Elio Grazioli
Gianni Celati e Luigi Ghirri
Gianni Celati e Luigi Ghirri
Gianni Celati e Luigi Ghirri si incontrano nel 1981. Celati ha pubblicato nel 1978 il romanzo «Lunario del paradiso», poi ha viaggiato, è andato negli Stati Uniti e altrove, raccoglie materiale, sta covando qualcosa, un cambiamento in cui l’incontro con Ghirri ha un ruolo scatenatore. Dal canto suo Ghirri, che a sua volta ha raggiunto una discreta notorietà, sta lavorando a un progetto importante sul paesaggio italiano che condivide con diversi altri fotografi e che costituisce anche per lui un notevole cambiamento rispetto all’opera precedente.
Paola Borgonzoni, vedova Ghirri, ricorda che andavano spesso in giro insieme e Luigi faceva fotografie di Celati che prendeva appunti, visto di spalle [1]. È già questa un’immagine importante, perché mette insieme questa modalità di scrittura di Celati in quel periodo, di presa diretta sul reale, e la visione di Ghirri che ha ripreso spesso figure di spalle che guardano davanti a sé, dentro l’immagine-mondo. Questa immagine di Celati è poi particolarmente significativa anche perché ciò che egli sta osservando a noi si presenta come perso nel bianco di una nebbia che ci nasconde tutto - che Ghirri ha invece fotografato spesso, «camera chiara» talvolta al limite dell’indiscernibile, fino al suo ultimissimo rullino, che finisce proprio con una serie di foto scattate nella nebbia.
La frequentazione dei due ha un primo esito pubblico nell’invito di Ghirri a scrivere per il catalogo della mostra che segna la prima importante tappa della ricerca di un nuovo modo di restituire il paesaggio e che si tiene a Bari nel 1984. Intitolata Viaggio in Italia, coinvolge venti fotografi, molti dei quali diventeranno i maggiori rappresentanti del cosiddetto «nuovo paesaggio italiano».
Nel catalogo Celati pubblica il testo «Verso la foce (Reportage, per un amico fotografo)», resoconto di un viaggio, parte del quale in compagnia di due fotografi, Luciano prima e Reinhart «lo Svizzero» poi. Il rapporto tra scrittura e fotografia è reso esplicito nel termine «reportage» insinuato nel sottotitolo, ma resta tutto da indagare. Celati l’ha ribadito ricordando a sua volta: «Andando in giro con Ghirri per le campagne, ho imparato a prendere appunti su quello che vedevo, sulle voci, sulle case, sui posti. [...] Mi ripetevo: “Questo non è letteratura, non è letteratura, è un reportage sulla visione che abbiamo dei posti”[2]» . A noi pare di poter dire almeno questo, che il tipo di descrizione, esito del costante prendere appunti davanti alla scena, ci pare avere in comune con la fotografia il fatto di farvi entrare tutto, senza una preselezione, le cui parti, una volta entrate, è come se mostrassero il proprio senso, se mostrassero di averne uno, indipendente cioè da quelli che gli attribuiamo noi da fuori.
A partire da quel momento Celati e Ghirri intrecciano una corrispondenza anche in testi che scrivono l’uno per l’altro o citandosi e chiamandosi in causa.
Ghirri, diciamolo subito, evoca Celati non a caso in riferimento a tre dei temi che più gli stanno a cuore: la nostalgia, la naturalezza e il viaggio (che è anche il paesaggio), e in accoppiata con i due autori in assoluto da lui più amati, Walker Evans e Bob Dylan, segni anche questi dell’importanza del dialogo e del coinvolgimento e della stima tra di loro.
Così in quello stesso 1984 Ghirri scrive un testo intitolato «Mondi senza fine», in cui, volendo dare una definizione della nostalgia, indicata come chiave delle immagini di William Eggleston, la affida a una citazione da Celati, che dice: «Per molti “nostalgia” è una brutta parola, segno di debolezza di testa. Però non ne trovo un’altra per dire quello che non ho, e nello stesso tempo mi rappresenta come una liberazione. Ho nostalgia di un sentire, perché mi sembra di essere senza sentimenti che non siano già infognati nei cattivi pensieri. Ho nostalgia di un tono narrativo che mi leghi agli altri, perché tutto quello che so scrivere sono cose separate dalla vita degli altri. Il sentimento vero e forte che potrei raccontare meglio è quello di essere perduto. Non io in particolare, come individuo. È piuttosto uno stato di cose che mi pare di leggere dovunque. E più sto in una metropoli, a Parigi, per esempio, più mi convinco che questa non è solo una mia fantasia. Mi convinco che l’essere perduti è il vero sentimento che ho attorno, la cosa più viva che esista»[3].
Ghirri ha colto in pieno qui la tonalità celatiana peculiare, la ricerca «di un sentire», di «un tono narrativo che leghi agli altri», e insieme la scoperta che «il sentimento dell’essere perduti» è «la cosa più viva che esista». È bene ribadirlo, non solo perché sono evidentemente argomenti decisivi nel dialogo tra i due, ma anzi, noi crediamo, lo sfondo stesso su cui si stagliano le figure sì più evidenti, ma che rischiano, senza tale sfondo, di venire continuamente fraintese.
Alla fine dello stesso anno Celati scrive «Finzioni a cui credere» per la rivista «Alfabeta», un testo ora propriamente su Ghirri e il significato della sua opera, e in fondo anche dell’operazione comune. Il termine «finzioni» del titolo infatti non mancherà di rimandare il lettore di Celati al titolo del suo libro di saggi che esce in quegli stessi mesi, «Finzioni occidentali».
La questione centrale è la seguente: «[Ghirri] Ha compiuto una radicale pulizia negli intenti o scopi dello sguardo. Finalmente ha fatto vedere uno sguardo che non spia un bottino da catturare, che non va in giro per approvare o condannare ciò che vede, ma scopre che tutto può avere interesse perché fa parte dell’esistente»[4].
Per dare qualche sintetico riferimento, ricordiamo che la fotografia non solo italiana aveva avuto fino alla fine degli anni settanta sostanzialmente quattro punti di riferimento che quasi tutti seguivano. Per l’Italia molto aveva significato il neorealismo, quindi c’era il cosiddetto «istante decisivo» di Henri Cartier-Bresson, cioè la cattura del momento speciale in cui le cose sembrano disporsi in un equilibrio e significato irripetibile e armonico, e c’era il suo opposto, in qualche modo, quella fotografia «on the road», o «street photography», di un Robert Frank, che sfocava e scentrava l’immagine per indicare come la scena fosse colta dall’interno, da dentro la sua stessa esperienza. Infine anche la fotografia, come le altre espressioni artistiche, usciva da almeno un decennio di suo utilizzo e indagine cosiddetti «concettuali», che ne avevano esasperato l’uso di pura documentazione o l’analisi metalinguistica. A Walker Evans, il preferito di Ghirri, all’epoca pochi guardavano con interesse.
«Viaggio in Italia» aveva dunque significato quello che Celati ci stava indicando: l’immagine cioè di un nuovo paesaggio ripulito da ogni enfasi simbolistica o esotica, «di ogni richiamo all’insolito e insieme all’attualità»[5], così come di ogni impianto da scenetta folcloristica o da cartolina turistica; «una foto liberata dalle vedute sensazionali, dagli effetti realistici, dal vizio del bottino estetico. Era un tipo di foto dove [si] riconoscev[a] un pensiero, veramente un pensare per immagini, come voleva Ghirri»[6].
Innanzitutto tutto può e deve avere interesse, perché solo così si può veramente «pensare-immaginare l’esterno»[7], che è il vero problema, pensare il mondo fuori, «permettersi finalmente di apprezzare le apparenze»[8], dice ancora Celati, e pensare il «vivibile», là dove vorrei vivere, come aveva scritto Roland Barthes in un famoso passo della Camera chiara che Ghirri citerà proprio ad esergo del suo testo su Walker Evans.
«Ripulire lo sguardo» è un’urgenza su cui Celati insisterà molto e a lungo[9], condizione primaria nell’accostarsi al fuori, al mondo. Ghirri sembra spesso davvero pulire l’aria tra noi e il mondo, mettendo sovente un grande spazio vuoto in primo piano, non giocando mai su sfocature o altri effetti fotografici, facendo apparire tutto limpido, perfino la nebbia[10]. «Ripulire lo sguardo» significa restituire un’immagine che non chiede di essere interpretata, che non nasconde un messaggio da decifrare, ma custodisce casomai la chiarezza del suo apparire; significa dare un’immagine non solo del mondo ma anche dello sguardo, del loro incontro e rapporto, della loro corrispondenza.
Intanto, appunto, Ghirri scrive di Walker Evans e torna a Celati. Nel 1985 scrive infatti due testi entrambi intitolati, con appena una piccola variazione, con l’espressione «carezze fatte al mondo», uno per Evans e uno per Celati, intrecciati tra loro e con lui stesso, restituendo a Celati, attraverso Evans, quello che Celati ha appena scritto di lui.
L’espressione «carezze fatte al mondo» è appunto di Celati, scaturita in una conversazione a proposito delle fotografie di Evans, ma prima Ghirri la utilizza per Celati stesso, per il suo nuovo corso, espresso nel libro «Narratori delle pianure», appena uscito - con in copertina l’immagine da cui siamo partiti -, che Ghirri recensisce per il settimanale «Panorama».
In cinque frasi Ghirri mette a fuoco tutte le questioni comuni fondamentali. La prima emerge nell’evidenziare la differenza tra i libri precedenti di Celati e l’attuale: i primi «avevano privilegiato mondi personali e interiori, in questi racconti sono [invece] le voci ascoltate e gli spazi esplorati a essere protagonisti», cioè l’«esterno», il mondo[11]. Perché tutto parte da un’inversione della direzione, dall’interno e personale all’esterno, al «mondo». La seconda è la ricerca di una sintesi tra il vedere e il sentire, quel «sentire» di cui si era già dichiarata la «nostalgia». Poi: nel caso si sia confuso questo descrivere e questo raccontare chiari, questa semplicità come una forma di realismo ingenuo, di positivismo arreso, si sappia che qui si ha a che fare con un mondo fatto di «luoghi in cui ogni traccia è al tempo stesso riconoscibile e inconoscibile». In che senso? Ecco: «In questo aspetto magico-misterioso dell’esistenza sta il fascino di questo libro, e qui anche si rivela l’amore di Celati per la fotografia, che è l’immagine della realtà e finzione, realtà trovata e costruzione della realtà», le due cose insieme, mai separate, sovrapposte, forzate. In questo senso, per questa chiarezza nata da «uno sguardo stupito e rapito sull’esistente», i racconti di Celati sono «come carezze fatte al mondo»[12]. L’espressione è bellissima, perché indica tutta la delicatezza, la tenerezza e la partecipazione di questo rovesciamento della direzione verso fuori, verso il reale.
Essa, come dicevamo, è ripresa come titolo per il testo che appena dopo Ghirri scrive su Walker Evans. Mira allora a stigmatizzare la «naturalezza» di queste immagini, il loro offrirsi - dicevamo - senza sovrapporre alcuna «estraneità». Ghirri parla di Evans in una perfetta identificazione. Inizia rivendicando per Evans (e per sé) l’essere - la necessità di essere - una figura isolata, che non «è riducibile nello stretto e angusto territorio di un genere, non si presta a falsi miti e mitologie, a categorie di comodo», ma è un «classico», «lontano dalle mode, dagli stili, dalle forzature». Il suo segreto è «lasciare agli spazi, agli oggetti, ai paesaggi, il compito di rivelarsi al nostro sguardo, con una riservatezza, una dignità prima sconosciute». «Per questo non vi troviamo nessuna estraneità, nessuna costrizione e impedimento al nostro sguardo, che può finalmente interagire con il pensiero senza acrobazie, sterili elucubrazioni, senza nessuna forma di coercizione. In Evans vi è quel raro equilibrio tra consapevolezza e semplicità che è solo di uno sguardo libero e liberato da costruzioni preordinate. Il senso di estraneità che proviamo di fronte a tutto lo sterminato numero di fotografie è dovuto al senso di spaesamento; sono immagini che non ci appartengono, sono immagini che non sono necessarie. In Evans, niente di tutto questo, con il suo lavoro si entra in una relazione di affetto, quasi un principio di innamoramento; i luoghi, gli spazi, i volti diventano immediatamente riconoscibili, familiari, abitabili. Nessuna violenza, nessuno choc, visivo o emozionale, nessuna sdolcinatura; quello di Evans è uno stato di «tenerezza» nei confronti del mondo, una sensazione di unità e sintonia. [...] È importante, invece, il suo modo di costruire l’immagine, rigorosamente prospettico e frontale, ma che sembra dimenticare, per la lievità e trasparenza, pur facendo aderire a severi codici geometrici. Tutto all’interno delle sue fotografie sembra naturale. [...] Non vi è contraddizione tra il naturale e l’artificiale, tra la riproduzione dell’uno o dell’altro ed Evans supera questa difficoltà, che è stata di molti, aderendo perfettamente a quanto sosteneva Freud: potremmo rappresentare lo strumento che esegue le nostre funzioni mentali come qualcosa che rassomigli a un microscopio composito, o a un apparecchio fotografico. In questa naturalità si deve leggere la grandezza di Evans, nell’essere individuo, senza abdicazioni per diventare fotografo o artista»[13].
Si sarà colto in quest’ultima frase di Ghirri il senso per cui guardare in un determinato modo non è uno stile artistico, né è un’interpretazione del mondo, ma è propriamente un modo di essere, di «stare al mondo», in cui si mette in gioco tutto sé stessi.
Procediamo: nel 1986 si tiene la mostra «Esplorazioni sulla Via Emilia», nel cui catalogo Celati pubblica il testo «Condizioni di luce sulla via Emilia», poi la mostra «Traversate del deserto» con ulteriore testo di Celati in catalogo, «Una sera prima della fine del mondo».
L’anno seguente, 1987, Celati pubblica «Quattro novelle sulle apparenze», con foto di Ghirri in copertina, una delle sue immagini più famose, giustamente più famose. Si guardi con che aria distesa, con quale naturalezza e affetto i due personaggi si dirigono verso il mondo, che è insieme l’immagine, l’aldilà della superficie, il dentro, e già anche l’altro mondo, l’oltre, il dopo.
Sono altre due figure riprese di spalle. In «Sulla strada», dylaniati, Ghirri scrive di Bob Dylan e del viaggio: «Ti serve qualcosa che apra nuove / porte per mostrarti qualcosa che hai già visto prima! ma a cui cento e più volte non hai badato / lì ti serve qualcosa che ti apra gli occhi. [...] Dopo, i sobborghi e le sperdute cittadine della provincia non sono più solo un luogo preciso dell’America, ma diventano un luogo qualsiasi dell’Occidente [...] sentimenti di un luogo più che descrizioni dello stesso. [...] Il viaggio di Dylan può essere visto in questo scrutare il paesaggio, guardando in avanti», appunto.
E conclude il testo, come già anticipavamo, citando Celati che «nella sua elegia serale dopo aver ascoltato Idiot Wind scrive: Se non avessimo mai ascoltato canzoni / non possiamo dire cosa ora saremmo. / Non ci hanno indicato la strada, / che in fondo è solo là dove ti muovi, / ma tu cammini e vai seguendo questo: / l’ininterrotta nenia di parole / con cui si parla in te il sentito dire, / onde di voce che arrivano a guidarti, / dovunque vai, verso qualcuno o qualcosa, / spesso sorpreso che esistano anche luoghi / di cui nessuno ti aveva mai parlato»[14].
Infine, insieme, a noi pare di poter dire «insieme», anche se è Celati che scrive, i due tirano un poco le somme, e noi con loro. Nel 1989 realizzano il libro «Profilo delle nuvole». Il testo di Celati significativamente si intitola «Commenti su un teatro naturale delle immagini». Le immagini «teatro naturale»? «[Ghirri] Dice che il mondo visto non è lo stesso del mondo fotografato», c’è sempre un piccolo scarto. Ma questo scarto, «quasi sempre riconducibile ad una questione di luce», dice Ghirri[15], non è né il surreale magrittiano segno della separazione né il postmoderno segno della fusione tra realtà e finzione; al contrario è l’esaltazione del modo in cui sono le cose stesse a chiedere di essere guardate, è il segno dell’adesione visiva al mondo, del «pensare per immagini», come Ghirri l’aveva chiamato fin dall’inizio. È l’idea, scrive Celati, «che sta all’origine di queste fotografie. È l’idea che ci sia sempre un modo di guardare già previsto, o guidato, dalla cosa che si guarda [...] [che] tutte le cose richiedono d’essere guardate in un certo modo [...] La ricerca di Ghirri consiste soprattutto in questo tentativo di aderire al modo di visione previsto dalla cosa fotografata»[16].
Che sia lo scarto minimo tra due superficie, che sia il gioco di luce, che sia la ripresa della prospettiva, della simmetria, della cornice interna, fino a quei colori artificiali di notte che paiono truccati, questo è esattamente il modo in cui le cose, la scena di fronte chiede di essere guardata, e l’adesione ad essa è l’idea di una fotografia come modo di vedere”, pensare attraverso il vedere. È il modo di Ghirri di intendere il tante volte citato calviniano «mondo che guarda il mondo», è la fotografia come mappa-mondo - che ritroviamo tante volte nelle sue immagini -, mappatura del mondo, atlante, libro «primario» dell’immaginario ghirriano.
Ma chiudiamo con Celati, forse una sua forzatura, ma perché no?, per tirare l’acqua al suo mulino, ma per ritrovare anche, di nuovo, lo sfondo da cui eravamo partiti. Così, di fronte alle nuvole richiamate nel titolo del volume ed effettivamente presenti in tante immagini riprodotte, Celati forse ci mette una tonalità non tanto «teatrale» quanto «affettiva», che gli sta particolarmente a cuore, che è più sua: «Ho pensato che il mestiere del fotografo, forse più d’ogni altro nel nostro tempo, sembra testimoniare questo limite delle rappresentazioni che danno senso alla nostra normalità e disinvoltura. Ed è questo non un limite sociale o storico, ma un limite spaziale. È l’orizzonte come proscenio ultimo di tutte le possibili apparizioni, e il cielo come sfondo ultimo dei colori e toni che danno una qualità affettiva ai fenomeni attorno a noi. Ghirri riconduce tutte le apparenze e apparizioni verso quell’ultimo sfondo, verso il limite sul quale l’aperto si fa mondo. Riesce a farlo attraverso la visione atmosferica, cioè attraverso il sapore affettivo dei colori e dei toni. E ciò gli permette di presentare tutte le apparenze del mondo come fenomeni sospesi, e dunque non più come «fatti» da documentare. Ogni momento del mondo è riscattato dalla possibilità di ridargli una vaghezza, cioè di riportarlo al sentimento che abbiamo dei fenomeni. Questo mi sembra Ghirri lo faccia nel modo più esemplare, in quella serie conclusiva di paesaggi alle foci del Po. Qui ci chiama ad una attenzione elementare per fenomeni così indefiniti, indefinibili, di colore e di luce, da rendere persino traballante l’idea che esistano davvero «fatti» documentabili. Sono gli artifici della vaghezza: questo antico termine dell’arte italiana, per dire qualcosa che somiglia ai fenomeni delle nuvole, del cielo e degli orizzonti»[17].
[1] Paola Bergonzoni Ghirri, «Le avventure di Guizzardi», in Roberta Valtorta (a cura di), «Racconti dal paesaggio. 1984-2004. A vent’anni da Viaggio in Italia», Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo, e Lupetti, Milano, 2004, p. 134.
[2] Gianni Celati, «Letteratura come accumulo di roba sparsa. Conversazione con Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa», in Marco Belpoliti e Marco Sironi (a cura di), Gianni Celati, «Riga n. 28», Marcos y Marcos, Milano, 2008, p. 32.
[3] Luigi Ghirri, «Mondi senza fine», ora in «Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia», SEI, Torino, 1997, p. 50.
[4] Gianni Celati, «Finzioni a cui credere», ora in Marco Sironi, «Geografie del narrare. Insistenze sui luoghi di Luigi Ghirri e Gianni Celati», Diabasis, Reggio Emilia, 2004, pp. 175-176.
[5] Ivi, p. 176.
[6] Gianni Celati, «Letteratura come accumulo di roba sparsa», cit., p. 32.
[7]Gianni Celati, «Finzioni a cui credere», cit., p. 176.
[8] Ivi, p. 177.
[9] «Ed ecco questo insolito modo di visitare i luoghi, senza il romanticismo turistico dei “bei paesaggi”, senza il folklore locale delle vecchie cartoline, e anche senza le mitologie della documentazione sociale. Ciò che accomunava i venti fotografi lanciati in quell’impresa era un tentativo di “ripulire lo sguardo” (come qualcuno ha detto). Il che si vede nella sobrietà delle loro immagini, che è lo stile specifico di questa ricerca. La sobrietà viene dal fatto che quei fotografi avevano imparato a sottrarsi alle tentazioni del sensazionale, agli effetti “realistici” della foto documentaria, e in generale si erano liberati dall'idea della foto come un bottino esotico, o estetico, o bottino dell'immediatezza percettiva. L'immediatezza lasciava il posto a una visione che non crede più alla cattura in velocità delle cose, e cerca invece un modo di pensare-immaginare il mondo esterno nella sua durata e continuità» (Gianni Celati, «Viaggio in Italia 20 anni dopo», in Marco Belpoliti e Marco Sironi, Gianni Celati, cit., p. 126)
[10] «Come se le cose apparissero finalmente avvolte nel loro naturale silenzio» (ivi, pp. 126-127).
[11] Lo stesso Celati dirà vent’anni dopo: «Lui e gli altri fotografi mi avevano dato il senso di un collegamento con quello che è fuori di noi...» (Letteratura come accumulo di roba sparsa, cit., p. 34).
[12] Luigi Ghirri, Una carezza al mondo, ora in Marco Sironi, Geografie del narrare, cit., p. 173-174.
[13] Luigi Ghirri, Le carezze fatte al mondo di Walker Evans, ora in Niente di antico sotto il sole, cit., pp. 70-71.
[14] Luigi Ghirri, Sulla strada, dylaniati, ora in Niente di antico sotto il sole, cit., pp. 113-114.
[15] Gianni Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, ora in Marco Sironi, Geografie del narrare, cit., p. 178
[16] Ivi, p. 182.
[17] Ivi, p. 188.
Paola Borgonzoni, vedova Ghirri, ricorda che andavano spesso in giro insieme e Luigi faceva fotografie di Celati che prendeva appunti, visto di spalle [1]. È già questa un’immagine importante, perché mette insieme questa modalità di scrittura di Celati in quel periodo, di presa diretta sul reale, e la visione di Ghirri che ha ripreso spesso figure di spalle che guardano davanti a sé, dentro l’immagine-mondo. Questa immagine di Celati è poi particolarmente significativa anche perché ciò che egli sta osservando a noi si presenta come perso nel bianco di una nebbia che ci nasconde tutto - che Ghirri ha invece fotografato spesso, «camera chiara» talvolta al limite dell’indiscernibile, fino al suo ultimissimo rullino, che finisce proprio con una serie di foto scattate nella nebbia.
La frequentazione dei due ha un primo esito pubblico nell’invito di Ghirri a scrivere per il catalogo della mostra che segna la prima importante tappa della ricerca di un nuovo modo di restituire il paesaggio e che si tiene a Bari nel 1984. Intitolata Viaggio in Italia, coinvolge venti fotografi, molti dei quali diventeranno i maggiori rappresentanti del cosiddetto «nuovo paesaggio italiano».
Nel catalogo Celati pubblica il testo «Verso la foce (Reportage, per un amico fotografo)», resoconto di un viaggio, parte del quale in compagnia di due fotografi, Luciano prima e Reinhart «lo Svizzero» poi. Il rapporto tra scrittura e fotografia è reso esplicito nel termine «reportage» insinuato nel sottotitolo, ma resta tutto da indagare. Celati l’ha ribadito ricordando a sua volta: «Andando in giro con Ghirri per le campagne, ho imparato a prendere appunti su quello che vedevo, sulle voci, sulle case, sui posti. [...] Mi ripetevo: “Questo non è letteratura, non è letteratura, è un reportage sulla visione che abbiamo dei posti”[2]» . A noi pare di poter dire almeno questo, che il tipo di descrizione, esito del costante prendere appunti davanti alla scena, ci pare avere in comune con la fotografia il fatto di farvi entrare tutto, senza una preselezione, le cui parti, una volta entrate, è come se mostrassero il proprio senso, se mostrassero di averne uno, indipendente cioè da quelli che gli attribuiamo noi da fuori.
A partire da quel momento Celati e Ghirri intrecciano una corrispondenza anche in testi che scrivono l’uno per l’altro o citandosi e chiamandosi in causa.
Ghirri, diciamolo subito, evoca Celati non a caso in riferimento a tre dei temi che più gli stanno a cuore: la nostalgia, la naturalezza e il viaggio (che è anche il paesaggio), e in accoppiata con i due autori in assoluto da lui più amati, Walker Evans e Bob Dylan, segni anche questi dell’importanza del dialogo e del coinvolgimento e della stima tra di loro.
Così in quello stesso 1984 Ghirri scrive un testo intitolato «Mondi senza fine», in cui, volendo dare una definizione della nostalgia, indicata come chiave delle immagini di William Eggleston, la affida a una citazione da Celati, che dice: «Per molti “nostalgia” è una brutta parola, segno di debolezza di testa. Però non ne trovo un’altra per dire quello che non ho, e nello stesso tempo mi rappresenta come una liberazione. Ho nostalgia di un sentire, perché mi sembra di essere senza sentimenti che non siano già infognati nei cattivi pensieri. Ho nostalgia di un tono narrativo che mi leghi agli altri, perché tutto quello che so scrivere sono cose separate dalla vita degli altri. Il sentimento vero e forte che potrei raccontare meglio è quello di essere perduto. Non io in particolare, come individuo. È piuttosto uno stato di cose che mi pare di leggere dovunque. E più sto in una metropoli, a Parigi, per esempio, più mi convinco che questa non è solo una mia fantasia. Mi convinco che l’essere perduti è il vero sentimento che ho attorno, la cosa più viva che esista»[3].
Ghirri ha colto in pieno qui la tonalità celatiana peculiare, la ricerca «di un sentire», di «un tono narrativo che leghi agli altri», e insieme la scoperta che «il sentimento dell’essere perduti» è «la cosa più viva che esista». È bene ribadirlo, non solo perché sono evidentemente argomenti decisivi nel dialogo tra i due, ma anzi, noi crediamo, lo sfondo stesso su cui si stagliano le figure sì più evidenti, ma che rischiano, senza tale sfondo, di venire continuamente fraintese.
Alla fine dello stesso anno Celati scrive «Finzioni a cui credere» per la rivista «Alfabeta», un testo ora propriamente su Ghirri e il significato della sua opera, e in fondo anche dell’operazione comune. Il termine «finzioni» del titolo infatti non mancherà di rimandare il lettore di Celati al titolo del suo libro di saggi che esce in quegli stessi mesi, «Finzioni occidentali».
La questione centrale è la seguente: «[Ghirri] Ha compiuto una radicale pulizia negli intenti o scopi dello sguardo. Finalmente ha fatto vedere uno sguardo che non spia un bottino da catturare, che non va in giro per approvare o condannare ciò che vede, ma scopre che tutto può avere interesse perché fa parte dell’esistente»[4].
Per dare qualche sintetico riferimento, ricordiamo che la fotografia non solo italiana aveva avuto fino alla fine degli anni settanta sostanzialmente quattro punti di riferimento che quasi tutti seguivano. Per l’Italia molto aveva significato il neorealismo, quindi c’era il cosiddetto «istante decisivo» di Henri Cartier-Bresson, cioè la cattura del momento speciale in cui le cose sembrano disporsi in un equilibrio e significato irripetibile e armonico, e c’era il suo opposto, in qualche modo, quella fotografia «on the road», o «street photography», di un Robert Frank, che sfocava e scentrava l’immagine per indicare come la scena fosse colta dall’interno, da dentro la sua stessa esperienza. Infine anche la fotografia, come le altre espressioni artistiche, usciva da almeno un decennio di suo utilizzo e indagine cosiddetti «concettuali», che ne avevano esasperato l’uso di pura documentazione o l’analisi metalinguistica. A Walker Evans, il preferito di Ghirri, all’epoca pochi guardavano con interesse.
«Viaggio in Italia» aveva dunque significato quello che Celati ci stava indicando: l’immagine cioè di un nuovo paesaggio ripulito da ogni enfasi simbolistica o esotica, «di ogni richiamo all’insolito e insieme all’attualità»[5], così come di ogni impianto da scenetta folcloristica o da cartolina turistica; «una foto liberata dalle vedute sensazionali, dagli effetti realistici, dal vizio del bottino estetico. Era un tipo di foto dove [si] riconoscev[a] un pensiero, veramente un pensare per immagini, come voleva Ghirri»[6].
Innanzitutto tutto può e deve avere interesse, perché solo così si può veramente «pensare-immaginare l’esterno»[7], che è il vero problema, pensare il mondo fuori, «permettersi finalmente di apprezzare le apparenze»[8], dice ancora Celati, e pensare il «vivibile», là dove vorrei vivere, come aveva scritto Roland Barthes in un famoso passo della Camera chiara che Ghirri citerà proprio ad esergo del suo testo su Walker Evans.
«Ripulire lo sguardo» è un’urgenza su cui Celati insisterà molto e a lungo[9], condizione primaria nell’accostarsi al fuori, al mondo. Ghirri sembra spesso davvero pulire l’aria tra noi e il mondo, mettendo sovente un grande spazio vuoto in primo piano, non giocando mai su sfocature o altri effetti fotografici, facendo apparire tutto limpido, perfino la nebbia[10]. «Ripulire lo sguardo» significa restituire un’immagine che non chiede di essere interpretata, che non nasconde un messaggio da decifrare, ma custodisce casomai la chiarezza del suo apparire; significa dare un’immagine non solo del mondo ma anche dello sguardo, del loro incontro e rapporto, della loro corrispondenza.
Intanto, appunto, Ghirri scrive di Walker Evans e torna a Celati. Nel 1985 scrive infatti due testi entrambi intitolati, con appena una piccola variazione, con l’espressione «carezze fatte al mondo», uno per Evans e uno per Celati, intrecciati tra loro e con lui stesso, restituendo a Celati, attraverso Evans, quello che Celati ha appena scritto di lui.
L’espressione «carezze fatte al mondo» è appunto di Celati, scaturita in una conversazione a proposito delle fotografie di Evans, ma prima Ghirri la utilizza per Celati stesso, per il suo nuovo corso, espresso nel libro «Narratori delle pianure», appena uscito - con in copertina l’immagine da cui siamo partiti -, che Ghirri recensisce per il settimanale «Panorama».
In cinque frasi Ghirri mette a fuoco tutte le questioni comuni fondamentali. La prima emerge nell’evidenziare la differenza tra i libri precedenti di Celati e l’attuale: i primi «avevano privilegiato mondi personali e interiori, in questi racconti sono [invece] le voci ascoltate e gli spazi esplorati a essere protagonisti», cioè l’«esterno», il mondo[11]. Perché tutto parte da un’inversione della direzione, dall’interno e personale all’esterno, al «mondo». La seconda è la ricerca di una sintesi tra il vedere e il sentire, quel «sentire» di cui si era già dichiarata la «nostalgia». Poi: nel caso si sia confuso questo descrivere e questo raccontare chiari, questa semplicità come una forma di realismo ingenuo, di positivismo arreso, si sappia che qui si ha a che fare con un mondo fatto di «luoghi in cui ogni traccia è al tempo stesso riconoscibile e inconoscibile». In che senso? Ecco: «In questo aspetto magico-misterioso dell’esistenza sta il fascino di questo libro, e qui anche si rivela l’amore di Celati per la fotografia, che è l’immagine della realtà e finzione, realtà trovata e costruzione della realtà», le due cose insieme, mai separate, sovrapposte, forzate. In questo senso, per questa chiarezza nata da «uno sguardo stupito e rapito sull’esistente», i racconti di Celati sono «come carezze fatte al mondo»[12]. L’espressione è bellissima, perché indica tutta la delicatezza, la tenerezza e la partecipazione di questo rovesciamento della direzione verso fuori, verso il reale.
Essa, come dicevamo, è ripresa come titolo per il testo che appena dopo Ghirri scrive su Walker Evans. Mira allora a stigmatizzare la «naturalezza» di queste immagini, il loro offrirsi - dicevamo - senza sovrapporre alcuna «estraneità». Ghirri parla di Evans in una perfetta identificazione. Inizia rivendicando per Evans (e per sé) l’essere - la necessità di essere - una figura isolata, che non «è riducibile nello stretto e angusto territorio di un genere, non si presta a falsi miti e mitologie, a categorie di comodo», ma è un «classico», «lontano dalle mode, dagli stili, dalle forzature». Il suo segreto è «lasciare agli spazi, agli oggetti, ai paesaggi, il compito di rivelarsi al nostro sguardo, con una riservatezza, una dignità prima sconosciute». «Per questo non vi troviamo nessuna estraneità, nessuna costrizione e impedimento al nostro sguardo, che può finalmente interagire con il pensiero senza acrobazie, sterili elucubrazioni, senza nessuna forma di coercizione. In Evans vi è quel raro equilibrio tra consapevolezza e semplicità che è solo di uno sguardo libero e liberato da costruzioni preordinate. Il senso di estraneità che proviamo di fronte a tutto lo sterminato numero di fotografie è dovuto al senso di spaesamento; sono immagini che non ci appartengono, sono immagini che non sono necessarie. In Evans, niente di tutto questo, con il suo lavoro si entra in una relazione di affetto, quasi un principio di innamoramento; i luoghi, gli spazi, i volti diventano immediatamente riconoscibili, familiari, abitabili. Nessuna violenza, nessuno choc, visivo o emozionale, nessuna sdolcinatura; quello di Evans è uno stato di «tenerezza» nei confronti del mondo, una sensazione di unità e sintonia. [...] È importante, invece, il suo modo di costruire l’immagine, rigorosamente prospettico e frontale, ma che sembra dimenticare, per la lievità e trasparenza, pur facendo aderire a severi codici geometrici. Tutto all’interno delle sue fotografie sembra naturale. [...] Non vi è contraddizione tra il naturale e l’artificiale, tra la riproduzione dell’uno o dell’altro ed Evans supera questa difficoltà, che è stata di molti, aderendo perfettamente a quanto sosteneva Freud: potremmo rappresentare lo strumento che esegue le nostre funzioni mentali come qualcosa che rassomigli a un microscopio composito, o a un apparecchio fotografico. In questa naturalità si deve leggere la grandezza di Evans, nell’essere individuo, senza abdicazioni per diventare fotografo o artista»[13].
Si sarà colto in quest’ultima frase di Ghirri il senso per cui guardare in un determinato modo non è uno stile artistico, né è un’interpretazione del mondo, ma è propriamente un modo di essere, di «stare al mondo», in cui si mette in gioco tutto sé stessi.
Procediamo: nel 1986 si tiene la mostra «Esplorazioni sulla Via Emilia», nel cui catalogo Celati pubblica il testo «Condizioni di luce sulla via Emilia», poi la mostra «Traversate del deserto» con ulteriore testo di Celati in catalogo, «Una sera prima della fine del mondo».
L’anno seguente, 1987, Celati pubblica «Quattro novelle sulle apparenze», con foto di Ghirri in copertina, una delle sue immagini più famose, giustamente più famose. Si guardi con che aria distesa, con quale naturalezza e affetto i due personaggi si dirigono verso il mondo, che è insieme l’immagine, l’aldilà della superficie, il dentro, e già anche l’altro mondo, l’oltre, il dopo.
Sono altre due figure riprese di spalle. In «Sulla strada», dylaniati, Ghirri scrive di Bob Dylan e del viaggio: «Ti serve qualcosa che apra nuove / porte per mostrarti qualcosa che hai già visto prima! ma a cui cento e più volte non hai badato / lì ti serve qualcosa che ti apra gli occhi. [...] Dopo, i sobborghi e le sperdute cittadine della provincia non sono più solo un luogo preciso dell’America, ma diventano un luogo qualsiasi dell’Occidente [...] sentimenti di un luogo più che descrizioni dello stesso. [...] Il viaggio di Dylan può essere visto in questo scrutare il paesaggio, guardando in avanti», appunto.
E conclude il testo, come già anticipavamo, citando Celati che «nella sua elegia serale dopo aver ascoltato Idiot Wind scrive: Se non avessimo mai ascoltato canzoni / non possiamo dire cosa ora saremmo. / Non ci hanno indicato la strada, / che in fondo è solo là dove ti muovi, / ma tu cammini e vai seguendo questo: / l’ininterrotta nenia di parole / con cui si parla in te il sentito dire, / onde di voce che arrivano a guidarti, / dovunque vai, verso qualcuno o qualcosa, / spesso sorpreso che esistano anche luoghi / di cui nessuno ti aveva mai parlato»[14].
Infine, insieme, a noi pare di poter dire «insieme», anche se è Celati che scrive, i due tirano un poco le somme, e noi con loro. Nel 1989 realizzano il libro «Profilo delle nuvole». Il testo di Celati significativamente si intitola «Commenti su un teatro naturale delle immagini». Le immagini «teatro naturale»? «[Ghirri] Dice che il mondo visto non è lo stesso del mondo fotografato», c’è sempre un piccolo scarto. Ma questo scarto, «quasi sempre riconducibile ad una questione di luce», dice Ghirri[15], non è né il surreale magrittiano segno della separazione né il postmoderno segno della fusione tra realtà e finzione; al contrario è l’esaltazione del modo in cui sono le cose stesse a chiedere di essere guardate, è il segno dell’adesione visiva al mondo, del «pensare per immagini», come Ghirri l’aveva chiamato fin dall’inizio. È l’idea, scrive Celati, «che sta all’origine di queste fotografie. È l’idea che ci sia sempre un modo di guardare già previsto, o guidato, dalla cosa che si guarda [...] [che] tutte le cose richiedono d’essere guardate in un certo modo [...] La ricerca di Ghirri consiste soprattutto in questo tentativo di aderire al modo di visione previsto dalla cosa fotografata»[16].
Che sia lo scarto minimo tra due superficie, che sia il gioco di luce, che sia la ripresa della prospettiva, della simmetria, della cornice interna, fino a quei colori artificiali di notte che paiono truccati, questo è esattamente il modo in cui le cose, la scena di fronte chiede di essere guardata, e l’adesione ad essa è l’idea di una fotografia come modo di vedere”, pensare attraverso il vedere. È il modo di Ghirri di intendere il tante volte citato calviniano «mondo che guarda il mondo», è la fotografia come mappa-mondo - che ritroviamo tante volte nelle sue immagini -, mappatura del mondo, atlante, libro «primario» dell’immaginario ghirriano.
Ma chiudiamo con Celati, forse una sua forzatura, ma perché no?, per tirare l’acqua al suo mulino, ma per ritrovare anche, di nuovo, lo sfondo da cui eravamo partiti. Così, di fronte alle nuvole richiamate nel titolo del volume ed effettivamente presenti in tante immagini riprodotte, Celati forse ci mette una tonalità non tanto «teatrale» quanto «affettiva», che gli sta particolarmente a cuore, che è più sua: «Ho pensato che il mestiere del fotografo, forse più d’ogni altro nel nostro tempo, sembra testimoniare questo limite delle rappresentazioni che danno senso alla nostra normalità e disinvoltura. Ed è questo non un limite sociale o storico, ma un limite spaziale. È l’orizzonte come proscenio ultimo di tutte le possibili apparizioni, e il cielo come sfondo ultimo dei colori e toni che danno una qualità affettiva ai fenomeni attorno a noi. Ghirri riconduce tutte le apparenze e apparizioni verso quell’ultimo sfondo, verso il limite sul quale l’aperto si fa mondo. Riesce a farlo attraverso la visione atmosferica, cioè attraverso il sapore affettivo dei colori e dei toni. E ciò gli permette di presentare tutte le apparenze del mondo come fenomeni sospesi, e dunque non più come «fatti» da documentare. Ogni momento del mondo è riscattato dalla possibilità di ridargli una vaghezza, cioè di riportarlo al sentimento che abbiamo dei fenomeni. Questo mi sembra Ghirri lo faccia nel modo più esemplare, in quella serie conclusiva di paesaggi alle foci del Po. Qui ci chiama ad una attenzione elementare per fenomeni così indefiniti, indefinibili, di colore e di luce, da rendere persino traballante l’idea che esistano davvero «fatti» documentabili. Sono gli artifici della vaghezza: questo antico termine dell’arte italiana, per dire qualcosa che somiglia ai fenomeni delle nuvole, del cielo e degli orizzonti»[17].
[1] Paola Bergonzoni Ghirri, «Le avventure di Guizzardi», in Roberta Valtorta (a cura di), «Racconti dal paesaggio. 1984-2004. A vent’anni da Viaggio in Italia», Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo, e Lupetti, Milano, 2004, p. 134.
[2] Gianni Celati, «Letteratura come accumulo di roba sparsa. Conversazione con Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa», in Marco Belpoliti e Marco Sironi (a cura di), Gianni Celati, «Riga n. 28», Marcos y Marcos, Milano, 2008, p. 32.
[3] Luigi Ghirri, «Mondi senza fine», ora in «Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia», SEI, Torino, 1997, p. 50.
[4] Gianni Celati, «Finzioni a cui credere», ora in Marco Sironi, «Geografie del narrare. Insistenze sui luoghi di Luigi Ghirri e Gianni Celati», Diabasis, Reggio Emilia, 2004, pp. 175-176.
[5] Ivi, p. 176.
[6] Gianni Celati, «Letteratura come accumulo di roba sparsa», cit., p. 32.
[7]Gianni Celati, «Finzioni a cui credere», cit., p. 176.
[8] Ivi, p. 177.
[9] «Ed ecco questo insolito modo di visitare i luoghi, senza il romanticismo turistico dei “bei paesaggi”, senza il folklore locale delle vecchie cartoline, e anche senza le mitologie della documentazione sociale. Ciò che accomunava i venti fotografi lanciati in quell’impresa era un tentativo di “ripulire lo sguardo” (come qualcuno ha detto). Il che si vede nella sobrietà delle loro immagini, che è lo stile specifico di questa ricerca. La sobrietà viene dal fatto che quei fotografi avevano imparato a sottrarsi alle tentazioni del sensazionale, agli effetti “realistici” della foto documentaria, e in generale si erano liberati dall'idea della foto come un bottino esotico, o estetico, o bottino dell'immediatezza percettiva. L'immediatezza lasciava il posto a una visione che non crede più alla cattura in velocità delle cose, e cerca invece un modo di pensare-immaginare il mondo esterno nella sua durata e continuità» (Gianni Celati, «Viaggio in Italia 20 anni dopo», in Marco Belpoliti e Marco Sironi, Gianni Celati, cit., p. 126)
[10] «Come se le cose apparissero finalmente avvolte nel loro naturale silenzio» (ivi, pp. 126-127).
[11] Lo stesso Celati dirà vent’anni dopo: «Lui e gli altri fotografi mi avevano dato il senso di un collegamento con quello che è fuori di noi...» (Letteratura come accumulo di roba sparsa, cit., p. 34).
[12] Luigi Ghirri, Una carezza al mondo, ora in Marco Sironi, Geografie del narrare, cit., p. 173-174.
[13] Luigi Ghirri, Le carezze fatte al mondo di Walker Evans, ora in Niente di antico sotto il sole, cit., pp. 70-71.
[14] Luigi Ghirri, Sulla strada, dylaniati, ora in Niente di antico sotto il sole, cit., pp. 113-114.
[15] Gianni Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, ora in Marco Sironi, Geografie del narrare, cit., p. 178
[16] Ivi, p. 182.
[17] Ivi, p. 188.