Riga n.
Alberto Arbasino
Paolo Fossati
Serate di Parigi

Apollinaire ambisce ad una sua rivista. La pensa più prossima ad un'officina di attività a cui il lettore dovrebbe partecipare come a lavori in corso, e di tipo un poco particolare (sarà dunque, fatalmente, un lettore addetto ai lavori), che ad una vetrina di proposte già confezionate. Non è il solo a inseguire l'idea che tra il poeta e la sua poesia corra una qualche doppiezza; nel senso che non tutto s'esaurisce in un distacco operativo che induca ad un oggettivo e ben definito altro da sé, il foglio la tela il pentagramma, la lingua il suono il colore, del tutto simili a fatti compiuti. Apollinaire sa che in quel vuoto che il doppio tra le due realtà ratifica abita un'attività fittissima, un gioco ed una ricerca forsennatamente in movimento quanto ombrose, appartate e silenziose. È là che bisogna portare l'attenzione; di più: è là, oltre quel varco, che si svolge la poesia. Le proposte del giorno, le scelte del gusto e del mercato contemporaneo nella rivista ci saranno, non potranno non esserci, ma all'interno di un flusso di notizie e di azioni e fatti che rappresenta la figura che restituisce la complessità di un mondo cui i varii istituti e le attività conducono e che è oltre di loro. Non sono dunque i libri, i quadri e le musiche, i soggetti di ciò che Apollinaire ha in mente, ci sono ovviamente anche questi, come ci sono, direttamente o indirettamente, i critici, i collezionisti, le gallerie, il pubblico, le loro ragioni ed idee, ed espressioni, e, altrettanto ovviamente, i poeti, gli scrittori, i pittori, i musicisti.

Apollinaire ci va pensando da tempo. Ne ha scritto spesso e volentieri; sulle convinzioni che più gli stanno a cuore ha impostata da tempo la sua attività. Una rivista, cioè una vetrina, non può non proporre le proprie merci, cioè i prodotti, le cose, gli oggetti, e quindi dei materiali lavorati ed elaborati, a loro modo definitivi. È vero che la rivista non è il libro, che la sua definitività è relativa, fatta temporale dal tempo di lettura.
La questione che Apollinaire vuol mettere in scena con la sua rivista è relativamente banale. Apollinaire sa che sulle pagine di una rivista, relativamente ai tempi che le sono proprii, quei prodotti sono conclusi e fermi. In movimento è il lavoro di cui sono parte, la ricerca di cui sono esempi.
E qui cominciano le questioni che Apollinaire vuole affrontare: lo scarto fra definitivo ed in corso, fra le complicazioni di lettura e di credibilità dell'opera e il fatto che, da qualche parte, quell'opera è traccia, o segmento, o conseguenza di un flusso di intenzioni, prove, azioni che fan capo, per dirla alla buona, all'autore delle opere. Poesie, quadri, testi hanno un'aura, e metteremo da quelle parti il poeta, lo scrittore, il pittore ed il loro mondo; poesie, quadri, testi in quanto opere, quelle opere che leggiamo, guardiamo, sentiamo hanno perso quell'aura, sono isole di sé stesse. Per usare un linguaggio inutilmente aulico: si offrono come autoreferenziali. E il mondo degli artisti, le loro officine, il lavoro, il mestiere eccetera ecce¬tera? La questione non è sociologica, almeno per Apollinaire, ma di identità, di identità di un mondo. Si possono mettere in vetrina oggetti e flussi allo stesso tempo e modo?

Per restare al poeta della Chanson du mal-aimé, Apollinaire su quella via s'è mosso da tempo e bene; come scrittore d'arte ha prodotto soprattutto cronache, ha presa la via dell'aneddotica: lì, anticipando umori, raccogliendo notizie minime, persino spezzoni minimi d'attività ed intenzioni, scaglie e grumi nelle conversazioni ha dato il meglio del suo lavoro di comprensione e di testimonianza nel movimento segreto e continuo.
Sta proprio lì, per riconoscimento comune, quanto di più nuovo converge nell'azione per l'arte del poeta critico, dal momento che vi ha ottimamente mescolato informazioni, tensioni, cose viste, emozioni sentite, giudizi e descrizioni così da far sentire il rumore e da far vedere i muscoli in movimento e le emozioni in corso, così da mostrare gli operai del settore come api al lavoro, i loro ronzii c gli andirivieni. Né ha fatto distinzioni tra interni ed esterni, tra officina poetica e museo o galleria o sala da concerto, tra atelier e boulevard o caffè. Col risultato, perfino, di mettere alla prova, attraversando la frammentarietà dell'aneddoto, le convinzioni espresse e le scelte in corso, di stanare come ragionamenti, posizioni, dubbi, sincrasie, la continua instabilità di disciplina del mestiere ed effervescenza delle personalità degli autori il clima in cui si mescolano artisti e poeti, critici e letterati.

Tanto per cominciare, che cosa vuol dire mettere in vetrina opere e flussi? Esistono omologie fra i due piani? L'uno è il doppio (specularmente deformato) dell'altro? Valéry ha risolta la questione con un gesto brusco. Sostiene che esiste soltanto il movimento dello «spirito» che procede e riflette, ed imperativamente, s'ingolfa e -col debito narcisismo- si guarda in quanto pensiero; di qui si stacca l'opera (anche eccellente, perfino, se è il caso, squisita) che da quel processo a pezzi, a frammenti, è caduta fuori non per moto ma per inerzia. Si tratta -specifica Valéry con qualche austera altisonanza- di escrementi aurei. Per luminosi che siano questi scarti non solo riducono l'attività poetica alla pura forma della perdita, dell'escremento, ma, contratti come sono in un simile vuoto, non lasciano spazio ad alcun movimento virtuale.
Dunque niente doppi: se mai binari rigorosamente paralleli, per il poeta degli Charmes. E non è facile dargli torto. A suo modo Apollinaire ha cercato di spiegarlo in una singolare parodia di romanzo di ricerca e d'iniziazione che ha per titolo - guarda caso! - Il poeta assassinato. È in gioco, non solo per l'autore del libro, la considerazione stessa della verità della poesia, una volta accettato (come i moderni, da Baudelaire almeno, hanno accettato) che l'arte non è la poesia, ma, più riduttivamente, l'arte si riduce alla parzialità dell'opera, mentre la poesia la trascende e l'abbandona. Se la questione della verità della poesia è quella del varco per entrare davvero nella realtà, per essere nella vita, il varco non è l'opera, il varco è a caso lo strappo nella rete, nella maglia che si svela all'agitarsi quotidiano e continuo improvvisamente spezzata. Il varco nella maglia è qui non per ragioni d'arte (perché qui si trovano i linguaggi, il mestiere le leggi della pittura o della musica) ma perché si dà il caso che gli dèi fossero distratti nel tessere la tela intorno, che la «natura», ad un certo punto, abbia le sue dimenticanze o si permetta delle licenze.

La questione non è presente al solo Apollinaire (e Apollinaire lo sa, ché altrimenti non si porrebbe all'avventura di una rivista). Sa come la possibilità di dire in un altro modo il mondo dell'arte metta in gioco la possibilità di dare notizia di quell'aldilà, addirittura di inscenarlo se non tutto in larga, significativa parte. Di inscenarlo, senza grandi esternazioni polemiche (malgrado i tempi lo vogliano, il poeta degli Alcools non ama i manifesti ed i proclami), come diverso dal previsto, Di raccontarne lo spirito nuovo non come concetto o estetica o filosofia, ma come molteplicità di andirivieni, e mancanze di coincidenze, di possibili ed improbabili; tutto dovrà apparirvi sdoppiato: ma ben coscienti che quel gioco di moltiplicazioni ha un significato operativo, un movimento ed uno slancio assai particolari. Per usare un aforisma recente, di Giulio Paolini, «doppio per me significa più che raddoppiare una volta, vedere in modo di andata e ritorno, di giustapposizione, di prospettiva ad infinitum, di girare intorno».
La scommessa di Apollinaire, perché di una scommessa infine si tratta, è se siffatti andirivieni, e le mancanze non solo di omologie ma di coincidenze, questi possibili e gli improbabili siano non tanto documentabili quanto fotografabili, non rappresentabili (ogni moto in corso è uno spettacolo) ma semplicemente presentabili. Apollinaire parlerà poi di uno spirito nuovo che caratterizza tempi nuovi, i suoi, quelli di una generazione altra, larghissimamente altra dalla precedente. Se il suo alveo, come quello del modernismo in cui lui e la sua generazione (Picasso vi alloggia regalmente) si iscrivono è quella simbolista ora, cultura e ragioni sono mutate.
La sua rivista, una rivista generazionale, sarà una scommessa (l'intera sua opera è scommessa), ma la rivista (che interessa l'esperienza globale che è in movimento come mondo reale) non sarà all'insegna del colpo di dadi caro alla generazione precedente e perciò all'insegna dello sperimentalismo, dell'avventura e del rischio di perdita (ha scritto che il suo è lavoro che coniuga, fonde e non contrappone, l'ordre et l’aventure).


Avventure

Del tardo 1913 è la grande occasione. Finalmente gli è proposta la direzione di una rivista e di qualche importan-za. Ci vorranno alcuni mesi per riorganizzarla, poi si parte. La testata invoca «Les Soirées de Paris». Chi a suo tempo (la rivista non è nuova, ad Apollinaire rinverdirne i non brillanti fasti) ha scelto quel titolo voleva alludere alla vita tumultuante e mondana della capitale, e vaghi, infiochettati e mondani sono stati la rivista ed il suo richiamo per il pubblico. Ora all'autore delle cronache d'arte che hanno lettori attenti e spazi minimi, delle mondanità poetiche, delle interviste a protagonisti ed a emergenti l'editore propone un giro di boa stretto: come il nome pomposo del periodico preannuncia, «Les Soirées de Paris» dovranno offrire le immagini e i preannunci di ciò che le tout Paris sub specie di paradiso artistico propone.

Le intenzioni del novello direttore sono ovviamente altre. Sarà di scena la poesia, e non solo nel senso che si leg-geranno versi, ma nell'altro senso, della poesia come lirica, cioè movimento, flusso, ingorgo, gli arredamenti men-tali di cui l'escremento prezioso dell'opera serba tracce davvero inconcludenti. Saranno pubblicati, avverte, mo-menti poetici che si vanno facendo. Questioni di confine, mescidazioni, alterazioni, sconfinamenti.
Nulla a che vedere con frantumi, anticipazioni o scaglie: per chi s'appresta a riempire i fogli de «Les Soirées» tutto è in gioco ed in modo globale, tutto va visto e sentito a tutto campo «tutto / terribilmente», scrive ad un certo punto in uno dei suoi Calligramma). «Continuité / simultaneité / en opposition / au / particolarisme / et à la / division», cioè la ricerca della costruzione: si tratta di fare i conti con la stessa complessità ed ampiezza della realtà nella cui vita l'arte ha posto, e per muoversi in quell'estensione e complessità in modo complesso ed esteso sono in corso dei lavori radicali, totalitari, misteriosi, continui. (La città sale, constatano intanto fra fatalità e appartenenza i futuristi, con un non diverso senso di stupore di fronte a tanta spinta di energia in corso e di fatalità montante).

Per quanto riguarda le arti figurative, ad esempio, Apollinaire, che ha dalla sua pagine che tipograficamente gli permettono una decente riproducibilità, intende ospitare non gli artisti, le mostre e ciò che in giro o negli ateliers è dato vedere ma ciò che chiama la musica della pittura. Forse perché è pittura che abbonda di chitarre, mandole, flauti e cimbali, ben sapendo (come Severini non manca di pro porre) che questi son strumenti per intonare ben altre armonie che non le dispo sizioni ritmiche degli oggetti nelle nature morte e i ben assortiti teatrini che esibiscono.

L'intento più interessante del progetto, ma anche il più arduo, perciò è quello del tenersi fuori dal non finito, dai semi lavorati, dalle sperimentazioni, dalle ricerche e prove di stile. Cioè dai clichés, dalle formule. E che poi siano formula di ciò che è solo parzialmente formato, clichés di frammenti, di oggetti non finiti e di semi risultati non cambia l'ambiguità della proposta. Proprio a questa ambiguità Apollinaire vuole sottrarsi. Perché ci si intenda Apollinaire stampa la sua Lettera Oceano, un testo che vuole essere poesia azione o addirittura poema evento: un modo non solo di scrivere, quanto di agire, che chiama calligramma.


Nature Morte

Sotto la direzione del poeta escono non molti numeri de «Les Soirées de Paris”. L'insuccesso è franco; questa rivista dalla vita grama, che passa inosservata nelle cronache degli avvenimenti più vistosi, è uno dei punti di riferimento, e non solo per la vita artistica di quegli anni. Diventa un dato significativo altrove e anche dopo il tempo che le vetrine dei librai le assegnano. Quanto Apollinaire stampa sulle pagine de «Les Soirées de Paris» - opere di Picasso, Braque, Matisse, Derain (di cui si è riprodotta un'importante esercitazione su Biagio di Antonio, conservata al Louvre, un recupero del Derain di oggi nel lavorio che impone l’umiltà della copia di un quadro del passato), Rousseau, Picabia, Gleizes - è, come l’autore del prossimo Poeta assassinato ha promesso, davvero singolare, vistosamente singolare. Non si tratta della singolarità promossa dal sentirsi originali attraverso il nuovo, si tratta di materiali che maturano in uno spazio che non è quello della produzione per il mercato, e che dunque non appartengono alle ragioni ufficiali, definite, per cui ognuno degli artisti in questione è riconosciuto, esiste, può parlare.

Valga il caso delle nature morte di Picasso, riprodotte nel fascicolo che porta la data del novembre 1913, ma che sarà in libreria solo più tardi. Sono degli assiemi di materiali diversi - carta, stagnola, rete metallica, giornali, elementi grafici, legni - attaccati o disegnati sul battente della porta dello studio. Plasticamente risolti, non sono asportabili. Composizioni talmente fuori dei giochi e delle attese, che è perfino difficile definirle delle opere, se con questo termine ci si riferisce ad un oggetto definito, autonomo, trasmissibile. Aggeggi scandalosi, proposti in ma¬niera scandalosa. Perché vuole essere scandalosa sui fogli de «Les Soirées» la loro didascalia.

Appartengono, è stato scritto, ad una sorta di terra di nessuno tra pittura, scul¬tura, bricolage domestico. Terrain vague, campo di nessuno, si badi bene, rispetto a generi standard, o a modi fortemente formalizzati. In cui cioè la nozione prestabilita di artisticità, di stilismo non ha presa. Mentre gioca un ruolo non banale l'altro aspetto della questione, l'intenzione e con lei l'avvalorarsi del valore poetico. Una volta fotografati quei non luoghi e non sensi (perché di questo si tratta: di non sensi rispetto al senso formale ed al significato artistico consueto), in quanto originali mancati andranno perduti. Mentre restano, e il nostro pittore li conserva
gelosamente, i reperti fotografici. Quelli che consegnerà ad Apollinaire perché li riproduca come singolari su «Les Soirées de Paris».

Non sappiamo quanto Picasso conoscesse delle opinioni di Rodin sulle questioni dell'arte. A Parigi se ne parla da tempo, fanno opinione, esaltano la polemica: proprio ora, 1911, sono raccolte in volume grazie a Paul Gsell. Rodin, in particolare, polemizza con l'idea di una qualche rappresentazione del movimento. Ce l'ha con la pretesa diffusa che l'indeterminatezza che suggerisce ciò che nella figurazione dell'opera appare e non appare determini una cinematica della percezione capace di svelare, o intuire oltre l'oggetto scolpito. Cioè ciò che si nasconde tra un momento e l'altro del tempo d'esecuzione, tra una posizione e l'altra percepita, tra un'immagine e l'altra assestata. Insomma, gli intervalli altro non sono se non risorse stilistiche, o strategie plastiche.
Rodin, e con fortuna, si pone nelle discussioni sull'arte che a Parigi come in Germania sono accesissime, contro la trasparenza non determinata dall'opacità del¬l'opera: sostiene a fondo quell'opacità, la sua non attraversabilità e quindi difende l'evidenza della presenza dell'oggetto. La polemica si fa violenta proprio allorché entra in gioco la fotografia: alla quale tocca riprodurre l'evidenza e non inseguire le utopie dei Muybridge o dei Marey che riprendono un corridore all'opera e cercano, oltre, attraverso, al di là del corridore in azione, del cavallo al galoppo, il movimento in sé stesso e quanto attraverso la sua obiettività è dato scoprire.


Fotografie

La fotografia occupa, nel lavoro di Picasso, uno spazio non piccolo. È improprio parlare di un Picasso autore di fotografie, alla ricerca di qualcosa di più che dei documenti; dei documenti, in ogni caso, di lavoro all'interno di un lavoro che non è finalizzato a singole soluzioni, quanto ad una sorta di quete perpetuelle di Picasso. Un paio di ottime mostre recenti presso il «suo» museo parigino hanno finalmente proposto in termini non di superficiale curiosità questo tema non scontato. Ne viene dalle due rassegne come simili motivi, Picasso fotografo, Picasso e la fotografia, Picasso e la riproduzione fotografica, non colmino solo gli immensi bacini del suo abbondante narcisismo ma lo rassicurino sul piano dell'artista che si guarda, che può vedere sé stesso che riesce, infine, a vedere il proprio lavoro, a distanza, oltre il punto di vista che sul cavalletto gli fornisce l'opera in corso, Picasso deve essersi divertito e ancor più incuriosito a vedere fotografate le sue esercitazioni sulla porta di casa. Si è accorto che i due stadi del gioco (ed è un gioco, in senso stretto, nella meno delle metaforiche condizioni) a comporre sulla porta dello studio, il fare e il vederlo riprodotto, rivelano una condizione del suo lavoro su cui continua ad affannarsi e cui non gli sembra mai di riuscire sostanziosamente ad approdare.

Aiutiamoci con una testimonianza non picassiana e non centrata su Picasso. Ugo Mulas è stato un grandissimo fotografo proprio perché ha ripreso per sé l'esigenza novecentesca del guardare, con l'opera che fotografava, dentro ed oltre quel manufatto. Lo è stato perché ha cercato, nella riproduzione di opere di pittori e scultori che gli erano affidate, la ridondanza (l'aura? ovvero lo shock?) di quel flusso c quel movimento che delle opere sono il movimento di installazione e lo scatto di fruizione virtuale. Il prima ed il dopo. Mulas, cioè, ha riproposto, foto dopo foto, un argomento non da poco, che la storia dell'oggetto, la sua dinamica non ne sono la morfologia né la forma.
Raccontando questa sua preoccupazione a far la «storia» degli oggetti cosi do esser partecipe della loro sdoppiabile dinamica Mulas si trova a scrivere che «il fotografo, quando lavora gira intorno all'oggetto del suo discorso... e quando finalmente decide di impossessarsene, fotografandolo, non avrà espresso che una parte del suo pensiero». Mulas cita un etologo di significativa autorità, Otto Kohler, per spiegare la faccenda: «anche usando le parole l'immagine del pensiero può solo trasparire, non mostrarsi nella sua medesimezza».


Questioni di etologia?

A guardare le fotografie proposte da Apollinaire sulla rivista balza agli occhi (non solo metaforicamente, quanto in termini di concretezza visibile) come vi passi in primo piano non la figura della «natura morta» (quella figura che garantisce al manufatto, al quadro di esser quella cosa lì: legalmente, una natura morta) ma la sua esecuzione. La figura che abbiamo dinnanzi si complica ed arricchisce con l'evidenziazione dell'immagine delle suggestioni gestuali, dell'operatività dei gesti compiuti che inventano e creano gli oggetti, che evocano le sagome e segnano i riferimenti, che si pongono a narrare i racconti e ad accentuare le evidenze che colpiranno lo spettatore.
Viene in scena, cioè, è di scena la manipolazione dei materiali e la relativa disciplina e magia evocatrici. La magia fa saltare il piano puramente, astrattamente tecnico. Clownescamente, la prestidigitazione sottrae qualcosa ad un mestiere completamente ricoperto ed assorbito dal piano di composizione estetico. Il clown, sostiene Soffici, attentissimo alla questione, è un operatore di moderne mitologie.

Usando colori corde carte e quant'altro gli capita di avere sottomano di non convenzionale tra gli strumenti del suo mestiere Picasso può far trasparire un atteggiamento operativo, e non soltanto mostrare qualche figura formata, che pure è questione che gli sta a cuore. Al punto di ricucire (in senso proprio, non metaforico, da bravo sarto) una contiguità fra dentro e fuori, fra spazio dell'opera e spazio del pittore che si presenta come un'ulteriore creazione.
E, come non bastasse questa sostituzione di senso, ecco che il pigmento foto. grafico, la distribuzione regolare della luce senza tensioni particolari prestabiliti rendono compiuta la composizione fotografata in una visione stralunata, come accade a ciò che non è pittura né scultura, che si sottrae ai formalismi del linguaggio e non solo non perde in poesia, anzi le guadagna la singolare energia che viene dalla capziosità dei colori e delle luci della pura e semplice struttura fisica della composizione, al di qua dell'intervento pittorico tonale.

Apollinaire rende omaggio al «singolare» Picasso. Pubblica quelle fotografie. Proclama la singolarità del lavoro picassiano. Non perde tempo con formule inu¬tili come la novità o l'originalità. Non accompagna l'operazione con uno scritto di spiegazione, lascia che queste «opere» picassiane che opere non sono se non nello studio del pittore ed in queste riproduzioni male inchiostrate parlino da sole. Introduce un solo elemento «critico», una sola avvertenza per l'uso corretto di siffatti materiali. Attira l'attenzione del lettore attraverso le didascalie, che parlano di nature morte. Si tratta di un termine assolutamente canonico che, come ogni lettore appena informato è in grado di sapere, indica non tanto un certo tipo di composizione di oggetti o di forme, quanto il quadro che quella composizione offre. Indica non tanto il genere quanto l'opera che ha realizzato il genere.

Anche i lettori più distratti de «Les Soirées» (ammesso, a questo punto che «Les Soirées« possano prevedere lettori distratti) anche hanno presente il fatto che natura morta non è un concetto o una rubrica in un manuale (di estetica, di storia accademica) e neppure una indicazione di pratica di una maniera, ma un tipo di quadro. È un dato pacifico: la compitezza, l'autonomia e l'assolutezza dell'icona in questione lo affermano. Sono delle opere, dei fatti. Invece qui di esercizi e prove ed estri, inconclusi, provvisori, relativi ed in progresso, d'avventura si tratta. Proprio il moto in divenire, euristica o gioco che sia, nega alla natura morta il diritto d'esser natura morta.
E se si vogliono proporre delle ricerche non di frutta o di varia paccottaglia, e dunque non di cose quanto di forme ognun sa da tempo che siffatte proposte hanno un loro nome, ben diffuso in ambito cubista. Si chiamano rilievi. Con un'allusione non più al work in progress di un racconto da raccontare o di un'atmosfera da evocare sibbene a volume, spessore e densità e costrutta immobilità di cui degli oggetti in scena rendono appieno l'evidenza.


I titoli dei quadri

Non è il caso di ricordare che i gesti più estremi in arte si annidano quasi sempre ai margini, là dove meno eclatante appare lo scarto e si sa più attenta la reazione dello spettatore davvero attento (lo spettatore che non solo vede o legge ma partecipa). Per esempio si annidano nei titoli. Che cosa c'è di più estremistico di chiamare con un nome normale ciò che alla norma si sottrae? Apollinaire lo sa e sa che l'estremismo non è lo scandalo; non lo sarà neppure nel caso di Duchamp che proprio in quel tempo piazza per scultura, e per scultura di fontana, un pisciatoio. La questione, sia per Apollinaire che per Duchamp, non è neppure quella di spostare l'attenzione, di invitare a mutare il «punto di vista» degli spettatori. La questione è tutta nel dichiarare, e con energia, la presenza di un'altra esperienza, e realtà. E sensibilità «Noi siamo i primitivi di una nuova sensibilità», stanno affermando i futuristi: di nuovo loro!). Cioè di sostituire una cosa con un'altra, la scultura col pisciatoio, una didascalia con un'altra.
Dunque, lo scandalo di Apollinaire (il sintomo che porta in primo piano) è nelle didascalie: nel fatto che siano delle nature morte delle non opere che attraversano i rilievi e viaggiano verso un'azione aperta che ha tutta l'aria di non avere un inizio né una conclusione: che pretende cioè al continuo. Rientrino pure questi manufatti o giocattoli fra le nature morte, ad Apollinaire non interessa la rottura con una tradizione quanto la libertà di azione e iniziativa che, al di là della tradizione, il genere consente modernamente al pittore o al poeta. Queste composizioni che rampollano in qualche modo dalle nature morte sostituiscono in toto i rilievi dello sperimentalismo (del neoclassicismo, infine) dei cubisti. Lo scandalo della tra¬sparenza va di pari passo con la polemica antiavanguardistica.

In ambedue le nature morte una chitarra ed una bottiglia, su un aereo e pericli¬tante piano d'appoggio. Picasso continua a lavorare come ha fatto fin lì con gli ovali di cui parleremo tra poco. Procede assommando, distribuendo i materiali. Ed usando quei materiali con un gusto di mago che con quattro colpi di mano inventa immagini complicate: un perdersi e sperdersi di metamorfosi, perché la mano non solo cava fuori dal nulla la bottiglia e la chitarra, ma affida alla bottiglia l'immagine del sesso maschile ed alla chitarra quella del sesso femminile. Nella prima riproduzione la bottiglia è suggerita da un'assicella, la gamba d'una sedia sta per il collo; un'etichetta, dei colori-materie integrano i profili componendo gli spessori. La chitarra muove da un disegno, contrapponendosi all'altro oggetto per la sua vistosa bidimensionalità.
Una bacchetta, pericolosamente trasversale, lega l'assieme accentuandone il carattere di precaria stabilità, e dunque di rischio o di provvisorietà. Ma è solo un'impressione logica, lo scompenso. La costruzione è implacabilmente stabile, la distribuzione plastica risolta. Così da restituire un moto di sfida vittorioso, uno sberleffo ironico. Tanto più malizioso, se si interpreta a dovere la natura morta, come scontro dell'elemento maschile e dell'immagine femminile entro la dimensione, in sviluppo, dell'allusività di un racconto che mescola il diario personale dell'autore (che importa se reale o visionario?) con il gusto, appunto malizioso, del doppio senso, del pensiero indecente nascosto e mascherato, quanto evidente.
L'altro esempio è una sorta di sbizzarrita scommessa con carte, cartoncini, piegature, curve e traiettorie. Ancora una sfida più o meno ironica, con qualche ansia perché la sfida dia i suoi effetti, non sia faccenda puramente sperimentale. Con poco o nulla ottenere immagini, plasmare figure, farne teatro e farsene suggestionare.
Picasso, sulla porta attacca delle carte, dei fogli, delle fettucce e quant'altro gli è sottomano in studio. Che crescono, lievitano sporgono invadono. Diventano non solo spazi, superfici, piani, ma volumi, spessori, pencolamenti, diffrazioni dalla superficie. Dal foglio, dalla piega nascono, si moltiplicano, si intersecano ed esasperano la bottiglia, la chitarra, il tavolo, in un fuoco d'artificio che è tanto fuoco d'artificio di un racconto figurativo quanto piacere di suggerire allusioni e strizza. te d'occhio nelle continue manipolazioni. Virtuosismo ed esibizione, soprattutto un momento tutto affidato alle possibilità magiche (o erotiche) dell'autore.


Rilievi
Scrivere, sostiene Virginia Woolf, significa eliminare tutto ciò che è rifiuto, morte, superficialità. Il «ragionamento» picassiano (se vogliamo dire così) è tutto sommato altrettanto immediato e in linea con la cultura più attenta di quegli anni. Dipingere è scegliere grazie al linguaggio pittorico, affidare a quel particolare mezzo codificato la perdita e sacrificare alla ragione estetica determinazioni spaziali, comportamenti spazi ali, gesti, esercizi personali di memoria. Sacrificarli in nome della non indispensabilità. La pittura in luce di artisticità del linguaggio è darsi un obiettivo trascendente, distratto, dittatoriale, un obiettivo pittorico, è perfino compiere una sostituzione. «Ceci tuera cela», tra arte e presenza dell'artista.

La questione è relativamente semplice; dipingere, per Picasso, non vuoi dire solo fare i conti con uno spettro plastico, ma scegliere per sé non una realtà in astratto ma una figura di artista attratto da quella realtà. Dipingere secondo schemi doti non limita solo le sue possibilità personali entro i limiti del linguaggio, colpisce il Picasso artista che smette di essere protagonista, cioè poeta, lirico, per diventare un pittore, e quindi un rivelatore e non un produttore, l'autore non l'attore.


Ovali

Braque e Picasso hanno lavorato assieme, in quegli anni, e felicemente, mescolando gli interventi, incrociando le esperienze. Una eccellente mostra di pochi anni fa ha messo a tappeto sotto gli occhi di tutti noi quei lavori, ed il risultato è stato sorprendente e significativo.
Spesso e volentieri hanno dipinto degli ovali. Sono lavori di singolare ricchezza narrativa, la complessità di figure e di immagini si incastra con incredibile tes¬situra nella icastica dei mezzi pittorici semplificati in termini di forma e di colore.
Non è il caso di ridiscuterne gli importanti risultati, basterà far notare da quali parti del proprio lavoro Picasso collochi i rilievi inchiodati alla porta dello studio. Qui, tra quelle produzioni esposte qualche anno fa, ci interessa dare un'occhiata alle tele di formato ovale: in quegli oggetti, su cui Picasso insiste non poco, la forza formale dell'oggetto, cioè l'inquadernatura ellittica del dipinto, interviene nella costruzione figurativa dando intensità morfologica alle immagini e perspicuità alla loro percezione. Detto altrimenti: l'esibizione del fare ora, gestualmente e fisicamente pittura, e il bisogno fabulatorio di raccontare e raccontarsi s'incastrano perfettamente.

Notiamo almeno un elemento - per nulla secondario - in ciò che Picasso sta facendo: la coincidenza fra l'oggetto quadro (fisicamente, la forma del supporto diventa la realtà stessa dell'operazione plastica) ed il lavoro della pittura cui assistiamo nel quadro, il racconto, la composizione, e così via. In questa coincidenza la tela non è un supporto, lo spazio dell' oggetto non è una finzione. La tela cioè non è una realtà generica, rituale su cui intervenire agendo con le regole, ed i trucchi necessari a rendere persuasiva ed evidente la parte dipinta.
L'oggetto, per la sua forma, agisce naturalmente sulla pittura e la sua percezio¬ne; il quadro non contiene, è quel certo mondo. Il moto che il contorno dell'oggetto forma, cioè il quadro, impone a chi osserva, quel movimento accentua la scomposizione e l'incastro delle forme; il montaggio del racconto, le soluzioni formali non solo non diminuiscono l'attenzione del «contenuto» ma l'esaltano.
Gli ovali di Picasso «raccontano» («Sì... oh dio, sì... il romanzo racconta una storia. Questo è l'aspetto fondamentale di un romanzo senza di cui non potrebbe esistere», proclama felicemente E.  M. Forster). Raccontano e non solo in termini di retorica figurativa, perché mettono insieme certe informazioni e certe figure; raccontano nel senso, invece, che mettono in scena il lavoro fatto per comporli. Non è complicato mettersi alle spalle del pittore e vederne i modi di lavorare.
Negli ovali Picasso racconta; incontri, viaggi, compagnonerie con l'amico Braque, galanterie, avventure. Picasso racconta, e scopre nel suo racconto dipinto, di aver narrato non solo di sé, di Parigi, di amicizie e bordelli, ma del modo di raccontare che ha un pittore alle prese con le proprie avventure, il processo di formazione attraverso il quale carte, legni, pittura e cartoni divengono immagine e racconto. Se diamo retta a Roland Barthes, e non possiamo non farlo, il racconto (letterario, pittorico) non trova la propria ragion d'essere nel rappresentare qual. cosa: è racconto perché mette sott'occhi uno spettacolo, perché dispone in un certo ordine di fronte a noi le componenti dello spettacolo. Con tutte le ambiguità e gli enigmi possibili.

Per questo i lavori di Picasso «sperimentano» (ma il termine, lo sappiamo già, è improbabile, il nostro non è pittore da esperimenti, ma di «trovate», di soluzioni concrete a questioni concrete). Cioè: con gli ovali Picasso fa la sua brava esperienza: e non si tratta di un'esperienza formale, esperimenta non le forme, ma mette le mani nell'utilizzo dei mezzi formali, ne esegue le figure così da porsi ad inseguire sensualità, giocosità e quant'altro. La materialità dei mezzi prescelti rivela l'iden¬tità fisica degli oggetti che Picasso mette in gioco: la bottiglia, il tavolo o la chitarra: al tempo stesso rifluiscono, si trasformano nella suggestione degli elementi grafici, da oggetto si fanno profilo, linea, separazioni, contrapposizioni bidimensionali. L'immaginazione è al lavoro, integra e trasforma l'identità delle forme, le moltiplica, le permuta. Con una fluidità ed energia che hanno del magico.

Picasso a quel punto trova, cioè, per dir così, scopre («Io non cerco, trovo» è un precetto picassiano perfino troppo noto. Dunque non sperimenta, non si dà a cerare: trova, appunto, cioè scopre), come la mobilità della percezione che l'ovale fatalmente impone traduca le forme, gli elementi plastici in atteggiamenti psicologici. (Longhi ha ridotto all'osso la questione: il cerchio è staticità, abbandono, cioè quiete, riparo, stabilità; l'ellisse, l'ovale comprimono, sono l'energia, il movimento, e dunque ripropongono l'azione). Dunque, Picasso può pensare, è possibile narrare malgrado, ovvero al di là dello stile, in presa diretta con uno spazio altro dall'artisticità, dalle regole ed attese del genere pittorico.


Discorsi

Agli intervistatori che gli chiedono notizie della sua arte Picasso fornisce rispo¬ste evasive. «Perché amiamo la notte, i fiori, ciò che ci circonda senza cercare di capirlo? Pure nel caso della pittura la gente sente il bisogno di capire».
Le questioni formali, di stile, non gli interessano. Precisa: «Non riesco a capire l'importanza che si dà alla parola "ricerca" nella pittura moderna. Secondo me cercare non significa nulla, nella pittura trovare è l'espressione giusta».
Parlare di arte (di pittura, di letteratura, di arte, cioè di linguaggi che precedono la poesia) porta male per il catalano, è un atto sostanzialmente iettatorio: vuole dire lasciarsi intrappolare in un sistema, con le sue leggi, le stereotipie, le esagitazioni verso l'originalità. Significa discutere di gesti e di azioni mentre la poesia è altrove. Ragionare di fronte a dei quadri di evoluzione vuol dire castrare l’esperienza di un pittore entro un orizzonte che lo interessa parzialmente, la costringe a procedere - coattamente, senza respiro o licenza alcuna per l'artista - verso un qual che - per lui sconosciuto perché ad esso è indifferente - ideale di pittura. «Tutto ciò che ho fatto era per il presente con la speranza che rimanesse sempre attuale. L'arte è un mestiere; la poesia, direbbe Garcia Lorca, «dà una sensazione di freschezza del tutto sconosciuta che ha la qualità della rosa appena creata, che sa di miracolo e suscita entusiasmo». Dunque, ripete Picasso appellandosi all'autorità di Delacroix (che, ovviamente, si guarda dal citare), «io non cerco, trovo».

La rivista di Apollinaire distinzioni del genere le dava per ovvie; invitava a distinguere artisticità, e dunque estetica, da ciò che la pratica pittorica ovvero poetica, strumentale, inerte consente di intravedere: che non è l'arte ma la poesia. Su questo punto quella di Picasso appare un'ossessione, dice, ripete, insiste, ribatte. Si dà a precisare che va bene l'arte, che è ovvio che lui si ponga alla ricerca della poesia come desiderio preso per la coda, ma il suo spazio totale, continuo, resta la lirica, quella totalità, terribile ma continua, cui Picasso può anche dare il nome di vita (con l'avvertenza, nel maneggiare la «vita», di ricordare quanto a Picasso aveva suggerito l'amico Apollinaire, e cioè che i poeti sono uomini che aspirano a di venire non umani).
«Vita» è il modo più semplice, il meno indigesto per dire, forse infantilmente, tutto: noi ci riprenderemo la vita, promettono Marinetti ed i futuristi. Io mi riprenderò tutto, dice Picasso. Aggredisce il suo interrogante, «non ciò che l'artista fa è quello che conta, ma ciò che è», gli dice. «Ciò che ci attrae con forza in Cézanne è la sua ricerca inquieta: ecco la lezione di Cézanne; il tormento di Van Gogh, ecco il vero dramma dell'uomo. Il resto è mistificazione».
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