Riga n.
Alberto Arbasino
Maria J. Calvo Montoro
Celati e il duende sull’orlo del pozzo

Alcuni anni fa, a Toledo, di fronte alla veduta della città da oltre il Tago che El Greco aveva ritratto, si parlava con Celati della parola spagnola «duende». In quella conversazione mi erano venuti in mente certi testi di scrittori spagnoli che sarebbero serviti a definire il signiticato del termine. Di ritorno a Madrid, ho spedito un plico con dei libri e delle fotocopie all’indirizzo di Celati a Brighton, in Inghilterra. L’ottobre scorso, a Milano, ho saputo invece che mai era arrivato nelle sue mani.

Queste mie parole vorrebbero contenere i frammenti della scrittura che erano racchiusi in quel pacco ma che sono volati altrove.

Eravamo partiti da Federico García Lorca quel pomeriggio a Toledo. Celati ricordava la parola che aveva trovato in un testo in prosa. Si tratta della conferenza «Juego y teoría del duende»[1] che il poeta granadino aveva letto per la prima volta a Buenos Aires nel 1933 ripetendola l’anno dopo a Montevideo. Ha il triste privilegio di essere l’ultima conferenza di Lorca, che già quegli anni era assorbito con grande partecipazione dal lavoro della Barraca, la compagnia di teatro ambulante fondata con studenti universitari e sotto gli auspici del governo repubblicano che si proponeva di portare il teatro del Secolo d’Oro nelle più remote zone della Spagna, per rappresentare in piazza, come una sorta di Commedia dell’Arte, le opere di Lope de Vega, Calderón de la Barca, Cervantes, Tirso de Molina.

Lorca voleva con quelle parole spiegare agli argentini «una semplice lezione sullo spirito nascosto della addolorata Spagna»(174). In spagnolo esiste l’espressione «tener duende» che proviene dal mondo andaluso del flamenco e si riferisce a un’intensità di espressione, alla vera creazione in atto che viene fuori con «istinto efficace» - dice Lorca - nella rappresentazione del ballerino, del suonatore o del «cantaor» quando è davvero ispirato: «Los grandes artistas del sur de España gitanos o flamencos, ya canten, bailen o toquen, saben que no es posible ninguna emoción sin la llegada del duende» (179).

«Para buscar el duende no hay mapa ni ejercicio. Sólo se sabe que quema la sangre como un trópico de vidrios, que agota, que rechaza toda la dulce geometría aprendida, que rompe los estilos, que se apoya en el dolor humano que no tiene consuelo, que hace que Goya, maestro de los grises, en los platas y en los rosas de la mejor pintura inglesa, pinte con las rodillas y los puños con horribles negros de betún (179)».

E continua:

«Todas las artes son capaces de duende, pero donde encuentra más campo, como es natural es en la música, en la danza, y en la poesía hablada, ya que éstas necesitan de un cuerpo vivo que interprete, porque son formas que nacen y mueren de modo perpetuo y alzan sus contornos sobre un presente exacto. […] Tal es el caso de Eleonora Duse, que buscaba obras fracasadas para hacerlas triunfar gracias a lo que ella inventaba (183)».

Ma il «duende» non arriva se non vede possibilità di un amore, legato al modo della sua rappresentazione, qualcosa che in poesia è vincolato al destino tragico degli uomini, alla morte:

«Con idea, con sonido o con gesto, el duende gusta de los bordes del pozo en franca lucha con el creador. Ángel y musa se escapan, con violín o compás, y el duende hiere, y en la curación de esta herida que no se cierra nunca está lo insólito, lo inventado de la obra de un hombre.
La virtud mágica del poema consiste en estar siempre enduendado para bautizar con agua obscura a todos los que lo miran, por que con duende es más fácil amar, comprender, y es seguro ser amado, ser comprendido, y esta lucha por la expresión y por la comunicación de la expresión adquiere a veces en la poesía caracteres mortales (189-190)».

Cerchiamo ora di chiarire il significato della parola «duende» cercandone le radici. Di etimologia incerta secondo Corominas- Pascual, già Covarrubias nel «Tesoro de la lengua castellana o española» (1611) accenna a una possibile derivazione dalla forma apocopata di «Dueño», «Dueño de una casa» che contratta sarebbe «duen de casa» e da lì, «duende»[2].

«Duende» ha mantenuto in spagnolo i due significati: da una parte quello che spiegava Lorca, che allude al fascino che a volte risulta misterioso applicato all’arte e anche alle persone, (di una persona incantevole, si potrebbe infatti dire che è «una persona con duende»); e dall’altra quello di «spiritello del quale si dice che abita in case e luoghi dove combina spesso pasticci, disturbo e confusione».

In questo senso, si era parlato anche con Celati, quel pomeriggio a Toledo, del poeta di Siviglia Gustavo Adolfo Bécquer, autore romantico che aveva scritto delle leggende, molte di tema toledano. Una di queste leggende s’intitola «El gnomo»[3] e racconta la storia di due sorelle povere innamorate dello stesso giovane, una orgogliosa e ambiziosa, l’altra umile e semplice, che andando ad attingere acqua al ruscello in una zona incantata del bosco, sentono le voci dell’acqua e del vento:

«EL AGUA - Después de filtrarme gota a gota a través del filón de oro de una mina inagotable; después de correr por un lecho de plata y saltar como sobre guijarros entre un sin número de zafiros y amatistas, arrastrando en vez de arenas diamantes y rubíes, me he unido en misterioso consorcio a un genio. Rica con su poder y con las ocultas virtudes de las piedras preciosas y los metales, de cuyos átomos vengo saturada, puedo ofrecerte cuanto ambicionas. Yo tengo la fuerza de un conjuro, el poder de un talismán y la virtud de las siete piedras y los siete colores.
EL VIENTO - Yo vengo de vagar por la llanura, y, como la abeja que vuelve a la colmena con su botín de perfumadas mieles, traigo suspiros de mujer, plegarias de niños, palabras de casto amor y aromas de nardos y azucenas silvestres. Yo no he recogido a mi paso más que perfumes y ecos de armonías; mis tesoros son inmateriales, pero ellos dan la paz del alma y la vaga felicidad de sueños venturosos (238-239).»

Come si può immaginare, l’alleanza con gli spiriti che custodiscono la ricchezza consente all’acqua di sedurre la giovane ambiziosa, che si perderà per sempre, catturata dagli anfratti del bosco. La sorella che ha invece dato retta al vento con i suoi tesori immateriali, si è salvata.

Inutile era stato il racconto del più vecchio del paese, benché efficacissimo nel suo raccontare per avvertirle del pericolo: «Nadie contaba un chascarrillo con más gracia que él, ni sabía historias más estupendas, ni traía a cuento tan oportunamente un refrán, una sentencia o un adagio» (217-218).

Anzi, il racconto in realtà aveva turbato ancora di più le ragazze:

«La estupenda relación del tío Gregorio acerca de los gnomos del Moncayo, cuyo secreto estaba en la fuente del lugar, exaltó nuevamente las locas fantasías de las dos enamoradas hermanas (232)».
 
Che videro nello gnomo un debole raggio di speranza, come la conferma di tutte le storie, sentite da bambine, che raccontavano di un tesoro nascosto e trovato da una semplice pastorella:

«El gnomo era, como un hombrecillo transparente: una especie de enano de luz, semejante a un fuego fatuo, que se reía a carcajadas, sin ruido, y saltaba de peña en peña, y mareaba con su vertiginosa movilidad. Unas veces se sumergía en el agua y continuaba brillando en el fondo como una joya de mil colores; otras salía a la superficie y agitaba los pies y las manos, y sacudía la cabeza a un lado y a otro con una rapidez que tocaba en prodigio (241-242)».
 
Ma passiamo agli altri testi contenuti nel pacco scomparso, che erano di José Bergamín. Celati ricordava di aver letto un libro scritto da Bergamín al ritorno in Spagna dal primo esilio, all’inizio degli anni sessanta, si trattava di «Al volver»[4]. C’erano tanti testi sul comico, sulla «burla», sul «disparate»; e inoltre c’erano altri riferimenti al «duende». Uno di essi intotitolato «Burla burlando», ad esempio, poneva in questione i miti spagnoleggianti di Don Giovanni e di Don Chisciotte, visti come il simbolo di una Spagna eterna, assoluta e intemporale, che non ha niente a che vedere con la Spagna vera, quella che l’autore ritrovò distrutta al suo rientro in patria nel 1958. Il titolo in sè è uno dei giochi di parole che amava creare Bergamín: riprende il modo di dire «burla burlando», che si usa quando si fanno azioni senza sforzo, senza pensarci[5], e lo associa al termine «burlador» del titolo del dramma di Tirso de Molina El burlador de Sevilla.

Un altro testo che si trovava nel plico era su «El disparate en la literatura española», e percorreva un filone «disparatado», di follia, di assurdo, che in fondo, secondo Bergamín, veniva a ritrarre nel modo più profondo l’essenza dell’anima spagnola. Il «disparate», ne ero sicura, avrebbe interessato Celati: «disparates» di carta, come erano anche le incisioni di Goya[6], la serie detta appunto dei «disparates», chiave preziosa alla comprensione dei «disparates» letterari citati dallo stesso esiliato, come questo di Ramón Gómez de la Serna: «Nada que me haya costado pensar tanto y perderme por vericuetos más intrincados y subir a alturas más altas y asomarme a abismos más hondos, que el disparate»[7].

Mi sembrava che tutto questo avrebbe potuto interessare Celati, ma come si è visto, questi testi non sono arrivati sino a lui. Lui, intanto, viaggiava in Africa: e, forse perché non si trovava al proprio domicilio a riceverlo, il pacco spagnolo è andato perduto.

L’Africa, per Gianni Celati, sono diverse Afriche, come ha già spiegato Andrea Cortellessa[8]. Una addirittura creata anche prima di visitarla. «Fata morgana», descrive infatti il paese dei Gamuna, abitanti di un territorio abbandonato dai suoi primi popolatori che vi hanno lasciato palazzi, oggetti, e diverse vestigia di un mondo che i Gamuna usano a modo loro, parodiando gli usi propri di una società che tutti ben conosciamo. I Gamuna, probabilmente, hanno finito per abitare il mondo abbandonato da una stirpe di uomini che era troppo legata al peso del denaro e alla compra-vendita delle cose materiali. Forse il mondo su cui si interrogavano altri personaggi-«duende», che questa volta parlavano in italiano:

«Folletto
Voi gli aspettate invan: son tutti morti[9],
diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
Gnomo
Che vuoi tu inferire?
Folletto
Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta. (123)
[...]
Gnomo
Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto
Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male (125-126)».

Ecco il «Dialogo di un Folletto e uno Gnomo»[10] quinto delle «Operette Morali», dove Leopardi presenta due spiritelli che concordano sul fatto che la natura non abbia sentito affatto la mancanza degli uomini, scomparsa dovuta alla propria autodistruzione:

«Folletto
Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
Gnomo
E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
Folletto
E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo. (130)».

Ed è in Africa, questa volta visitata e descritta in altri due libri («Avventure in Africa» e «Passar la vita a Diol Kadd»), che Celati scopre il «duende» che deride l’uomo bianco quando si ostina a ricollocare tutto come era prima della sua scomparsa dalla faccia della terra, prima che il folletto e lo gnomo leopardiani ridessero pure loro della sua ridicola presunzione di voler far quadrare i conti e ridurre tutto ai codici e alle leggi da lui inventate, ai suoi progetti, alle sue velleità nel credersi capace di  dominare la storia.

L’unico cosa da fare sarà allora imparare a «passar la vita», coscienti che, come si legge nell’epigrafe di «Passar la vita a Diol Kadd»:

«Il mondo sta diventando tutto un altro mondo
gli uomini stanno diventando un’altra specie d’uomini
tra poco non riusciremo più a riconoscerci
anche le parole cominciano a disfarsi
anche i sassi sono malati e si sgretolano»[11].

Forse è una buona idea raccontare attraverso una rappresentazione quello che è successo qui per colpa di un dio, il denaro,  che ha rovinato tutto. Forse varrebbe la pena che qualcuno scrivesse un testo da tradurre e addattare in loco, come ha fatto Mandiaye che aveva lavorato per più di dieci anni a Ravenna in un teatro e aveva, ad esempio, riscritto «Ubu roi» di Jarry: adattare un testo che avvertisse di questo pericolo, una «Commedia sulla povertà e sulla ricchezza» come il  Plutos di Aristofane. In realtà sarebbe l’unico modo, questo, di mostrare una realtà prima che questa riesca a imporsi come modello di ingannevole benessere.

Si tratta di qualcosa che ormai abbastanza tempo fa Giorgio Agamben aveva scoperto leggendo Bergamín, e a sua volta interpretando il teatro barocco spagnolo come una forma di autocoscienza popolare: «Un popolo si conosce quando si verifica definendosi attraverso il teatro, quando si "teatralizza"[12]», dice Bergamín, e questo lo aveva ben capito Lorca, dedito con grande passione ai lavori della Barraca, il suo teatro ambulante. La commedia è perciò necessaria come veicolo imprescindibile della verità:

«Toda burla tiene dos caras: una poética y una moral; por eso el que se burla da la cara; una de esas dos caras de la burla; la poética o la moral. Y no hay que olvidar que debajo tiene la otra, que otra le queda siempre por dar. El arte poético y moral de la burla es un doble juego espiritual: lo mismo en su arte mayor el de la comedia, desde su génesis aristofanesca […] hasta el arte menor el arte mínimo epigramático, que es también arte poético y moral[13]».

È questa un’arte poetica in cui Bergamín porta un contributo assolutamente nuovo - sottolinea Agambn -,  svolgendo una vera e propria teoria dell’uso mistico della noia, che  assimila alla poesia: «La noia delle ostriche produce perle[14]».

Miracoli che nella cultura wolof sono paragonabili ai libri scritti dal santo Ahmadou Bamba con la lingua dei djinn, gli spiritelli del deserto. Perché «I miracoli del santo Bamba non chiedono d’essere messi in chiaro, ma d’esser raccontati come fiabe»(51).

E tutto ciò procede «dal passato animista che sopravvive accanto alle pratiche cotidiane di fede islamica. [...] Da quello stesso passato venivano gli spiritelli del deserto, di cui il santo Bamba conosceva perfettamente il linguaggio» (72).  Probabilmente se non si conosce quella lingua non si possono raccontare le fiabe, perché nessuno le ascolta, come nella «Commedia sulla povertà e la ricchezza» quando Aboulaye nelle vesti di Nawet, dio della ricchezza, vuole avvertire del pericolo, ma nessuno lo ascolta, perché il discorso non è legato all’«amore di ascolto», quello che permette invece a Moussaka di raccontare le vite dei santi e i miracoli del santo Bamba davanti ad ascoltatori che lo recepiscono in estasi, in un ratto di amore.

Tutto ciò ha «effetti prodigiosi nell’apprendimento» come annota Celati: «Ossia, l’affezione per il maestro suscita nell’allievo la capacità di aprirsi alla comprensione di qualcosa che è al di là di lui»(56-57).

Raccontare bene, come raccontava l’uomo più vecchio del paese alle sorelle innamorate nella leggenda di Bécquer, significa «estar enduendado», ma non fa certi di convincere di quello che non vuol sentire chi ascolta. L’attrazione per la ricchezza dei tesori nascosti, che provava la sorella ambiziosa e il desiderio d’argent, «Donne-nous de l’argent! Dacci dei soldi! Viva i soldi! Viva il calcio! Viva il nostro presidente! Viva tutto quello che sa di quatrini!» (75) porterà, nell’ultima scena della «Commedia sulla povertà e la richezza», il dio della ricchezza a scappare a «gambe levate nella savana», perché non ne vuole «sapere niente di più degli uomini», malgrado il racconto abbia «duende», quello che Lorca chiama «la virtud magica del poema», malgrado esso profetizzi i «caratteri della morte» dal bordo del pozzo.

[1] García Lorca, Federico, «Juego y teoría del duende», Conferencias, Comares, Granada 2001, pp. 171-196; Trad. italiana  Gioco e teoria del duende, a cura di E. di Pastena, Adelphi, Milano 2007.
[2] Corominas, J. y Pascual, J.A., Diccionario etimológico castellano e hispánico, vol. II, Gredos, Madrid 1980, p. 528- 529.
[3] Bécquer, Gustavo Adolfo, «El gnomo (Leyenda aragonesa)» en Leyendas, a cargo de Esther Ortas Durand, Castalia, Madrid 2005, pp. 217- 243.
[4] Bergamín, José, Al volver, Seix Barral, Barcelona 1962.
[5] Come si legge nel conosciuto meta-sonetto di Lope de Vega: Un soneto me manda hacer Violante, /que en mi vida me he visto en tal aprieto; /catorce versos dicen que es soneto: / burla burlando van los tres delante./ Yo pensé que no hallara consonante /y estoy a la mitad de otro cuarteto; /mas si me veo en el primer terceto /no hay cosa en los cuartetos que me espante. / Por el primer terceto voy entrando / y parece que entré con pie derecho, / pues fin con este verso le voy dando. / Ya estoy en el segundo, y aun sospecho / que voy los trece versos acabando; / contad si son catorce, y está hecho.
[6] L’ultima, più enigmatica, delle quattro principali serie di incisioni di Francisco de Goya (Fuendetodos 1746 - Bordeaux 1828) nota come «Los Proverbios (Proverbi)» o «Los Disparates (Follie)» e talvolta «Los Sueños (Sogni)», rappresenta visioni da incubo, immagini grottesche popolate da figure fantastiche, mostruose o laide sembrano caricarsi di significati politici, sociali e religiosi legati al difficile momento storico vissuto dalla Spagna e al tempo stesso alla problematica situazione esistenziale dell’autore. Si ritiene infatti che Goya abbia iniziato la serie subito dopo una grave malattia che lo colpì nel 1819. Le lastre, certamente finite prima della partenza del pittore per Bordeux nel 1824, hanno molti punti in comune con le pinturas negras (pitture nere) realizzate nello stesso periodo sulle pareti della casa di campagna nota come «Quinta del Sordo», sulle rive del Manzanares. Le altre tre serie incisorie sono:  «Los Caprichos (Capricci )»(1799), fantastici e accattivanti, «Los Desastres de la Guerra  (i Disastri della Guerra)» (1810-1820), con la spietata analisi dei devastanti effetti degli eventi bellici, «La Tauromaquia ( la Tauromachia)» (1815-1816) sul mondo del toreo.
[7] Bergamín, José, «El disparate en la literatura española», en «Beltenebros y otros ensayos sobre Literatura Española», Noguer, Barcelona 1973, pp. 229- 261.
[8] Cortellessa, Andrea, «Africa», in «Gianni Celati», a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Riga n. 28, Milano 2008, pp. 255-266.
[9] Valaresso,  Zaccaria,  Rutzvanscad il giovine arcisopratragichissima tragedia elaborata ad uso del buon gusto de' grecheggianti compositori da Cattuffio Panchianio bubulco arcade. Dove l’autore fa morire ironicamente tutti i personaggi (i Mameluc, i Muezim, le Culicutidonie). Si tratta di una  parodia della «grecheggiante» tragedia scritta nel 1720 da Domenico Lazzarini Ulisse il giovane, (In Bologna: nella stamperia di Lelio dalla Volpe, 1737). Cattuffio Panchianio è lo pseudonimo di Zaccaria Valaresso.
[10] Giacomo Leopardi, «Operette morali», a cura di Cesare Galimberti, Guida Editori, Napoli 1998, pp. 121- 130.
[11] Celati, Gianni, «Passar la vita a Diol Kadd», Fondazione Collegio San Carlo di Modena, Modena 2007.
[12] Agamben, Giorgio, «Introduzione» in José Bergamin, «Decadenza dell’analfabetismo», Rusconi, Milano 1972, p. 26-27.
[13] Bergamín, José, «De veras o de burlas» (1929), in «Prólogos epilogales», a cura di Nigel Dennis, Pre-Textos, Valencia 1985, pp. 57. 
[14] Agamben, Giorgio, ibid., p. 21.
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