Riga n.
Alberto Arbasino
George Steiner
Contabilità della tortura

È stato soprattutto da parte dei giapponesi che uomini e donne inglesi hanno subìto sistematici trattamenti disumani nel corso della Seconda guerra mondiale. Un numero esiguo di agenti segreti e di commandos perirono sotto le torture della Gestapo o nell'inedia dei campi di concentramento europei. Ma i soldati e il personale medico dell'unità britannica che liberò Bergen-Belsen furono gli unici a testimoniare, nel senso più letterale della parola, sull'ultimo degli inferni, e la loro testimonianza, spesso solo privata, ebbe eco ridotta. Le sofferenze del fiume Kwai o della prigionia birmana ebbero presa immediata: quelle di Sobibór e Birkenau e persino di Auschwitz no.
Azzarderei che sia questa, presa singolarmente, la più profonda dissociazione, nel sentimento e nella percezione comune, tra l'Unione Sovietica, il continente europeo e l'ebraismo americano - molto influente sulla cultura e sulla sensibilità del dopoguerra - da un lato e l'Inghilterra dall'altro. Nella filosofia, nella teoria politica e nella letteratura europea «Auschwitz» rappresenta una rottura inesorabile, una disgiunzione tra la ragione e la speranza. C'è un mondo prima di Auschwitz e uno dopo, una teologia precedente l'Olocausto e una successiva. Fu Franz Kafka, cui perirono in quei campi le tre sorelle e Milena, a prevedere che oggi i titoli di legittimazione dell'uomo si sarebbero trovati sotto processo. Nella migliore delle ipotesi, la sentenza è sospesa o il giudizio pendente.
Nel clima mentale britannico asserzioni di questo genere hanno una risonanza vagamente sensazionalistica, magniloquente e aliena. Esse sono foriere di quel genere d'isteria e di estremismo filosofico-ideologico che induce i filosofi inglesi a ritrarsi da Hegel, da Nietzsche e da Heidegger: così come hanno indotto buona parte del sano gusto inglese a ritrarsi da un Sade o da un Dostoevskij. I venti inglesi non hanno portato cenere dai camini di Treblinka. Si pensi a come, in questo paese, è caduta nel vuoto la breve comparsa in cartellone della Shoah di Claude Lanzmann. Non è erba del nostro orto.
Questa astensione, pubblica e privata, da un tale confronto, denota un continuum d'integrità e di mentalità liberale nella politica inglese. Essa implica una pragmatica determinazione a tenersi saldi a certi principi di decenza e di riserbo, anche nel fantastico e nella speculazione metafisica. L'abisso può dare alla testa. E può anche suscitare un'adulazione sottile, con tendenza a ingigantire (qualcuno, in America in particolare, ha trasformato l'esperienza di Auschwitz in un kitsch facondo).
Ma a giudicarla in negativo, la separazione della coscienza britannica da quello che appare, da Kiev a Manhattan, il fatto più notevole della nostra attuale identità storica, politica e sociale si può definire di un provincialismo spossante. E questo carattere isolano che ha reso così grette, e così casalinghe nei loro convenzionalismi, gran parte della teologia, della filosofia e della letteratura inglesi successive al 1945.
Se c'è una singola voce che possa colmare questo divario, se c'è un singolo testo veramente in grado di far conoscere agli inglesi parte di quella provocazione a Dio e all'uomo, ora e sempre avvincente, che è il mondo di Auschwitz, saranno la voce di Primo Levi e il suo libro uscito postumo, I sommersi e i salvati. E questo perché nella testimonianza e nelle memorie di Levi vi è una calma che ha del soprannaturale.
Primo Levi aveva studiato chimica ed esistono analogie, sia pure indirette, tra la sua sopravvivenza - in quanto scienziato e perciò soggetto utile - sull'orlo dell'inferno e quella registrata nel Primo Cerchio di Solgenitzin. Levi deliberò di tenersi saldamente alla ragione, alla lucida raccolta di indizi, anche di fronte all'inconcepibile e sotto la minaccia dell'annientamento personale. A coloro che arrivavano nel paesaggio lunare dei forni crematori, delle celle di morte per inedia, delle fosse fiammeggianti dove numerosi prigionieri venivano gettati vivi, i militi delle SS dicevano che sarebbe stato meno insopportabile per loro il non sopravvivere. Se fossero sopravvissuti nessuno gli avrebbe creduto: era quella la tortura peggiore. Levi deliberò di sopravvivere e di ottenere credito. Più di ogni altro uomo e scrittore in questo secolo infernale (l'unico che veramente gli stia a pari è il poeta Paul Celan, la cui testimonianza è assai più difficile da penetrare), Primo Levi ha fatto della sua personale sopravvivenza un paragone della nostra attitudine a comprendere. Leggerlo vuol dire esserne letti, ma con una pacatezza tale che dovrebbe trovare una risposta da questo lato della Manica.
I sommersi e i salvati non aggiunge fatti o orrori nuovi rispetto a quelli riportati da Levi nel suo primo capolavoro, Se questo è un uomo. Il libro scaturisce dal convincimento - disperato, ma pudico e quasi incline al perdono - da parte di Primo Levi che la nuova marea montante di libri, film e lavori teatrali sull'Olocausto non ne ha comunicato l'essenza, che ha banalizzato o ambigua-mente appiattito ciò che si trova assai vicino al limite del dicibile, ma che deve essere colto se si vuole che la storia umana abbia il diritto di proseguire.
Il libro analizza ancora una volta il tessuto dello sterminio, la contabilità della tortura. Dice forte e chiara l'ubiquità della fame, una fame così costante da mettere a nudo la bestia anche negli spiriti più complessi e resistenti ai colpi. Indaga, in un capitolo davvero brillante, quali mezzi di comunicazione fossero disponibili tra schiavi-lavoratori di una dozzina di lingue e nazionalità. Tenta, con tremenda imparzialità, di discriminare la violenza con uno scopo - quel modo di picchiare, bruciare e affamare in grado di suscitare, in quei cadaveri viventi, un estremo impeto lavorativo - e violenza inutile, quella inflitta a esseri umani, uomini, donne e bambini indifesi e fuori di sé, per semplice furia o sollazzo contingente.
Marginalmente privilegiato egli stesso e tenuto in serbo per una morte più tarda, Levi analizza la sorte dell'intellettuale a Auschwitz. Enumera gli ovvi svantaggi patiti da coloro ai quali la vita riparata non aveva dato strumenti per commettere le bestialità necessarie a resistere. Sottolinea il particolare piacere provato dalle guardie tedesche e dai loro agenti nel campo a umiliare e disumanizzare quelli in cui essi percepivano residui di buone maniere e illusioni di dottrina. Levi mette in rapporto le complesse interazioni tra i colti e la massa dei deportati con quelle tra credenti e agnostici, tra credenti e atei.
Centrale il capitolo sulla vergogna. Nessun sunto può rendere giustizia alla sua quiete torturata, alla delicatezza dei suoi scorci privati. In un certo senso il sopravvissuto si «vergogna» della sua sopravvivenza. I ricordi lo macchiano, più «offensivi» delle stesse cicatrici. Benché T.E. Lawrence esprima qualcosa di analogo nelle memorie della sua ignominiosa fustigazione, in Levi è reso palpabile il mistero della vergogna, dell'incontro con quanti gli credono ma non riescono a tenersi paghi di questa fiducia. «Perché non siete scappati?» chiedono gli scolari dopo una conferenza di Levi. «La vostra sopravvivenza è pura questione di fortuna» dicono alcuni; è un intervento della Provvidenza, affermano altri. A Levi tutto questo, anche se detto con il più alto senso di responsabilità, suona falso. È del tutto non pertinente: «L'amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza. L'ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; e ancora lo faccio, ogni volta che se ne presenta l'occasione; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato».
Per tutti noi c'è stata, dopo Auschwitz, una sorta di seconda possibilità. Se le grandi potenze avessero dichiarato l'intenzione di fermare i massacri in Cambogia, e non per tortuose ragioni politiche, ma perché nessun essere sano dovrebbe guardarsi allo specchio mentre migliaia di persone vengono bruciate vive nei campi di sterminio, e più di due milioni vengono affamate e pestate a morte alla luce del sole - se la Russia, l'America, l'Inghilterra, la Francia, Israele, sì, soprattutto Israele, - se costoro avessero parlato chiaro e poi agito, la storia avrebbe avuto una svolta. Naturalmente non è andata così. E Primo Levi parla della Cambogia con rinnovato avvilimento.
Poco dopo aver terminato questo libro Levi si è suicidato. Aveva messo a frutto, come nessun altro, un quarantennio circa di tregua. Nell'edizione pubblicata presso Michael Joseph» c'è, a pag. XVII, una piccola svista: in luogo di «fedeltà» leggasi «infedeltà». Trovo che questo sia un epitaffio quasi insostenibilmente appropriato per la nostra epoca. Ma non per Primo Levi.

In «The Sunday Times», 10 April 1988. Traduzione di Domenico Scarpa.
stampa
Ultimi numeri
  • Riga 46 Arne Næss
    Riga 46
    Arne Næss
    a cura di Franco Nasi
    e Luca Valera
  • Riga 45 Giulia Niccolai
    Riga 45
    Giulia Niccolai
    a cura di Marco Belpoliti
    e Alessandro Giammei
    e Nunzia Palmieri
  • Riga 44 Giorgio Manganelli
    Riga 44
    Giorgio Manganelli
    a cura di Marco Belpoliti
    e Andrea Cortellessa
  • Riga 43 Saul Steinberg
    Riga 43
    Saul Steinberg
    a cura di Marco Belpoliti
    e Gabriele Gimmelli
    e Gianluigi Ricuperati
  • Riga 42 Max Ernst
    Riga 42
    Max Ernst
    a cura di Elio Grazioli
    e Andrea Zucchinali
  • Riga 41 Kitsch
    Riga 41
    Kitsch
    a cura di Marco Belpoliti
    e Gianfranco Marrone