Riga n.
Alberto Arbasino
Massimo Cacciari
La soglia di Valentini

Un Angelo della Terra viene ad annunciare. La Terra, dai suoi crateri, dalle sue zolle, dai suoi vortici, sembra esprimere un segno, far cenno a qualcosa. O non si tratta piuttosto di un segno, cui nessun significato corrisponde? di un segno che in nessun modo ci è rivolto? Quella spirale indica un luogo, l'ombelico di un luogo, o è la rovina di un fossile? Quelle «soglie», che formano nel prato una breve radura, ricordano una via, il pavimento di una dimora, o non rappresentano che un improbabile caso tra gli infiniti casi della Terra? E poi, forse che i nostri stessi vasi, focolari, ciò che indubitabilmente ci pare il nostro muro e la nostra casa, non è anch'esso destinato dalla Terra?
Valentini non ricerca l'«originario»; egli mostra questa irriducibile ambiguità: cratere è il vaso modellato dal technites - cratere è la ferita della Terra; indistinguibili il muro e la zolla, le terre e i segni. La poiesis è uno dei casi della Terra. In ciò consiste il suo «duraturo»: nel suo vincolo indistricabile con il «focolare». Il «poeta» può librarsi sopra il dorso del cielo al seguito degli dèi e di nuovo precipitare, attraverso infinite rivoluzioni - ma sempre rimarrà Estia nella sua casa. Nessuna fatica, nessun dolore, nessun vizio possono alterarla. Nessuna violenza la colpisce
In questa casa vive il «serpente»: questo il suo nido, i suoi campi, le sue colline. Ravvolto in se stesso, non «distraibile» da sé, ecco «il re dell'intrico», « implacabile». Così lo cantò Wallace Stevens - così lo «vide» Valentini. L'«intrico» tra le molteplici forme del nostro fare - che sempre, e con necessità, si credono autonome, capaci di ogni percorso - e la Terra/Estia, «nascosta» ad ogni violenza, impenetrabile a ogni sguardo e per ogni strumento. L'ombra di Estia abbraccia ogni nostra forma, e la sua Legge ogni nostro ordine.
L'opera di Valentini contesta in re la definizione classica di poiesis: passaggio, mediante un' aitia, da ciò che non-è alla Presenza. Nessuna Presenza è in verità più saldamente presente di quel « non-è ». Da tale immemorabile Presenza ogni opera è destinata - e tanto radicalmente da non potersi da essa mai decisamente distinguere. E se il poietés non è mai «libero» da essa, come potrà dirsi aitia, causa di quel passaggio? È il poeta che ha compiuto questa trasformazione, o non era anch'essa già iscritta nelle spire del «serpente»? Si tratta veramente di «trasformazione», o non piuttosto del venire alla presenza di uno degli innumerevoli casi della Terra, prodotto dalla Terra, in quanto tale? Valentini fa cenno alla soglia tra queste due dimensioni - e sulla soglia coincidono, s'intrecciano separazione e unità.
Poiché Valentini non dà forma che a soglie. La mano del poietés costituisce l'orlo estremo della Terra - ma la Terra, a sua volta, non appare che come il punto inattingibile cui muove la « volontà» della mano. Sull'orlo estremo della Terra si rivela un mondo dove il fare è relitto, fossile, vetusto cranio animale, si deposita un mondo corroso, disseccato. Lì è stato portato da un'onda che si è ritirata da tempo immemorabile. In questo luogo atopos si danno incontro la «nostalgia» della mano per il «focolare», che è omphalos, e cioè Buco, Chaos, e cioè invisibile e incorporeo, da una parte, e la stessa mano in quanto destinata espressione della Terra, dall'altra.

Poiché qualcosa appare, non può che apparire a noi, allo sguardo e alla mano. Dunque, nell'istante stesso in cui qualcosa appare, appaiono anche lo sguardo e la mano. Ma questo apparire è sempre l'apparire di «ciò» di cui è proprio il nascondersi. La Terra non può apparire se non come segno, labirinto, impronta. Ma questo apparire appartiene sempre a «ciò» che ama nascondersi, all'immemorabile e all'invisibile. L'apparire della Terra non è la negazione della sua infinita, pura potenza, dell'inattingibile punto del «nascimento», ma neppure può esserne l'intuizione, il coglimento. Nessuna espressione mai «toccherà» il «nascimento». La Terra di cui ne va in queste forme, in questi frammenti, è già iscritta e segnata: materia signata. Queste forme sono inesorabili fenomeni. Il poietés non può «imitare» quella «piastra», semplice ed una, su cui ogni forma è iscrivibile. Ma l'in-differente della pura potenza, del Chaos, è veramente la sua «nostalgia», il senso della sua mano. Ogni movimento della sua mano appartiene a priori a quel «focolare» che sempre è nell'assenza.
Materia signata, certo, quella che qui - su questa riva o soglia estrema - ci si rivela e che il poeta mostra. Ma il suo esser-segnata è opera di chi? Di nuovo: possiamo determinare un'aitia? Possiamo con chiarezza distinguere i meandri della Terra, le spire del serpente dai labirinti di Dedalo, spezzati da Chronos? Come potremmo stabilire tale distinzione se non possiamo afferrare il «nascimento» di queste vie? Un Angelo della Terra viene ad annunciare queste domande. O questa nostra Ignoranza.

Davvero, Valentini è lontanissimo da una ricerca dell' «originario». Lontanissimi ne sono i suoi frammenti, scavati a fatica, risaliti a questa superficie attraverso ogni sorta di ostacoli e Irrwege. Resti di sommovimenti e catastrofi che sono della Terra e del fare. Aionica è la dimensione della Terra che si nasconde, ma cronologica quella di tali sommovimenti e di tali catastrofi. Il cui senso non è riducibile ad alcuna teleologia - ad alcun antropo-teleologismo. Nessuno di questi impenetrabili volti si è formato perché potessimo vederlo o usarlo. Ci è venuto, ora ci si rivela, si annuncia, come l'Angelo, in perfetta gratuità.
La Terra è vicissitudine di tali innumeri rivelazioni. Ed è sull'immenso spazio di questa vicissitudine che Valentini mi pare voglia riflettere. Le sue terre sono così lontane dall'«originario» da esprimere, io credo, piuttosto lo stadio ultimo di una corrosione, di una estenuazione della vis genetrix della Terra. L'aetas che egli percepisce appare fracta, stremata, come giunta al termine assegnatole. Il suo grembo « quae cuncta creavit/ saecla deditque ferarum ingentia corpora partu» (De rerum natura, II,1151-1152) appare come in rovina, le sue vene inaridite. Come non avvertire questo spirito della «malinconia» lucreziana nell'opera di Valentini?
Ma nessuna morte è eterna, come nessuna forma e nessun volto e nessuna opera. Aionico è soltanto l'intreccio di tutti i tempi - il serpente, di cui il focolare e l'ombelico sono icone. Noi siamo costretti a «discorrere» da tempo a tempo, ma vera mente sappiamo che quell’intreccio ci porta, anche se mai potremo, in quanto tale, ad «imitarlo». Così non ci arresteremo allo sfascio dell'età. Queste terre che ora appaiono esauste, stremate da millenarie siccità, sono composte dagli stessi primordia che hanno creato «nitidas fruges vinetaque laeta» (De rerum natura, II, 1157). Crolleranno corrose in rovina le stesse mura del vasto mondo, ma non passerà l’inattingibile forza del “nascimento”. L’invecchiamento estremo della Terra non è che un caso della sua aionica Presenza, del suo essere Aiòn. Questo caso è ben reale, non è fantasma, non è illusione. È ben reale la nostra miseria. Ma la Terra non conosce Penia che non si accompagni a Poros. E la loro unione, anche dalle figure più abbandonate, anche dai corpi più disseccati, farà sempre rinascere Eros.
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