché l’elettromagnetismo è una cosa da maschi, le femmine non cambiano neanche le lampadine, o non sono interessate a cambiarle, il sesso intermedio non so.
Allora riassumo: l’uomo non è un angelo, e ha molta confusione in testa; si è inventato il linguaggio algebrico per avvicinarsi alla lingua degli angeli, ma normalmente quando parla (e anche quando sta zitto) è traversato da molte fantasticazioni, anche in contemporanea, che gli vengono dal fatto che ha un corpo con tutte le sue impellenze, il fatto che ha fame, ha sete, è impaziente di andare a mangiare, ha magari un ascesso a un dente che lo fa sacramentare, o il raffreddore che lo ottunde e non capisce più niente; e poi ha tutti gli umori, che gli variano anche ogni cinque minuti, è nervoso, poi è pacifico, ha sonno, è rincoglionito, amareggiato, disperato, poi ci sono gli altri, i discorsi degli altri, le loro coglionerie, che magari diventano un’ossessione, diventano odi e rancori da cui non si può districare, e quindi un uomo è mediamente un accavallarsi di idee, frasi sentite, rimuginamenti, antipatie, pezzi di psicologia, di odio per la psicologia, pezzi di libri, pezzi di malinconia per una fidanzata che non c’è più, ahimè, quando l’avevo non sapevo mi piacesse tanto, e sono io che l’ho lasciata andare, perché sono un cretino, adesso cosa me ne faccio della mia vita? e poi pezzi di filastrocche, sono un cretino, sono un cretino, sono un cretino, non c’è rimedio, chissà lei adesso dov’è, sarà più contenta, anch’io se fossi una donna, me mi sarei piantato da un pezzo ecc. ecc. L’uomo è un gran guazzabuglio, e la Bibbia avrebbe dovuto dire che è stato fatto a immagine e somiglianza di un ripostiglio, dove ci finisce di tutto; e quando parla, nel suo discorso tutto questo s’insinua, tutto questo ciarpame, nel senso che ogni frase è un accumulo e ci si può trovare sempre traccia di tante cose. Poi l’uomo impara a tenere chiuso quanto più possibile lo sgabuzzino e a tirar fuori un discorso per volta, ci sono lingue artificiali inventate per questo, la lingua burocratica, medica ecc., che sono come dei riduttori di potenza, dei limitatori, quando uno sia nell’esercizio di queste funzioni, cioè sia ad esempio un ufficio statale che emette un comunicato del tipo «...si dà seguito con la presente all’istanza di cui in allegato...», allora vuole dare l’idea che la sua voce è esente da tutto il resto che è umano, e scende giù direttamente dal ministero, che vorrebbe apparire un ente incorporeo, molto prossimo agli angeli. Ma in stato normale, quando un uomo sia di fronte a un altro e parli, come minimo a quel che vuol dire si aggiungono i moti di simpatia, antipatia ecc. nei confronti dell’altro, ossia gli esce una frase che come minimo è doppia (tripla ecc.). Queste interferenze o convivenze a rigore sono errori, e se un ufficio statale si facesse prendere dall’ira e improvvisamente nel corso di un comunicato bestemmiasse o inveisse, o desse del figlio di puttana ad esempio al trasgressore eventuale, sarebbe un errore, dicesse «...il gran figlio di puttana che venga meno alla norma 371 b della normativa suindicata... ecc.», l’errore verrebbe corretto, il funzionario sarebbe retrocesso. Ma in verità il funzionario, con le sue inopportune volgarità o coprolalie inserite, avrebbe solo dato luogo alla sua piena umanità, che in questo caso sarebbe di covar l’odio insieme alle normative, o di covare altre idee parallele, due fili di pensieri insieme, che è il caso minimo, perché anche un funzionario che non sia angelico, o che non sia stato allevato nelle scuole delle SS, anche un funzionario ha la mente come uno sgabuzzino di roba vecchia e rifiuti, e quando socchiude la porta gliene cade un po’ fuori in forma mista. Certo se il funzionario statale insiste e il suo sgabuzzino gli invade il mestiere con locuzioni inappropriate e rabbiose ogni volta ad esempio che si citi la norma 371 b e postille, i superiori possono giungere alla richiesta di un ricovero coatto in una struttura psichiatrica; perché si è convenuto tra gli umani che la sovrabbondanza di pensieri ingarbugliati è un male. A meno che quel tale non lo si confini nella letteratura, che è un luogo più accondiscendente.
Prendiamo ad esempio uno che sia ateo e lo sia sempre stato senza problemi; ma a un certo punto, per qualche ragione, perché ad esempio è invecchiato, e si è ad esempio ammalato e ad esempio gli sembra di non avere di fronte una prospettiva molto felice col suo ateismo, che gli promette di finire nel niente, un mucchietto di ossa e poi polvere, e allora a un certo punto a questo ateo gli farebbe comodo che Dio ci fosse, con tutto quello che ne consegue nell’aldilà, inferno, purgatorio e paradiso, ma soprattutto è al paradiso che è interessato, che ne ha sempre sentito parlare bene, tesser gli elogi, come di un’ottima sistemazione. E allora si mette a pregare, non si sa mai!; però è anche ateo, e questo ateismo non lo può far tacere, quindi, come dire? ci sono due pensieri che si accavallano con forza uguale; e gli esce questa preghiera, cito da Daniele Benati che cita la preghiera fatta un giorno dal fratello di suo nonno.
«Signore (Sgnor, diceva in dialetto) signore, se ci siete, fate che la mia anima, se ce l’ho, vada in paradiso, se c’è».
È una cosa che fa un po’ ridere, ma anche che non ha senso, perché credere e non credere si elidono, stando alla logica; e se uno non crede non ha senso che preghi; e se però prega, diciamo anche solo per scaramanzia, per quello zero virgola zero zero uno di probabilità, non ha senso che esponga anche il suo scetticismo, perché se ci fosse per caso Dio, di sicuro ne terrebbe conto. «Signore, se ci siete...», «Come se ci sono? - Dio è permaloso - aspetta che ti sistemo io», e la preghiera allora è quasi controproducente; «...fate che vada in paradiso, se c’è». «No, aspetta, che per te c’è un altro posto, più adatto, fa un po’ caldo...», e in paradiso il fratello del nonno di Daniele Benati è difficile sia riuscito ad andarci. Non si stuzzica Dio con i dubbi: «...l’anima, se ce l’ho...», «Ce l’hai, ce l’hai, vieni su, che c’è un posticino, sesto girone, che ci son già degli altri, anche loro hanno pregato, perché non si sa mai, pensavano; vedrai che avrete tempo di fare amicizia».
Ma d’altronde con Dio bisogna esser sinceri, perché tanto legge nei cuori, o come minimo è telepatico. Quindi in ogni caso questa preghiera è un errore, ma non un singolo errore isolato, come un inciampo, come uno che dica solo: «Dio anche se non ci sei, mandami in paradiso»; «Tu non ragioni - direbbe Dio - hai fatto un errore da principiante di logica»; mentr’invece la preghiera del fratello del nonno è un errore protratto, insistito, che percorre tutto il discorso dall’inizio alla fine, come un cavillo che spinge da sotto e ogni tanto esce fuori, il che è anche peggio dal punto di vista di Dio Onnipotente, perché una volta uno può anche sbagliare, ma l’errore continuo è vizio e questa preghiera è tutta viziata, indispettirebbe anche un santo, anche uno più bendisposto di Dio Onnipotente, che dall’umanità ha sempre avuto delusioni, e che legge la mente e vede come è fatta anche quella del fratello del nonno, a due strati; che se fosse ateo puro, magari con un pentimento in fin di vita si salva, ma così come si fa? con questa idea di riserva che sta sotto, e che però, diciamolo, è esemplare della mente umana al lavoro, la quale viaggia su due binari, che a volte divergono talmente da produrre quello stato di errore costante che chiamiamo comicità.
Se la espongo io da esegeta, se cioè sciolgo i due fili e li distinguo, ateismo da una parte, la mezza speranza dall’altra, la cosa non fa più ridere; ma la preghiera nel momento in cui viene detta, nel suo intrico, nella sua ostinazione, in questo ritorno della miscredenza che si vorrebbe far tacere ma che di continuo rispunta come una seconda voce più bassa, la preghiera pronunciata fa ridere tutta; non come una battuta di spirito, che è un lampo, ma in quanto condizione naturale del parlare umano, quando diversi pensieri o fantasticherie divergono molto pur dovendo convivere assieme. E se Dio Onnipotente avesse il senso della comicità, lui che ci ha creato così, avrebbe riso, e avrebbe mandato in paradiso il fratello del nonno di Daniele Benati, o solo qualche mese in purgatorio a chiarirsi le idee.
Dunque, riassumendo, il fratello del nonno di Daniele Benati è un po’ il prototipo dell’umanità, che è comica costituzionalmente, e la sua comicità viene dal fatto che il pensiero è sempre accavallato, impossibile far tabula rasa dentro di sé, come dice Cartesio: uno i pensieri e le fantasticazioni se li tira dietro come il pastore le pecore, un uomo non è come un angelo, ma è qualcosa di multiplo, e la parola di cui è dotato peggiora ulteriormente la situazione, nel senso che ci convergono strati diversi, è uno sgabuzzino più o meno ordinato; gli angeli dicono che siamo delle pattumiere, loro non van tanto per il sottile, sanno dire solo la verità; e se da una pattumiera uno cerca di tirar su qualcosa (per dirlo), ci vien dietro qualcos’altro attaccato, o ci vien dietro anche solo dell’immondizia e dello sporco, torsoli di mela, lische di pesce, roba avariata, ma anche ad esempio cose che a lucidarle sembrano nuove splendenti.
Ma è possibile per un uomo allora essere serio? ossia parlare pulitamente, stando su un filo consequenziale, senza disturbi, senza interferenze, senza far ridere? Beh, mi verrebbe da dire così: tolto il caso delle lingue artificiali, dove l’algebra è l’esempio migliore, in cui si è realizzata nel corso dei secoli una lingua preconfezionata e sotto vuoto (e molto utile), per l’uomo vivo e vitale che parla (e scrive) secondo natura, non c’è rimedio, a mio avviso, è un essere multiplo (malfatto, direbbero gli angeli, e altrettanto dicono i matematici, ma altrettanto dice uno che parli un bel burocratico ministeriale).
Dopo la caduta di cui parla la Bibbia siamo rimasti così; non so se per via di Babele o già subito dopo il peccato originale; ma credo che Babele abbia solo complicato un danno già fatto; Adamo ed Eva è probabile parlassero tra loro come un libretto di istruzioni per lavatrici, precisi, lineari, ogni significante col suo significato. «L’albero di mele è sottratto alla nostra giurisdizione». «Sì, Adamo, non è consentito avvicinarsi». «E in caso di ingestione inavvertita, rivolgersi a una ditta specializzata». E il Signore era contento di loro; anche gli angeli approvavano: «Sono ben costruiti questi due». Poi s’è insinuato il secondo pensiero, che è stato un fatto diabolico, poi Babele e via eccetera, sempre peggio.
Ma in questa generale situazione di complicazione mentale in cui siamo rimasti, credo ci siano due casi: un caso in cui i diversi pensieri (e fantasticazioni) collaborano; e un caso in cui i pensieri si contrappongono. Nel primo caso (di collaborazione) si ha l’impressione di una parola unitaria e compatta, e seria, che esce; anche se non è mai così, anche se c’è un secondo (un terzo, un quarto) pensiero che avanza di pari passo, solo che i pensieri (e le parole) si aiutano, e ad esempio l’umore non contraddice il discorso, l’immagine visiva non contraddice la descrizione di un luogo. Prendiamo il fratello del nonno di Daniele Benati, supponiamo che sia ancora in salute, e quindi sia ateo integrale, senza molta fiducia nella preghiera. Forse però no, è meglio non prenderlo, perché non verrebbe un buon esempio di discorso serio. Sento che già qui ha cominciato a deragliarmi di mano.
Prendiamo Dante Alighieri invece. Lui dice: «Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura». Ecco questo è un caso di collaborazione interna; ci sono fili di pensieri, quattro dicono gli esegeti, ma è evidente che ce ne sono molti di più, anche non ufficiali, ad esempio c’è l’immaginazione visiva di un paesaggio che diventa sempre più buio, e qui infatti Dante Alighieri doveva essere in depressione quando ha cominciato a scrivere la Divina Commedia, a un punto della sua vita in cui si svegliava al mattino che era già in depressione, e vedeva nero presente e futuro, quindi anche un paesaggio, se lo doveva immaginare, era nero, non ci si riusciva a venir fuori, umore e paesaggio vanno d’accordo, e chissà che non ci sia anche un po’ di sesso in quella selva oscura, solo che doveva essere un sesso che lo gettava in depressione, o contribuiva, anche se della intima vita sessuale di Dante Alighieri non si sa molto, però tutto come si vede collabora, e ne esce qualcosa che avanza coi cingoli, che non fa ridere, ma fa molta impressione, e dà l’idea di un parlare compatto, anche se non è così, perché invece è una cosa che bolle, con tanti ingredienti. Dante Alighieri in quel momento aveva la testa in dieci posti. Però convergenti.
Nel caso invece in cui pensieri e fantasticazioni si contrappongono, nel senso che si urtano, che sono in contrasto, si va verso il comico, che non necessariamente fa ridere rumorosamente. Il passaggio al comico non è netto, non è un salto; la divergenza interna può cominciare con poco, essere quasi impercettibile, tanto che non si può dire quando il comico inizia. Tutto un lungo discorso può essere spalmato di una impalpabile comicità, con delle punte, certo, che fanno drizzare le orecchie, ma è nella durata che si è contenti, e si sospetta che dentro al discorso ci siano due rotaie che leggermente divergono. Poi quando divergono molto il comico diventa esplosivo. Però in generale la distanza interna tra due pensieri è questione di sensibilità, che varia col tempo e da persona a persona, quindi è incostante l’effetto e il riconoscimento della comicità.
Ma cos’ha il comico di molto istruttivo? Ha che mostra in tutta evidenza che c’è qualcosa di dissociato interno alla parola e al pensiero, cosa che non è però solo del comico, ma di tutto il parlare umano (che sia parola non artificiale, cioè non di una macchina o di Adamo ed Eva), solo che in genere la dissociazione non si vede, o non ci si bada. Col comico si vede che Dio ci ha cacciati e confusi, oppure che Dio non c’è mai stato e noi cerchiamo di rimediare alla nostra mista natura, oppure si vede che possiamo sfruttare quella che è la nostra fortuna (di non essere macchine, di non essere angeli e neanche animali). Serio e comico (quando siano poetici, che è come dire parole in vita e aperte all’illimitato) sono dentro lo stesso fenomeno della parola multipla, solo che il segno da più diventa meno, da somma a differenza; ma non c’è il punto zero in cui il segno si inverte, perché è ampissima la zona d’ambivalenza, nella quale c’è un sospetto di comico, o viceversa un significato di gran serietà.
Anzi estremizzando io direi così: che la parola è sempre comica, dal punto di vista di Dio Onnipotente, e quando un uomo parla, lassù tutti i cori degli angeli ridono, deve essere l’unico caso in cui ridono, ma deve essere anche la ragione per cui l’uomo è stato creato, come intervallo buffo tra due infinità senza sorprese. Ciò che appare serio è il grado minimo (o convergente) della dissociazione, con l’incanto di un interno a sorpresa, pur senza la reazione esplosiva; ma siamo sempre lì. Il comico che è in direzione della divergenza mostra meglio la verità, ed è come un avviso: non si creda l’uomo di essere un puro spirito, non si creda l’uomo ad es. di poter scrivere bene, come scriverebbero i cherubini, come scriverebbe Adamo ad Eva, che era così perfetto, letterario e noioso, nei biglietti ad esempio che lasciava, che Eva ha voluto smuovere ad un certo punto la situazione, e ricominciare nell’errore e nell’imperfezione, con la quale però si gode.
Invece l’angelo non ha difetti, non invecchia né ringiovanisce, non dorme, non russa o sornacchia, né gli cade la testa ad esempio durante una riunione strategica, non usa metafore, anacoluti, circonlocuzioni, né ha incertezze, né ad esempio si instupidisce col vino, la birra, la tequila, la vodka, la slivoviza, la grappa; l’angelo è astemio, se no ci sarebbe ulteriormente da ridere, vedere un loro raduno, dove tutti sono ubriachi; di vodka se sono angeli o arcangeli russi; di grappa se sono veneti o friulani, e il puro intelletto ondeggerebbe come l’acqua dentro una barca in mare. E lo stesso Dio Onnipotente fosse un famoso alcolizzato, ce ne sarebbe dopo da raccontare! e da ridere! per tutti gli errori, anche di Dio, che, si direbbe ad esempio, stava aggrappato a un lampione, mentre gli arcangeli cantavano in coro non litanie edificanti, ma cori come in caserma, con in mezzo fregnacce e coglionate, e quel blaterare di sesso onnipresente negli ubriachi.
Invece negli angeli non c’è difetto; come nelle macchine calcolatrici.
E anche le volte che parlano agli uomini, pur dovendo scendere al piano sintagmatico e paradigmatico dell’espressione, si limitano alla frase essenziale. «In hoc signo vinces», ad esempio, apparve scritto in cielo all’imperatore Costantino (312 d.C., prima della battaglia di Ponte Milvio). Era un consiglio molto elementare, di cambiare le insegne; ma non è così in genere che si dà un consiglio. Casomai quella frase sembra cavata dal repertorio delle frasi fatte; niente da eccepire sul piano sintattico grammaticale, è perfetta, anche la consecutio. Ma è una frase distante mille chilometri dal benvolere affettuoso che in genere c’è in un consiglio. «In hoc signo vinces», a chi è venuta in mente? Sembra una frase preregistrata, come quelle che si sentono dagli altoparlanti in stazione: Il diretto delle 14 e 20 arriverà e partirà sul terzo binario... «in hoc signo vinces». Non c’è vera comunicazione; se si parla agli umani bisogna mettersi sul loro piano, che è il piano dell’errore e dell’approssimazione. «Il capo dice - poteva apparir scritto in cielo a Costantino - il capo dice che se adottate questo segno qui, avete il 99 per cento di probabilità di vincere». «Grazie, ne tengo conto - avrebbe risposto Costantino - tenetemi aggiornato con le statistiche, e i miei rispetti al vostro capo, ci risentiamo». «Va bene - scritto come risposta su in cielo - auguri, state su col morale, e date da bere qualcosa a Costantino, che è un po’ pallido, e preoccupato. Il vino porta consiglio, in vino veritas». Quando si hanno i mezzi non ci vuole niente a fare scritte lunghe in cielo, anche andando a capo, scrivere una mezza paginetta, dando anche disposizioni più dettagliate per la battaglia: voi dovreste avanzare con l’ala sinistra, e intanto gettare nella mischia i peltasti, i frombolieri balearici ecc. ecc. «In hoc signo vinces» non tranquillizza nessuno. E se ci sono errori o refusi questo tiene allegri i soldati: «ragazzi - potevano scrivere in cielo - ragazzi, se a qualcuno va male, se qualcuno ci rimette le penne, ci vediamo poi qui su da noi, ma portate da bere, che qui abbiamo tutti la bocca asciutta».
Ma gli angeli, arcangeli, principati, cherubini, serafini ecc. è notorio che non hanno humor; anzi per loro è un po’ inspiegabile che quaggiù ogni tanto o spesso si rida. Gli uomini son fatti male, si dice, il riso è una compensazione dei loro errori, se nascessero con la scienza matematica logica e geometrica infusa, non avrebbero queste convulsioni. Tra gli angeli e gli uomini c’è una totale incomprensione: a noi gli angeli sembrano dei meccanismi automatici, con una lingua da segnaletica stradale o da istruzioni per l’uso o da prontuario turistico; agli angeli noi probabilmente sembriamo degli orologi svizzeri falsi e di similoro, che sembrano svizzeri ma poi non funzionano o funzionano male, cioè sbagliano ora, sbagliano data, saranno a immagine e somiglianza di quelli svizzeri a vederli in distanza, però dentro il loro meccanismo è tutto un errore permanente e continuo. E probabilmente sembriamo anche degli orologi matti, che prendono gusto a sbagliare, per avere uno spasmo di riso alla glottide, o anche solo un contorcimento alla mente.
Il fatto è che tra gli angeli vige il pensiero unico, sia nel senso che l’hanno tutti uguale (come le pecore, mi dispiace dirlo), sia che lassù c’è un modo solo di pensare giusto (come sotto Mussolini, in un certo senso, solo che Mussolini si è sempre sbagliato, e sotto di lui ognuno sbagliava a suo modo, dando un’immensa materia di riso, si pensi solo al vestiario, all’orbace, al fez, ai gerarchi di cento chili a passo di corsa, al sabato Balilla, a noi tireremo diritto, che se non fosse per le conseguenze funeste che ha avuto, si potrebbe dire che il fascismo, di errore in errore, di finzione in finzione, di coglionata in coglionata, ha creato un gran carnevale, una gran mascherata, un’Italia tutta di latta, di cartapesta e illusioni, dove ognuno tirava a fare i propri individuali interessi e il proprio teatrino). Gli angeli invece sono fatti con lo stampino, pensiero unico, come dice Averroè; si fa fatica a distinguerli da Dio Onnipotente, non si sono mai districati, come quei figli che restano in famiglia e non si sviluppano. E questo perché non hanno corpo. Tutti gli errori in genere vengono dal corpo, e dal fatto che siamo esseri distinti. In che senso? nel senso che il corpo interferisce con il pensiero, e che i pensieri degli altri interferiscono coi nostri. Gli esseri umani sono sì a immagine e somiglianza, ma la somiglianza è molto, molto, molto approssimativa.
«Fiat lux», sembra abbia detto Dio Onnipotente all’inizio, che è un bell’esempio di essenzialità, e io dico di incorporeità, perché se fosse stato grasso, ad esempio un dio grasso (come ce ne sono in Africa e Asia) e quindi indolente, e quindi ossessionato dagli angeli (più magri e più arzilli) che trovavano troppo buio e catacombale l’universo e senza possibilità di scorgersi reciprocamente, e fossero stati miliardi di miliardi di anni che gli angeli si lamentavano, non c’è niente, non c’è nessuno, non si sa che ora è, non ci si vede, non passa il tempo... miliardi di miliardi di anni, dandogli noia al suo quieto vivere da dio grasso coi trigliceridi alti, cosa avrebbe detto a un certo punto? «E facciamola 'sta luce!» avrebbe detto, che non è uguale a «fiat lux», cioè avrebbe parlato come uno pesante che non ne può più dei fastidi, cioè il corpo avrebbe interferito con il pensiero e il «fiat lux» si sarebbe, diciamo così, deformato, cioè non sarebbe stato un pensiero unico e puro, uno scheletro grammaticale fulmineo (che nell’originale doveva essere un impulso di telepatia), ma sarebbe uscita la frase lenta che ho detto («e facciamola ‘sta benedetta luce»).
Ma se gli angeli invece che ossessivi fossero stati dei buoni figlioli, un po’ mogi per tutto questo buio senza fine e senza sorprese, e il loro papà gli avesse voluto bene ai suoi angeli, li avesse voluti un po’ rallegrare, e fare come quei papà che regalano ai figli un trenino in scala ridotta con tutta la linea ferroviaria da montare, per giocarci con loro, papà e figli insieme, cosa avrebbe detto? «Ragazzi - avrebbe detto ai cherubini, serafini ecc. - ragazzi, adesso sapete cosa? adesso vi faccio la radiazione elettromagnetica». E la radiazione elettromagnetica fu. Che c’è dentro a questa frase, come si vede, parecchie altre frasi. «State allegri» c’è dentro, e anche una certa compiacenza tecnica da condividere, che presuppone che gli angeli siano maschi, abbiano cognizioni di fisica, e anche Dio sia un papà e non ad esempio una mamma, perché l’elettromagnetismo è una cosa da maschi, le femmine non cambiano neanche le lampadine, o non sono interessate a cambiarle, il sesso intermedio non so.
Allora riassumo: l’uomo non è un angelo, e ha molta confusione in testa; si è inventato il linguaggio algebrico per avvicinarsi alla lingua degli angeli, ma normalmente quando parla (e anche quando sta zitto) è traversato da molte fantasticazioni, anche in contemporanea, che gli vengono dal fatto che ha un corpo con tutte le sue impellenze, il fatto che ha fame, ha sete, è impaziente di andare a mangiare, ha magari un ascesso a un dente che lo fa sacramentare, o il raffreddore che lo ottunde e non capisce più niente; e poi ha tutti gli umori, che gli variano anche ogni cinque minuti, è nervoso, poi è pacifico, ha sonno, è rincoglionito, amareggiato, disperato, poi ci sono gli altri, i discorsi degli altri, le loro coglionerie, che magari diventano un’ossessione, diventano odi e rancori da cui non si può districare, e quindi un uomo è mediamente un accavallarsi di idee, frasi sentite, rimuginamenti, antipatie, pezzi di psicologia, di odio per la psicologia, pezzi di libri, pezzi di malinconia per una fidanzata che non c’è più, ahimè, quando l’avevo non sapevo mi piacesse tanto, e sono io che l’ho lasciata andare, perché sono un cretino, adesso cosa me ne faccio della mia vita? e poi pezzi di filastrocche, sono un cretino, sono un cretino, sono un cretino, non c’è rimedio, chissà lei adesso dov’è, sarà più contenta, anch’io se fossi una donna, me mi sarei piantato da un pezzo ecc. ecc. L’uomo è un gran guazzabuglio, e la Bibbia avrebbe dovuto dire che è stato fatto a immagine e somiglianza di un ripostiglio, dove ci finisce di tutto; e quando parla, nel suo discorso tutto questo s’insinua, tutto questo ciarpame, nel senso che ogni frase è un accumulo e ci si può trovare sempre traccia di tante cose. Poi l’uomo impara a tenere chiuso quanto più possibile lo sgabuzzino e a tirar fuori un discorso per volta, ci sono lingue artificiali inventate per questo, la lingua burocratica, medica ecc., che sono come dei riduttori di potenza, dei limitatori, quando uno sia nell’esercizio di queste funzioni, cioè sia ad esempio un ufficio statale che emette un comunicato del tipo «...si dà seguito con la presente all’istanza di cui in allegato...», allora vuole dare l’idea che la sua voce è esente da tutto il resto che è umano, e scende giù direttamente dal ministero, che vorrebbe apparire un ente incorporeo, molto prossimo agli angeli. Ma in stato normale, quando un uomo sia di fronte a un altro e parli, come minimo a quel che vuol dire si aggiungono i moti di simpatia, antipatia ecc. nei confronti dell’altro, ossia gli esce una frase che come minimo è doppia (tripla ecc.). Queste interferenze o convivenze a rigore sono errori, e se un ufficio statale si facesse prendere dall’ira e improvvisamente nel corso di un comunicato bestemmiasse o inveisse, o desse del figlio di puttana ad esempio al trasgressore eventuale, sarebbe un errore, dicesse «...il gran figlio di puttana che venga meno alla norma 371 b della normativa suindicata... ecc.», l’errore verrebbe corretto, il funzionario sarebbe retrocesso. Ma in verità il funzionario, con le sue inopportune volgarità o coprolalie inserite, avrebbe solo dato luogo alla sua piena umanità, che in questo caso sarebbe di covar l’odio insieme alle normative, o di covare altre idee parallele, due fili di pensieri insieme, che è il caso minimo, perché anche un funzionario che non sia angelico, o che non sia stato allevato nelle scuole delle SS, anche un funzionario ha la mente come uno sgabuzzino di roba vecchia e rifiuti, e quando socchiude la porta gliene cade un po’ fuori in forma mista. Certo se il funzionario statale insiste e il suo sgabuzzino gli invade il mestiere con locuzioni inappropriate e rabbiose ogni volta ad esempio che si citi la norma 371 b e postille, i superiori possono giungere alla richiesta di un ricovero coatto in una struttura psichiatrica; perché si è convenuto tra gli umani che la sovrabbondanza di pensieri ingarbugliati è un male. A meno che quel tale non lo si confini nella letteratura, che è un luogo più accondiscendente.
Prendiamo ad esempio uno che sia ateo e lo sia sempre stato senza problemi; ma a un certo punto, per qualche ragione, perché ad esempio è invecchiato, e si è ad esempio ammalato e ad esempio gli sembra di non avere di fronte una prospettiva molto felice col suo ateismo, che gli promette di finire nel niente, un mucchietto di ossa e poi polvere, e allora a un certo punto a questo ateo gli farebbe comodo che Dio ci fosse, con tutto quello che ne consegue nell’aldilà, inferno, purgatorio e paradiso, ma soprattutto è al paradiso che è interessato, che ne ha sempre sentito parlare bene, tesser gli elogi, come di un’ottima sistemazione. E allora si mette a pregare, non si sa mai!; però è anche ateo, e questo ateismo non lo può far tacere, quindi, come dire? ci sono due pensieri che si accavallano con forza uguale; e gli esce questa preghiera, cito da Daniele Benati che cita la preghiera fatta un giorno dal fratello di suo nonno.
«Signore (Sgnor, diceva in dialetto) signore, se ci siete, fate che la mia anima, se ce l’ho, vada in paradiso, se c’è».
È una cosa che fa un po’ ridere, ma anche che non ha senso, perché credere e non credere si elidono, stando alla logica; e se uno non crede non ha senso che preghi; e se però prega, diciamo anche solo per scaramanzia, per quello zero virgola zero zero uno di probabilità, non ha senso che esponga anche il suo scetticismo, perché se ci fosse per caso Dio, di sicuro ne terrebbe conto. «Signore, se ci siete...», «Come se ci sono? - Dio è permaloso - aspetta che ti sistemo io», e la preghiera allora è quasi controproducente; «...fate che vada in paradiso, se c’è». «No, aspetta, che per te c’è un altro posto, più adatto, fa un po’ caldo...», e in paradiso il fratello del nonno di Daniele Benati è difficile sia riuscito ad andarci. Non si stuzzica Dio con i dubbi: «...l’anima, se ce l’ho...», «Ce l’hai, ce l’hai, vieni su, che c’è un posticino, sesto girone, che ci son già degli altri, anche loro hanno pregato, perché non si sa mai, pensavano; vedrai che avrete tempo di fare amicizia».
Ma d’altronde con Dio bisogna esser sinceri, perché tanto legge nei cuori, o come minimo è telepatico. Quindi in ogni caso questa preghiera è un errore, ma non un singolo errore isolato, come un inciampo, come uno che dica solo: «Dio anche se non ci sei, mandami in paradiso»; «Tu non ragioni - direbbe Dio - hai fatto un errore da principiante di logica»; mentr’invece la preghiera del fratello del nonno è un errore protratto, insistito, che percorre tutto il discorso dall’inizio alla fine, come un cavillo che spinge da sotto e ogni tanto esce fuori, il che è anche peggio dal punto di vista di Dio Onnipotente, perché una volta uno può anche sbagliare, ma l’errore continuo è vizio e questa preghiera è tutta viziata, indispettirebbe anche un santo, anche uno più bendisposto di Dio Onnipotente, che dall’umanità ha sempre avuto delusioni, e che legge la mente e vede come è fatta anche quella del fratello del nonno, a due strati; che se fosse ateo puro, magari con un pentimento in fin di vita si salva, ma così come si fa? con questa idea di riserva che sta sotto, e che però, diciamolo, è esemplare della mente umana al lavoro, la quale viaggia su due binari, che a volte divergono talmente da produrre quello stato di errore costante che chiamiamo comicità.
Se la espongo io da esegeta, se cioè sciolgo i due fili e li distinguo, ateismo da una parte, la mezza speranza dall’altra, la cosa non fa più ridere; ma la preghiera nel momento in cui viene detta, nel suo intrico, nella sua ostinazione, in questo ritorno della miscredenza che si vorrebbe far tacere ma che di continuo rispunta come una seconda voce più bassa, la preghiera pronunciata fa ridere tutta; non come una battuta di spirito, che è un lampo, ma in quanto condizione naturale del parlare umano, quando diversi pensieri o fantasticherie divergono molto pur dovendo convivere assieme. E se Dio Onnipotente avesse il senso della comicità, lui che ci ha creato così, avrebbe riso, e avrebbe mandato in paradiso il fratello del nonno di Daniele Benati, o solo qualche mese in purgatorio a chiarirsi le idee.
Dunque, riassumendo, il fratello del nonno di Daniele Benati è un po’ il prototipo dell’umanità, che è comica costituzionalmente, e la sua comicità viene dal fatto che il pensiero è sempre accavallato, impossibile far tabula rasa dentro di sé, come dice Cartesio: uno i pensieri e le fantasticazioni se li tira dietro come il pastore le pecore, un uomo non è come un angelo, ma è qualcosa di multiplo, e la parola di cui è dotato peggiora ulteriormente la situazione, nel senso che ci convergono strati diversi, è uno sgabuzzino più o meno ordinato; gli angeli dicono che siamo delle pattumiere, loro non van tanto per il sottile, sanno dire solo la verità; e se da una pattumiera uno cerca di tirar su qualcosa (per dirlo), ci vien dietro qualcos’altro attaccato, o ci vien dietro anche solo dell’immondizia e dello sporco, torsoli di mela, lische di pesce, roba avariata, ma anche ad esempio cose che a lucidarle sembrano nuove splendenti.
Ma è possibile per un uomo allora essere serio? ossia parlare pulitamente, stando su un filo consequenziale, senza disturbi, senza interferenze, senza far ridere? Beh, mi verrebbe da dire così: tolto il caso delle lingue artificiali, dove l’algebra è l’esempio migliore, in cui si è realizzata nel corso dei secoli una lingua preconfezionata e sotto vuoto (e molto utile), per l’uomo vivo e vitale che parla (e scrive) secondo natura, non c’è rimedio, a mio avviso, è un essere multiplo (malfatto, direbbero gli angeli, e altrettanto dicono i matematici, ma altrettanto dice uno che parli un bel burocratico ministeriale).
Dopo la caduta di cui parla la Bibbia siamo rimasti così; non so se per via di Babele o già subito dopo il peccato originale; ma credo che Babele abbia solo complicato un danno già fatto; Adamo ed Eva è probabile parlassero tra loro come un libretto di istruzioni per lavatrici, precisi, lineari, ogni significante col suo significato. «L’albero di mele è sottratto alla nostra giurisdizione». «Sì, Adamo, non è consentito avvicinarsi». «E in caso di ingestione inavvertita, rivolgersi a una ditta specializzata». E il Signore era contento di loro; anche gli angeli approvavano: «Sono ben costruiti questi due». Poi s’è insinuato il secondo pensiero, che è stato un fatto diabolico, poi Babele e via eccetera, sempre peggio.
Ma in questa generale situazione di complicazione mentale in cui siamo rimasti, credo ci siano due casi: un caso in cui i diversi pensieri (e fantasticazioni) collaborano; e un caso in cui i pensieri si contrappongono. Nel primo caso (di collaborazione) si ha l’impressione di una parola unitaria e compatta, e seria, che esce; anche se non è mai così, anche se c’è un secondo (un terzo, un quarto) pensiero che avanza di pari passo, solo che i pensieri (e le parole) si aiutano, e ad esempio l’umore non contraddice il discorso, l’immagine visiva non contraddice la descrizione di un luogo. Prendiamo il fratello del nonno di Daniele Benati, supponiamo che sia ancora in salute, e quindi sia ateo integrale, senza molta fiducia nella preghiera. Forse però no, è meglio non prenderlo, perché non verrebbe un buon esempio di discorso serio. Sento che già qui ha cominciato a deragliarmi di mano.
Prendiamo Dante Alighieri invece. Lui dice: «Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura». Ecco questo è un caso di collaborazione interna; ci sono fili di pensieri, quattro dicono gli esegeti, ma è evidente che ce ne sono molti di più, anche non ufficiali, ad esempio c’è l’immaginazione visiva di un paesaggio che diventa sempre più buio, e qui infatti Dante Alighieri doveva essere in depressione quando ha cominciato a scrivere la Divina Commedia, a un punto della sua vita in cui si svegliava al mattino che era già in depressione, e vedeva nero presente e futuro, quindi anche un paesaggio, se lo doveva immaginare, era nero, non ci si riusciva a venir fuori, umore e paesaggio vanno d’accordo, e chissà che non ci sia anche un po’ di sesso in quella selva oscura, solo che doveva essere un sesso che lo gettava in depressione, o contribuiva, anche se della intima vita sessuale di Dante Alighieri non si sa molto, però tutto come si vede collabora, e ne esce qualcosa che avanza coi cingoli, che non fa ridere, ma fa molta impressione, e dà l’idea di un parlare compatto, anche se non è così, perché invece è una cosa che bolle, con tanti ingredienti. Dante Alighieri in quel momento aveva la testa in dieci posti. Però convergenti.
Nel caso invece in cui pensieri e fantasticazioni si contrappongono, nel senso che si urtano, che sono in contrasto, si va verso il comico, che non necessariamente fa ridere rumorosamente. Il passaggio al comico non è netto, non è un salto; la divergenza interna può cominciare con poco, essere quasi impercettibile, tanto che non si può dire quando il comico inizia. Tutto un lungo discorso può essere spalmato di una impalpabile comicità, con delle punte, certo, che fanno drizzare le orecchie, ma è nella durata che si è contenti, e si sospetta che dentro al discorso ci siano due rotaie che leggermente divergono. Poi quando divergono molto il comico diventa esplosivo. Però in generale la distanza interna tra due pensieri è questione di sensibilità, che varia col tempo e da persona a persona, quindi è incostante l’effetto e il riconoscimento della comicità.
Ma cos’ha il comico di molto istruttivo? Ha che mostra in tutta evidenza che c’è qualcosa di dissociato interno alla parola e al pensiero, cosa che non è però solo del comico, ma di tutto il parlare umano (che sia parola non artificiale, cioè non di una macchina o di Adamo ed Eva), solo che in genere la dissociazione non si vede, o non ci si bada. Col comico si vede che Dio ci ha cacciati e confusi, oppure che Dio non c’è mai stato e noi cerchiamo di rimediare alla nostra mista natura, oppure si vede che possiamo sfruttare quella che è la nostra fortuna (di non essere macchine, di non essere angeli e neanche animali). Serio e comico (quando siano poetici, che è come dire parole in vita e aperte all’illimitato) sono dentro lo stesso fenomeno della parola multipla, solo che il segno da più diventa meno, da somma a differenza; ma non c’è il punto zero in cui il segno si inverte, perché è ampissima la zona d’ambivalenza, nella quale c’è un sospetto di comico, o viceversa un significato di gran serietà.
Anzi estremizzando io direi così: che la parola è sempre comica, dal punto di vista di Dio Onnipotente, e quando un uomo parla, lassù tutti i cori degli angeli ridono, deve essere l’unico caso in cui ridono, ma deve essere anche la ragione per cui l’uomo è stato creato, come intervallo buffo tra due infinità senza sorprese. Ciò che appare serio è il grado minimo (o convergente) della dissociazione, con l’incanto di un interno a sorpresa, pur senza la reazione esplosiva; ma siamo sempre lì. Il comico che è in direzione della divergenza mostra meglio la verità, ed è come un avviso: non si creda l’uomo di essere un puro spirito, non si creda l’uomo ad es. di poter scrivere bene, come scriverebbero i cherubini, come scriverebbe Adamo ad Eva, che era così perfetto, letterario e noioso, nei biglietti ad esempio che lasciava, che Eva ha voluto smuovere ad un certo punto la situazione, e ricominciare nell’errore e nell’imperfezione, con la quale però si gode.