Riga n.
Alberto Arbasino
Stefano Bartezzaghi
Celati fra le parole

Innanzitutto mi scuso per il tono di questo intervento, che fatalmente sarà un po' troppo personale e informale per un convegno di critici. In parte le ragioni di questo tono sono a loro volta personali. In parte non mi parrebbe cortese ricambiare l'opera così piacevolmente e sottilmente antiteorica di Gianni Celati con bordate di teoria, fatalmente vòlte all'aver capito tutto e destinate al più comodo bersaglio del non aver capito nulla.
Il problema è complicato dall'ovvio fatto che è possibile rintracciare nella letteratura di Celati qualcosa in più di un sospetto di teoria: in particolare, avendone il tempo e l'agio, è sicuro che se ne potrebbe estrarre e delineare una teoria linguistica o semiotica implicita. L'opera di Celati si sviluppa a partire da un'idea letteraria della lingua e da un'idea linguistica della letteratura. La natura di questa idea rende impossibile trasformarla in qualcosa come una poetica, una programmazione d'autore. Celati, parlando con Cortellessa, ha definito la poetica come «nozione classicista, per dire che tu avevi proprio l’intenzione di scrivere quello che stai scrivendo, come se le parole fossero al tuo servizio. Se prendi le parole dal loro lato metrico, sillabico, ritmico, ti accorgi che non le domini».
Per quanti esempi si possano trovare nell'opera narrativa e nell'opera saggistica di Celati la spiegazione che a me sembra più chiara risale ai primi anni Ottanta, e ai penultimi e ultimi corsi di Lingua e letteratura angloamericana tenuti da Celati all'Università di Bologna: sono i corsi che vanno dal lavoro sull'Alice disambientata del celebre seminario al lavoro collettivo su Bartleby, sfociato nella traduzione poi pubblicata da Feltrinelli.
All'inizio degli anni Ottanta, Gianni Celati insegnava al Dams, nello stesso istituto e nelle stesse aule dei semiologi a cui non mancava di accennare con un certo sarcasmo. Faceva lezione presto, di mattina: quando, pochi anni dopo, uscì Narratori delle pianure, si sparse la leggenda che Celati facesse lezione a Bologna dopo essere stato in giro per la Pianura Padana, in ricognizione.
Nel suo programma d'esame non era facile distinguere le parti dedicate alla lingua e quelle dedicate alla letteratura. Nella sezione teorica si studiava su testi di sociolinguistica: saggi sugli slang dei ghetti urbani americani o sui cerimoniali discorsivi legati all'uso dei pronomi nelle diverse lingue. Poi c'era una parte più applicativa, in cui si studiava un manuale di fonetica e intonazione, con le diverse curve che realizzano gli effetti interrogativi, affermativi, esclamativi del discorso: all'esame bisognava arrivare con una cassetta audio in cui si era registrato un parlato in inglese, a scelta del candidato, da commentare con il professore. Questa parte applicativa era in relazione diretta con la parte monografica e letteraria del corso, che nell'anno a cui mi riferisco era dedicata alla Linea d'ombra di Conrad. Sin dalla prima lezione, Celati aveva avvisato: «All'esame non venitemi a raccontare sciocchezze su Conrad. Dovete farmi una lettura interpretativa». «Interpretativa» qui non è nel senso della critica letteraria né in quello del teatro. Celati richiedeva un'interpretazione prosodica, se non proprio musicale: Celati avrebbe aperto il libro a caso, e l'esaminando avrebbe dovuto incominciare a leggere ad alta voce, pronunciando le parole con la massima esattezza possibile, intonando con correttezza le proposizioni, accelerando e rallentando nei punti giusti. È un metodo che, come ha raccontato in un'intervista a Roberto Barbolini, Celati ha applicato anche nei suoi corsi all'estero: «Tutte queste ignorantissime ragazze americane non avevano mai sentito parlare di Ariosto, di Boiardo, del Morgante eccetera. Volevo fare una cosa con loro, scrivere assieme a loro e invece non è stato possibile. Allora ho cominciato a leggerglielo ad alta voce e ho detto: "Adesso tornate a casa e vi registrate mille volte finché non vi viene fuori l’ottava ariostesca pronunciata decentemente"».
La letteratura diventava così non materia di discettazioni accademiche, ma parte di un flusso discorsivo, caratterizzato innanzitutto non da concetti e figure retoriche ma da suoni e ritmi. Il tutto per il tramite dell'oralità, la parte più corporea del linguaggio che viene in gran parte cancellata nella scrittura. Dico questo anche se penso che un'indagine sugli atti di scrittura, sui rapporti tra scrittura e corpo, in Celati potrebbe dare delle sorprese. Ma indubbiamente la parola scritta di Celati sta mediando tra la parola parlata e ascoltata che precede la scrittura, e la parola parlabile e ascoltabile che la segue: parlamenti e ascolti che possono essere anche solo fantasmatici, solipsistici. In entrambi i casi non c'è prima una trascrizione e poi una lettura, ma sempre un processo di trasformazione interpretativa, qualcosa che si aggiunge e qualcosa che si toglie, sullo sfondo della compartecipazione sociale connaturata a ogni fatto di lingua.
Non è un caso se Celati ha pensato di intitolare un saggio ad Harpo, quello dei fratelli Marx che non parla e si esprime solo con i gesti, con i suoni, e con strumenti musicali come armonica e arpa. «Harpo, essendo muto, era il mio preferito»  (nota a «Il corpo cosmico nello spazio»,1976; ora in Riga Celati). Né è un caso che si sia chiesto:  «Si può fare in modo da produrre per iscritto l’effetto di una smorfia di Stan Laurel?». (Comiche, citato da Italo Calvino nella sua Nota, 1971).
Sono tutte posizioni molto famose ed esplicite, per chi frequenta l'opera di Celati, a proposito delle quali è possibile raccogliere una quantità di citazioni, non solo dai saggi e dalle prefazioni, dalle interviste e dagli autocommenti, ma anche dall'opera letteraria medesima.

Dal suo Hölderlin:
«Tutte le nostre intenzioni espresse o inespresse, cioè tutti i moti dello spirito, debbono per forza affidarsi a quel programma ritmico che è già nella nostra parlata e nei nostri gesti, nelle cesure e negli intervalli tonali con cui si manifesta uno stato d'animo. Così se da una parte l'intenzione di dire qualcosa è necessaria per dare senso a un'espressione, succede anche che affidandosi senza precise intenzioni a un programma ritmico, come ad esempio quello d'un canone metrico, questo può guidare da sé le parole verso un loro ordine compiuto».

Dal suo Céline:
«[...] non è soltanto la trascrizione di un parlata popolare o gergale, quanto lo sviluppo d'una capacità d'orecchio, d'una capacità d'ascolto» «...la trasposizione sulla pagina delle forme orali di per sé non porta a niente, e anche la forza dell'argot si spegne presto. Occorre un lavoro di scrittura molto intenso per produrre l'effetto che la parola viva ha sul nostro orecchio, perché in sostanza non è altro che un effetto della scrittura»

Dal suo Verso la foce:
«Ascolto, e ogni frase ha una modulazione di canto, ogni parola è un richiamo. La gente si chiama come fanno gli uccelli, canta o racconta e non fa altro, questa è la vita d'ogni giorno. Forse ciò che diciamo ha pochissima importanza».

In quest'ultima citazione pare agire anche una memoria precisa del capitolo di Palomar sui coniugi e sui merli, una memoria che però radicalizza l'ipotesi che Calvino riservava al linguaggio segnaletico fra marito e moglie, e la allarga a tutto il campo sociale.
Una parola viva e una parola «sgonfia», una coppia che ricorda anche la dottrina lacaniana sulle parole vuote e le parole piene: l'immagine del discorso come chiacchiera pressoché ininterrotta e insensata su cui solo con un grande lavoro interiore si può innestare una possibilità viva di senso.
Nessun equivoco possibile, dunque, sulla trascrizione: il linguaggio letterario è il linguaggio alla ricerca di una sua possibile pienezza che accolga anche il banale, e che si ponga nei confronti dell'oralità con lo stesso atteggiamento di ascolto, ricezione e trasformazione con cui affronta i gesti, le smorfie di Stanlio, la musica di Harpo, i panorami. Un programma di narrazione dell'inenarrabile: il titolo Narratori delle pianure forse dovrebbe essere letto anche dando una torsione metaforica al concetto di «pianura», con una tensione verso il generale: l'essere piano, indistinto, privo di quei «rilievi» su cui si articola la narrazione ordinaria.
Una parola-parlata, dove parlata non è solo aggettivo ma è anche sostantivo, un sostantivo molto usato da Celati. Per ottenerla è necessario richiamarsi continuamente alle sue condizioni, farne oggetto dello stesso discorso che lei produce: il Celati polemista, con il suo ricorrente furore chisciottescho, costruisce la cornice attraverso cui le descrizioni diventano narrazioni, l'etnologia dei popoli immaginari (popolo italiano compreso) scongiura la possibilità di letture bozzettistiche, il comico fuoriesce dalla semiosfera ridanciana che ci circonda. Il piano di discorso è sempre, invariabilmente, linguistico. Cito dal dialogo con Cortellessa, L'assoluto della prosa: «I fatti: i fatti sono quello che nasce dalle parole. L’idea che ci siano dei fatti che vengono prima delle parole è come l’idea che ci siano dei vestiti prima della stoffa».
Celati ci dice: questo è il modo in cui io uso la mia parola; voi che uso fate della vostra? Lo sapete, almeno, che la vostra parola è una parlata, della parola e della parlata fate un uso? Lo sapete che vi ascolto? Fa del suo meglio per gratificarci come suoi lettori, ci maltratta come suoi interlocutori. Non parlo di queste cose senza qualche preoccupazione.
Un giorno mi sono chiesto, e forse era una domanda frivola, quale dei suoi personaggi avrebbe potuto scrivere le opere di Gianni Celati. Palomar, per esempio, avrebbe potuto scrivere le opere di Italo Calvino, e forse in qualche occasione lo ha anche fatto. Pensare alle Città invisibili come a un'opera di Marco Polo dà esiti molto diversi che pensarle come opera di Kublai Khan. Per Celati potrebbero esserci diversi candidati, ma io ne ho in mente soprattutto uno, che mi porta decisamente alla dimensione del gioco, che è poi quella che personalmente mi interessa di più.
Come scrittore giocatore, Celati fa onore al suo bel cognome: si maschera. È almeno apparentemente tutto dalla parte del play, della paidia, della liberazione di energia. Questo, almeno, per il Celati che dichiarava a Calvino di essere interessato alla «bagarre», alla caduta dei ruoli sociali e al punto di crisi oltre al quale non sono più possibili che gesti irriflessi, parole in delirio. Anche il suo interesse per la musica punta alla rottura della tonalità, tramite atonalità e modalità, ma poi arriva al free jazz: dall'erosione della sintassi consueta sino alla mancanza di una sintassi a priori, una mancanza sempre evocata anche se raramente praticata.
Celati parla spesso, almeno nelle sue prime opere, di qualcosa che si può avvicinare ai giochi di paidia e ai giochi di mimicry, per usare le due categorie di Roger Caillois. La mimicry è presente nelle allusioni alle arti teatrali, come tema, ma come procedimento è presente nella stessa opera di ricostruzione di linguaggio. Si pensi solo a un titolo, perfettamente rappresentativo nella sua perfezione di ossimoro, come «Cinema naturale».
Al gioco infraverbale, quello che scava dentro le parole, Celati non ricorre molto. Bisognerebbe esplorare certi suoi recuperi lessicali (come parlamenti o vivenza) o neologismi e poi, certamente, nella sua onomastica. Cortellessa ha mostrato come Ridolini risulti dall'incrocio fra Ridolfi e Cevenini. A me incuriosisce molto, da questo punto di vista, il titolo «Recita dell'attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto». Si tratta innanzitutto di una coppia di decasillabi, un titolo molto lungo in cui si ripete un inventario ristretto di fonemi, e in cui il cognome Celati continua a ripresentarsi paragrammaticamente (è perfettamente contenuto nella parola Saliceto; e anche nell'altro titolo «Cinema naturale»).
Il personaggio che candiderei a possibile autore delle opere di Celati è proprio l'attore Achille Vecchiatto. Tutte le lettere del cognome Celati vi ritornano due volte, le consonanti raddoppiate - parlo di lettere e non di fonemi, perché la C sta per due fonemi diversi. Ma quella di cui vi voglio parlare non è una suggestione di «doppio», nel senso di alter ego o portavoce dell'autore. Non mi interessa quanto di autobiografico possa esserci nell'invenzione di Celati, anche se nei sonetti che chiudono il libro certamente sono rintracciabili molte delle cose che Celati ha detto direttamente di sé e molti suoi temi consueti. Per esempio, i maltrattamenti al pubblico:

O spettatore frigido e annoiato
Che ti siedi in poltrona per godere,
Satollo col denaro guadagnato,
Per te misura delle cose vere.

Tu vorresti che l'artista fortunato,
L'artista di successo nelle fiere,
L'artista che dai critici è esaltato,
Ti desse in pasto un po' del suo mestiere,

Affinché tu ti senta acculturato,
Affinché tu poi possa far vedere
Che conosci, leggi, sei informato,
Senza disturbi al tuo cuor-frigidaire.

Tu apprezzi solo quel ch'è di prammatica,
E sei negato a capir l'arte drammatica!


Il doppio entra nel discorso, ma da un'altra porta.
Il libro con l'attore Vecchiatto  è per diversi motivi un libro molto particolare, pur all'interno di una bibliografia che è totalmente eccentrica. È un libro che deve avere sconcertato molti lettori di Celati, perché raramente viene preso in considerazione dalla critica celatiana: il numero di Riga, per esempio, gli dedica solo pochi cenni fuggevoli.
La seconda particolarità è che è un libro completamente «giocato». Tutto il libro, tutti i suoi dettagli e tutto il suo peritesto (con la sola accezione nel risvolto di copertina della nota biobibliografica di Celati, che al proposito è neutra) è collocato nel mondo in cui è esistito un attore Vecchiatto. La quarta di copertina, siglata da Celati, ne riassume la biografia; il suo risvolto contiene, come si usa in editoria, lo stralcio di un saggio critico di una italianista francese, Eliane Deschamps-Pria che nel libro compare anche come traduttrice dei sonetti; l'introduzione è un collage di scritti giornalistici e saggistici attribuiti ad autori come Susan Sontag e John Berger. Celati aggiunge una pagina, nel tipico stile dei curatori di libri postumi, completa di ringraziamenti alla vedova.
Un libro giocato in quanto completamente teatrale, una vera e propria messinscena, che diventa la messinscena di una messinscena (dato che poi il testo della recita è a sua volta metateatrale si aggiunge un terzo livello incluso).
Nella ricerca di una possibilità di definire il gioco letterario, e di applicarvi le categorie di Caillois, mentre caso, agonismo e persino vertigine non danno particolari problemi, lo statuto della mimicry - simulazione e travestimento - è paradossale, perché è quello il punto in cui gioco e letteratura sono a contatto diretto. Tutta la letteratura è simulazione, quindi da questo versante non sarebbe distinguibile la letteratura che gioca da quella che non gioca. È un problema su cui non vi annoierò oltre, se non per aggiungere che la letteratura gioca sicuramente con la simulazione nei casi di mise en abîme, di cui il libro vecchiattiano di Celati è esempio preclaro; un altro esempio, che forse almeno in parte ne dipende, sono le Opere complete di Learco Pignagnoli , raccolte da Daniele Benati.
All'interno di questo gioco ce n'è un altro, ed è la pubblicazione dei sonetti shakespeariani di Vecchiatto, che è forse la cosa che più ha sconcertato i critici celatiani. Che io sappia, Celati non aveva mai pubblicato opere in versi, se non come traduzioni: la sua evocazione del ritmo della parlata e degli schemi metrici è sempre rimasta come un punto di riferimento da traguardare, forse una fata morgana, stando all'interno della scrittura in prosa. Nella costruzione della vita e dell'opera di Vecchiatto, invece, Celati facit saltus: nel corpus di cinquantasette sonetti si è confrontato anche con quel tanto di tecnica, quindi di ludus, richiesto dall'endecasillabo e dalla rima, senza negarsi contaminazioni di paidia nell'irregolarità occasionale di qualche endecasillabo e nella libertà inventiva di rime come «vedere / frigidaire» o «marciapiede / Mercedes».
È questo un luogo in cui avviene un altro incontro con Calvino, un Calvino assai segreto: l'apparizione marginalissima e mascherata di un'attività poetica.
La maschera di Calvino è il gioco con le parole. Calvino scrive versi solo quando compie giochi verbali: un omaggio a Perec, in endecasillabi e lipogramma; un vertiginoso gioco di lipogrammi vocalici in una doppia quartina; il componimento di endecasillabi che si ottiene unendo i titoli dei romanzi contenuti in Se una notte d'inverno un viaggiatore... (e anche in questo caso ci sono due endecasillabi irregolari).
Ho parlato tanto, ma volevo dire poco, quasi nulla: volevo consegnare a questo consesso celatiano il sospetto che, come accade proprio nel free jazz, l'attitudine anticonvenzionale del nostro autore, la sua contestazione della sintassi abitudinaria delle nostre interazioni, la sua attrazione per il vuoto delle pianure e per la vertigine del senza senso non potrebbero stare in piedi, o quantomeno lo ridurrebbero al silenzio, se non avessero il puntello di una simmetrica attitudine alla regola, quella regola che ci si inventa e ci si impone, magari in segreto.
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