Riga n.
Alberto Arbasino
Paul Virilio
L'inerzia del momento

« lo sono stato tutto e tutto è niente» Marco Aurelio

Ho desiderato spesso di soffermarmi sul banale, su ciò che apparentemente è niente o quasi niente, le cose, o i gesti che non si prestano all' attenzione, tutto ciò che si fa, tutto ciò che si osserva per così dire meccanicamente. Quei « niente-del-tutto » che sono la silenziosa maggioranza dei giorni ordinari e che la sola descrizione non restituisce mai, forse perché non si tratta di veri oggetti, e nemmeno di segni chiari, ma piuttosto di una sorta di sfondo sul quale si staglierebbe ogni situazione e ogni designazione di senso, uno «sfondo» che sarebbe anche una sorta di dissolvenza incrociata, quinte dei fatti straordinari, ma soprattutto e in modo ancor più sorprendente, delle consuetudini personali che compongono i riti giornalieri, il senso comune della nostra quotidianità.
Accanto, proprio accanto, qualcosa traspare, qualcosa che pur sottendendo le nostre abitudini, non è assolutamente abituale, ma curioso, misterioso, forse alla maniera di un fenomeno ottico. «Non ci sono dettagli», decretava con insolenza l'Imperatore dei Francesi, quasi a risolvere l'enigma dello stoico romano... Filosofia totalitaria che riassume la modernità burocratica dello Stato, questo aforisma napoleonico non è tuttavia una risposta valida al pensiero di Marco Aurelio. Al massimo vi si presenta una sorta di soluzione di comodo, più precisamente anzi una risoluzione dell'immagine politica che non sarebbe nient'altro che una miopia, soluzione finale di ogni contraddizione, pretesa rivoluzionaria di esattezza scientifica al di là di ogni principio d'incertezza. Arroganza di un potere assoluto che non si accorge nemmeno più della propria relatività, questo discorso è oggi troppo diffuso per non meritare una riflessione, ma una riflessione luminosa, non più quella dell'informatica, ma quella della forma letteraria e poetica; è, credo, il proposito del mio amico Perec.
Tutto è tranquillo e tuttavia: Il mondo come lo conosciamo sta passando! Questo passaggio non è solo quello del livello dell'erosione, dell'invecchiamento o della fuga del tempo, è anche l'effetto di una certa profondità di campo. I rapporti di prossimità si indeboliscono, lo scarto aumenta o si restringe, secondo i casi, il bizzarro diventa banale e il comune, spettacolo. Effetto di realtà, slittamento furtivo, nell'istante l'apparenza diventa la familiarità dello sguardo e il mondo, la sua memoria.
Questione di registrazione dei fatti o se si vuole di «presa di visione», la questione della velocità di selezione diventa quella di una sfilata di eventi ordinari o straordinari che si succedono ai nostri occhi. Cupidigia dell' occhio che opta, o piuttosto «illusione ottica» senza nessun rapporto con la durata e l'estensione del mondo, tutto ciò che si dà a vedere nell'istante dello sguardo non è che l'im-postura dell'immediatezza, l'intempestivo fermo di un convoglio di elementi oggettivi tra i quali si opera la preda bellica de vista.
Idealizzando una gerarchia delle apparenze, tutto un gioco di simulazione delle dimensioni si crea con pregiudizio della relatività del «colpo d'occhio». Preposti all'osservanza di una legge nella quale il luogo e l'occhio si confondono etimologicamente, i nostri occhi si comportano come ausiliari benevoli di una giustizia sempre sbrigativa: le giustizia prospettiva.
Questa non lascia in effetti alcuna possibilità all'infimo, il cruciale vi caccia sempre l'aneddotico. Contratti nella sostanza dell'oggetto contemplato, il tempo e lo spazio subiscono l'incidente di una mira o più precisamente di un controllo a vista. L'immagine rinnova la cosa, ma questa «imago» non è a sua volta che un artificio cinematico in cui l'immagine virtuale si dà come fattuale. Come spiega il meteorologo: «li livello locale è un obiettivo incerto, è su scala globale che bisogna considerare i dati meteorologici, i, nostro tempo è il tempo di altrove, tutto il sistema è a scatole cinesi».
Questo incastro esclusivo è simile a quello del «globo oculare», precipitazione di sequenze visive, tempeste di immagini virtuali, nubi, per noi tutto ciò che permane si assenta, noi siamo sensibili solo a ciò che trascorre.
Se foste ciechi non avreste peccato; ma dal momento che dite: Noi vediamo, il vostro peccato permane!
È dunque sulla «mancanza», sulla buona novella dell'accecamento che dobbiamo orientarci. Messianismo di una rivoluzione del trasporto che sarebbe per prima cosa la rivelazione apocalittica e cinematica della venuta della Fine, noi siamo i balocchi di un'allucinazione collettiva. Visionari ordinari, subiamo la fascinazione di un'illuminazione: quella della velocità. Per noi e solo per noi, il è la verità.
Dopo essere stati scacciati dal Paradiso, la corsa ci caccia dalla terra, nuovo «albero della vita», l'albero-motore apre i nostri occhi sulla nudità, sul deserto del mondo.
I vecchi modi di vita (rurale/urbano) diventano repentinamente allegorici «modi di velocità», la caccia da appostamento vi rinnova la caccia vagante e le astuzie prendono il posto delle trappole, ma siamo noi ad essere cacciati e insieme intrappolati: davanti allo schermo del simulatore, del computer e del televisore, dietro il parabrezza dell'apparecchio automobile, nei quadranti, nei calibri o nei manometri indicatori... Una volta, a guisa di schermo, soltanto la superficie dell' acqua, lo specchio o il dipinto. Come quadrante, la meridiana, la pendola o l'orologio. Per parabrezza, la fine-stra, gli occhiali... Oggi, tutto o quasi succede nella moltitudine delle spie luminose di un trasporto in comune che sarebbe presto diventato una comune trasmutazione delle specie.
Sovraesposto alla luce della velocità, ognuno resta nell'attesa della venuta di ciò che tuttavia non cessa di restare. Ormai, la vista è la vita, ma questa è a doppio-fuoco: quello del sole e quello di questo motore, generatore di velocità e propagatore di immagini, che permette l'immediata prossimità. In effetti poiché non possiamo prendere il sole con la mano più di quanto possiamo mascherare la luce, il giorno della velocità, bisogna che ci arrendiamo all'evidenza: dopo l'orale, dopo lo scritto, la mira rimpiazza il tocco, l’intensa visualizzazione succede al tatto, al contatto del materiale.
Momento di inerzia, tutto è già lì, nella falsa luce di una velocità di liberazione che ci libera effettivamente dai viaggi a vantaggio dell'attenta impazienza di un appuntamento mancato. Tempo morto, paradossale prossimità degli antipodi, dell'estraneo per sempre vicino, il mondo non finisce più di arrivare e noi non finiamo più di aspettarlo.
Questa situazione singolare designa, mi sembra, colui che scriveva appena quattro anni fa: «Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, intoccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati. Luoghi che sarebbero punti di partenza, referenze, scaturigini».
Georges Perec, colui che se ne sta lì, che gioca con misura con lo spazio e il tempo delle parole, al centro assente di una sala di scrittura, l'uomo scrupoloso di un conto alla rovescia della storia degli oggetti e delle cose, del coma superato dei luoghi.


In « L'Are », n. 76, Paris 1979, p. 20-22. Traduzione di Luigi Grazioli.
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