Riga n.
Alberto Arbasino
Georges Perec
Conversazione con Ewa Pawlikowska

Esiste un grado zero della scrittura di Georges Perec? In OuLiPo, Créations, Re-créations, lei parla del grado zero della contrainte, a partire dal quale tutto diventa possibile...
 
Quando dico «grado zero della contrainte», cioè la regola elementare che si applica su una lettera, intendo la cosa più semplice che si possa usare come sistema produttore di scrittura. E supponendo, come in un postulato matematico, che non esista la lettera «e» nella lingua francese, che ci si pone la seguente domanda: Come scrivere una storia? Questo si contrappone a contrainte molto più elaborate, ad architetture di contrainte, a sistemi. Mentre ciò che chiamerei il grado zero della mia scrittura... non so dove si situa. L'immagine che posso usare è la seguente: per esempio, in libri come La Disparition, Les Revenentes, Alphabets, sono un po' come un cavaliere che fa eseguire esercizi molto pericolosi al suo cavallo e in un libro come W o il ricordo d'infanzia sono come un cavaliere che semplicemente cerca di far camminare il suo cavallo perfettamente ma senza che sia spettacolare, senza niente di artificiale. Sarebbe ugualmente difficile in entrambi i casi; per me è perfino più difficile scrivere in modo piatto, semplice, che scrivere in modo più virtuosistico - potrebbe essere questo, il grado zero. Il grado zero sarebbe il momento in cui arrivo a una scrittura completamente limpida, senza artificio, senza ricerca, ma questo non va bene per tutti i libri e per il resto è una scrittura che utilizza molto la nozione di gioco.

 
Leggendo Le cose si ha l'impressione di assistere a una specie di tormento fenomenologico, soprattutto per quel che riguarda la potenzialità del vissuto. Scrivendo Le cose era, in un certo senso, appassionato dalla presenza degli oggetti; da un affollamento delle cose? Si tratta della sua esperienza personale?

In Le cose è la mia esperienza che descrivo e l'esperienza di un gruppo di amici, gente che conoscevo in quel periodo, momento in cui si passava dalla condizione di studenti alla vita civile, alla vita quotidiana, in cui bisognava guadagnarsi da vivere. Eravamo, per un certo numero d'anni, come molti, quasi tutti in Francia, completamente affascinati dal possesso di graziose tazzine, elettrodomestici, impianti hi-fi; dunque è veramente venuta dalla mia - non mi piace molto la parola «tormento» - ossessione e dal rifiuto che provavo per la messa in questione di questa ossessione. Mi chiedevo come potevo descriverla in un modo più generale, cioè raggiungere un livello sociologico.
Attraverso la descrizione dei due personaggi, Jérome e Sylvie, ho cercato di fare una sorta di descrizione di quella che è stata chiamata «la società dei consumi». Era dunque la mia stessa esperienza (nutrita in gran parte dall'insegnamento di Roland Barthes e, a livello di scrittura, da Flaubert, dall'Educazione sentimentale), a cui davo, semplicemente, un carattere generale. Cercavo di tradurre la mia esperienza, ma il mio passo non era quello di un sociologo perché andava verso una descrizione della struttura della società in cui ero immerso. Era una specie di studio del mondo che mi circondava.


Qual è il rapporto tra l'invenzione, compresa l'invenzione formale, e l'esperienza vissuta? Cosa conta di più al momento della concezione di un libro?

L'invenzione per quel che mi riguarda parte sempre da un'invenzione formale.
All'inizio c'è un bisogno tracciato di scrivere e questo bisogno trova la sua origine in un'esperienza personale o in qualcosa che mi succede e che viene poi trasformato per mezzo di un'invenzione formale. Per darle un esempio: la signora che fa apparire il diavolo è nata da quell'invenzione formale perché sapevo che nel capitolo 661 doveva apparire il diavolo; era deciso in anticipo, perché il numero 66 ha un valore cabalistico; 6 è la cifra del diavolo, lo si sa anche solo da quegli stupidi libercoli sull' occultismo, e questo personaggio di donna doveva far apparire il diavolo per sopprimere un capitolo, perché, normalmente, secondo il progetto del libro, dovrebbero esserci 100 capitoli, mentre di fatto ce ne sono 99. Un capitolo è stato soppresso a causa della ragazzina che addenta il suo biscottino al burro. Più a fondo, è necessario che questo capitolo sparisca per spezzare la simmetria, per introdurre un errore nel sistema, perché quando si stabilisce un sistema di contrainte bisogna che ci siano anche le contro-contrainte. Bisogna - ed è importante - distruggere il sistema dei vincoli. Non deve essere rigido, bisogna che ci sia del gioco, come si dice, che strida un poco; non deve essere completamente coerente; occorre un clinamen - si veda la teoria degli atomi di Epicuro: «il mondo funziona perché all'inizio c'è un disequilibrio». Secondo Klee« il genio è l'errore nel sistema ». Pecco forse d'orgoglio dicendolo... ma nella pittura di Klee è molto importante.
Allora, nel capitolo 66 c'era un certo numero di cose che dovevano succedere ma non sapevo come organizzarlo. In quel momento un amico attore mi ha mostrato una fotoografia, che aveva comprato ad un' asta, di un film di Marcel l'Herbier intitolato L'Argent. Era la foto di una donna molto, molto bella, con un vestito con strascico, che scendeva da una scala; aveva l'aria di essere alta, ma in realtà non lo era tanto; c'era un bellissimo mazzo di tuberose accanto a lei e questa foto ha fatto scattare... è stata uno dei punti di partenza dell'organizzazione. Parto dunque o da un ricordo o da un'esperienza o semmplicemente da una sensazione personale che è poi ripresa in carico dal sistema formale, dal sistema di invenzione.


Alcuni critici, parlando de Le cose, per esempio, a proposito della descrizione, tendono a dire che l'esistenza delle cose è in funzione dell'esistenza dell'uomo ...

No, questo non significa niente. Le cose non determinano l'esistenza dell'uomo, determinano - forse - la possibilità di scrivere. Come in Balzac, per esempio, dove le descrizioni funzionano come dei personaggi; per me, in un certo senso, è più ricco o, in ogni caso, più divertente. Detesto ciò che chiamano «psicologia», soprattutto nel romanzo. Preferisco i libri in cui i personaggi sono descritti dalle loro azioni, dai loro gesti e da quanto li circonda. Voglio dire che descrivere un personaggio attraverso l'orologio che porta è per me, in un certo modo, molto più interessante che dire che è un uomo che sa questo, pensa quest'altro ... E qualcosa che appartiene alla grande tradizione del realiismo nel romanzo inglese e tedesco del XIX secolo e che ho un po' esagerato, quasi fino all'iperrealismo, descrivendo gli oggetti, andando ancora più lontano nei dettagli.
Le cose ci descrivono. Possiamo descrivere gli esseri attraverso gli oggetti, attraverso l'ambiente che li circonda e il modo in cui si spostano in questo ambiente.


In che misura il romanzo, come lei lo concepisce, può costituire «un esercizio esistenziale »?

Non ho una concezione precisa del romanzo. Ho scritto molte cose che non si chiamano romanzi. W o il ricordo d'infanzia non è veramente un romanzo. Le cose è un racconto. La Disparition è un romanzo... La vita istruzioni per l'uso... è un romanzo al plurale. E ho un'idea forse molto vaga della scrittura, che per il momento si confonde con la mia esiistenza. E la mia attività principale, al tempo stesso sul piano sociale in cui si comunica e sul piano mentale.
Scrivo romanzi, scrivo tutti i giorni. E il mio mondo.


La definizione di scrittura adottata dal Nouveau Roman è «completare l'atto di visione con un atto di lettura che permetta di compensare la riduzione dello spazio visivo alla suuperficie di scrittura». Specie di spazi risponde perfettamente, pare, a questo obbiettivo. Potrebbe descrivere come ha vissuto l'esperienza di questo libro?

In partenza fu una commissione. Un editore, Paul Virilio, mi ha chiesto, per iniziare una collana sullo spazio, di riflettere sul tema. E molto a lungo, per quasi un anno, non sapevo come avrei scritto questo libro. Il tempo stringeva e poi un giorno ebbi un'idea: ho avuto in ogni caso quest'esperienza, mi hanno chiesto di tradurla in parole. All'inizio è dunque lo spazio del testo. Il primo spazio col quale avrei avuto a che fare era precisaamente lo spazio sul quale avrei parlato di spazio, cioè la pagina.
La mia prima approssimazione di spazio era la pagina; dopo la pagina cominciano degli inscatolamenti a partire da un gioco di parole tra la page (pagina) e le page che in argot è il letto. Poi dal letto si passa alla camera, dalla camera all'appartamento, dall'appartamento alla casa, dalla casa alla strada. C'è all'origine del libro una poesia di Eluard, o meglio la canzone infantile ripresa da Eluard, esattamente questa idea quasi cosmologica...
Voglio dire che le cose si inscatolano le une nelle altre e lo spazio, bisogna cominnciare col prenderlo da un'estremità; lo spazio somiglia a una cipolla con delle sfere succcessive. E un'immagine anche di Dante, nella descrizione dell'Inferno, questa immagine di accerchiamenti successivi che si ritrova quando si scrive il proprio indirizzo.
Alla fine di Specie di spazi c'è Georges Perec, la strada, la casa, la scala, la città, il paese, la terra, l'Universo ... Come si è nel mondo, come si è inseriti nel mondo ... E poiché questo spazio era all'inizio uno spazio di scrittura, si comincia dalla pagina bianca e a partire da quel momento, una volta che si è cominciato a solcare lo spazio, dato che far questo significa fare dei solchi, il libro parte, cercando di estendersi: come un sasso gettato in un fiume e che forma dei cerchi.


In Un uomo che dorme e ne La Boutique obscure ha integrato la sua esperienza di sognatore e quella di scrittura. Vi si trova il fascino di un testo che sembra prodursi da solo. La retorica onirica che lei crea in questi libri è, mi pare, del tutto diversa da quanto facevano i surrealisti descrivendo i loro sogni...
 
In Un uomo che dorme non si tratta di sogni, ma del momento in cui ci si addormenta, lo stato di endormissement, o di endormement in francese, di dormiveglia in italiano e di fallin-asleep in inglese. È uno stato fisiologico. In neurofisiologia è molto caratterizzato: è prima del sonno propriamente detto e non è assolutamente più uno stato di veglia. Corrisponde a un certo tracciato elettrocorticografico ... Comunque, non è molto importante. L'importante è che Un uomo che dorme è un libro che si è costruito un po' come W o il ricordo d'infanzia: ci sono due parti, un'alternanza tra l'esperienza di quest'uomo e le descrizioni dell'entrata nel sonno. Queste descrizioni dell'entrata nel sonno le ho scritte tenendo un taccuino al mio fianco, cercando di scrivere per qualche secondo le immagini che mi venivano in quel momento in cui si ha l'impressione di avere un corpo enorme, un pollice molto, molto grosso, che i piedi sono molto, molto lontani; e poi questo dura pochissimo, perché nel momento in cui si comincia a scrivere ci si sveglia completamente. Si impiega moltissimo prima di trovare veramente il modo di scrittura conveniente.
Per i sogni è un po' diverso, anzi molto diverso. Ho cominciato a scrivere i miei sogni il giorno in cui ho fatto il sogno di essermi svegliato morto. Allora ho deciso di scriverne, non so bene perché. Ho continuato per molti mesi. Di tanto in tanto scrivevo un sogno. In quel periodo ho cominciato una psicanalisi. A un certo punto di questa esperienza, nel secondo anno di analisi, portavo ogni giorno al mio psicanalista dei sogni, come si dice, sempre più belli e finalmente troppo belli per essere veri. Mi sono accorto che i miei sogni non erano per niente quel che mi aspettavo che fossero. Non si trattava di un accso all'inconscio, un accesso a ciò che veramente mi parlava, ma precisamente esercizi di retorica. Sognavo per non parlare di quel che era importante, l'importante essendo molto più breve, molto più semplice da dire, di questa specie di fuoco d'artificio, questi sogni bellissimi che si presentano completamente scritti, con tanto di titolo. Scrivevo la notte o il mattino, o due giorni dopo, e infine ho deciso, sempre nel quadro dell' analisi, per indispettire il mio psicanalista, di pubblicare quei sogni. Ma era molto difficile, era effettivanlente molto difficile, perché esistono dei tabù da vincere, un sistema di censura. C'era della gente che appariva nei miei sogni e non volevo che vi si riconoscesse o non troppo; volevo che anche se si fossero riconosciuti, gli altri non sapessero troppo bene che era di loro che si parlava. C'è tutta una storia d'amore che si svolge in questo libro ma è nascosta, in ogni caso un po' mascherata per molti. Infine tutto è stato molto salutare perché, quando ho pubblicato il libro, ho smesso di annotare i miei sogni e ho cominciato a parlare col mio psicanalista delle cose che mi riguardavano veramente. Il risultato di questo è stato W o il ricordo d'infanzia, che è un libro molto importante sul piano personale.
Ecco come sono arrivato, per vie molto traverse, a proporre una retorica di sogni, cioè come scrivere un sogno ma non alla maniera dei surrealisti, i cui sogni, molto segnati dal surrealismo, si somigliano tutti e dove la scrittura è talvolta identica. Erano invece sogni molto lunghi, sogni opachi, sogni limpidi, sogni come romanzi, sogni come poesie.


Dove finisce la vita e dove comincia la letteratura? Lo stile romanzesco è per lei un modo di inventare il mondo e l'uomo o di confermare che la vita e la letteratura sono una cosa sola? Raymond Queneau diceva che la letteratura preesiste all'uomo...

La vita è l'insieme delle cose materiali. Tutto ciò che è stato fabbricato dall'uomo da quando esiste con i mezzi di comunicazione, cioè la trasmissione attraverso la parola, attività mentale, l'attività intellettuale. Questo è la vita. E in questa vita esiste un bisoogno continuo che è la produzione di finzione, un bisogno che potrei dire universale, anche se non si traduce sempre nella produzione di cose scritte. Può tradursi in danza, in pratiche magiche, in tatuaggi sul corpo, in interpretazioni di ciò che dicono le foglie degli alberi, di ciò che dice il fuoco.
Nel linguaggio, nell'attività umana c'è all'inizio un bisogno di trasmettere queste conoscenze, di conoscere ciò che ci circonda, di giocarvi, è un modo di dominarlo, di interrpretarlo e di sognarci sopra. Tutto questo costituisce la vita e questa attività di scrittura è per me un modo continuo di definirmi in rapporto al mondo nel quale sono, cercando di comprenderlo, di giocarvi, di interpretarlo, di dominarlo con la parola. lo non sono il linguaggio, cerco di contornarlo, o di rifugiarmici per produrre cose che mi divertono, che fanno sì che descrivo cose con godimento.


Gide diceva: «Certi ricordi si accavallano, si urtano, si giustappongono ... ». W o il ricordo d'infanzia costituisce uno scontro di ricordi reali e immaginari; ma la cosa più sorprendente è la descrizione-ricostruzione di un fantasma infantile che è piuttosto un incubo totalitario, un universo concentrazionario. Potrebbe dirci perché ha associato queste due trame in uno stesso libro? Ha pensato, scrivendolo, che un lettore potrebbe, leggendolo, incontrare un certo disagio nella lettura?

L'idea di questo libro è la seguente: c'è da una parte ciò che potrei chiamare la biografia. E questa biografia era occultata, non c'erano più ricordi. La rifiutavo. Per sostituire questo rifiuto, per sostituire questo occultamento, ho inventato una storia quando avevo quindici anni. Ho inventato una storia che era una sorta di W. L'ho inventata, non sapevo per niente in quel momento che quella storia sostituiva la mia storia. E di fatto, molto più tardi, all' età di trenta o trentacinque anni, mi sono accorto che attraverso la storia di W raccontavo qualcosa che era successo a me. E in quel momento avevo la possibilità, soprattutto grazie al lavoro fatto in analisi, di mettere in atto un'anamnesi, di far riapparire i ricordi. Credo che le due parti del libro si inviino luci senza sosta, si illuminino a viicenda, ma mai direttamente.
Penso che quanto succede sia che nella parte di finzione descrivo l'universo completamente inumano che, a poco a poco, diventa un universo molto zelante di campo di concentramento corrispondente alla scoperta che ne avevo fatto io stesso dopo la guerra. Quanto all'altro racconto, parto da una storia che è segnata dall'oblio, dalla scissione, dal taglio e, progressivamente, scopro ciò che mi è capitato e ciò che è capitato ai miei genitori.
Effettivamente si può leggere o solo il racconto autobiografico o soltanto il racconto di finzione, di incubo olimpico, ma di fatto, per me, non sono sganciabili, sono veramente un movimento di andata e ritorno che, credo, corrisponde a questo tragitto che ho commpiuto verso la mia infanzia, verso questa infanzia che davvero rifiutavo.
Non ho pensato che i lettori ne sarebbero stati vincolati. Pensavo che certi lettori avrebbero girato molto velocemente le pagine dell'incubo olimpico per andare a vedere quel che mi era capitato, che altri non avrebbero voluto rispettare questa regola. Ma di fatto è un libro in cui i due elementi sono inseparabili, benché li abbia scritti in modi completamente separati. Ho scritto la storia olimpica molto prima, come un feuilleton, come un romanzo d'avventura. Comincia come un romanzo di Jules Verne: con un battello che se ne va, una storia che si racconta ... poi, d'un tratto, una frattura. Tutto questo era perfetttamente a punto. Ma quel libro da solo, W, aveva bisogno, per me, dei ricordi di infannzia. So che non è per niente evidente, non è dato così; ma quando la gente arriva alla fine del libro, penso che veda dove passa l'articolazione. Penso che capisca che l'importante in questo libro è che esiste tra le due storie un flusso, qualcosa che circola.

Kafka scriveva a Milena: «Entrambi conosciamo in abbondanza esemplari tipici di Ebrei occidentali; tra tutti io sono, per quel che ne so, il più tipico; cioè, esagerando, non ho un istante di pace, niente mi è dato, mi tocca acquisire tutto, non soltanto il presente e l'avveniire, ma anche il passato, questa cosa che ogni uomo riceve gratuitamente in eredità, anche quello devo procurarmelo, ed è, forse, il compito più duro». In che misura le sue origini laiche le permettono di esistere come scrittore?
Credo che questo corrisponda esattamente a quanto potrei ridire per me stesso. Nel libro che scriverò sulla storia della mia famiglia, che sto progettando da molto, potrei mettere esattamente questa frase come epigrafe. Quando dico che niente mi è dato, che mi tocca acquisire tutto, è quel che scrivo alla fine di Specie di spazi. Non ho casa, né famiglia, né granaio, come si dice, non ho radici, non le conosco. Sono andato nel villaggio, culla della mia famiglia, come si suoI dire, ma non c'era niente da ritrovare ... E qanto cerco attraverso la scrittura è di lasciare tracce della mia memoria. Da qui, forse, la mia passione per i dizionari; perché i dizionari sono la memoria degli uomini.


L'intervista ha avuto luogo il 5 aprile 1981 a Varsavia, nella sede della rivista «Literatura na Swiecie». Apparsa in «Littérature», n. 7, Paris printemps 1983. Traduzione di Elio Grazioli.
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