Primo Levi
Conversazione con Paola Valbrega
Conversazione con Paola Valbrega
Perché la caratterizzazione geografica ha un ruolo dominante in tutta la sua opera?
Io contesto un po' la domanda. Nei miei primi due libri è fondamentale perché si tratta di resoconti (infatti ho fatto impazzire Einaudi per quella cartina pubblicata nell'edizione scolastica di La tregua). E vero, avrei potuto anche farne a meno, ma corrisponde a un mio schema mentale. Io quando leggo un libro desidero sapere il più possibile sui dati Spazio e Tempo; se mancano le date e i luoghi mi sento frustrato e allora, per rappresaglia, ho fornito i dati il più possibile precisi (mi sembrava essenziale, in sostanza sono delle testimonianze i miei primi due libri, e le testimonianze senza dire il dove e il quando non hanno molto peso) e ho chiesto all'editore che riportasse una cartina per far vedere questo viaggio assurdo: senza una cartina non si vede l'assurdità.
Nei due libri di racconti questa caratterizzazione geografica non c'è, o per lo meno c'è in modo falsato, c'è una falsa determinazione, sempre per questo bisogno interno. Nella Chiave a stella la determinazione geografica ritorna, ma anche qui mi pare che fosse essenziale per definire questo personaggio e far vedere che abita nei cinque continenti e che si sposta con estrema facilità.
E che significato ha la geografia fantastica, mitica o leggendaria, per esempio nelle novelle Piombo e Mercurio e in altri racconti?
Non saprei rispondere diversamente, anche questo fa parte del mio schema menta-le, per cui un racconto che non abbia un dove è amputato e handicappato. Ne ho bisogno io quando leggo e quindi ho tendenza a farlo quando scrivo.
Tra i paesaggi, mi sembra privilegiata la descrizione della montagna, foresta,
bosco... Il mare, l'acqua in generale, quale significato hanno?
La ragione più semplice è che io sono andato parecchio in montagna e poco al mare e conosco poco il mare. Se devo fornire al lettore dei dettagli «marittimi» devo attingere ai libri, non alla mia esperienza che è quasi nulla. Invece da libero cittadino ho visto parecchie montagne sia da alpinista che da turista; poi il mio grande viaggio della prigionia e seguito è stato attraverso le foreste, una sorpresa per un italiano. Se poi ci sono anche delle cause profonde, non saprei dirlo.
L'acqua mi sembra ritorni molto, c'è anche un racconto Ottima è l'acqua...
Sì, ma è un'acqua speciale quella, è un'acqua da chimico, è un'acqua contaminata. Se poi ci sia sotto tutto questo qualche vicenda freudiana, può darsi benissimo: io non ho mai fatto analisi.
Torino: come si riflette nei suoi libri e quali sono altre città importanti?
Anche questo è un dato di fatto. Io sono sempre vissuto a Torino, salvo un anno a Milano durante la guerra. La terza città che viene nella graduatoria è Katowice, perché ci sono stato prima di partire per il viaggio della Tregua, quindi stranamente questa orribile città mineraria è la terza come permanenza.
Quindi mi viene naturale riferirmi a Torino, anche perché non sono in grado di fare dei confronti, non avendo abitato a lungo in altre città. Sono in difficoltà a descrivere altri ambienti urbani all'infuori di quello torinese, per pura ignoranza, per mancanza di input.
Passando dallo Spazio al Tempo, qual è la sua concezione del tempo? Contemplativa o finalizzata a qualcosa?
Contemplativa no. Finalizzata come qualunque altro scrittore, credo. Ma in più c'è una problematica biologica del tempo che mi preoccupa abbastanza, su cui ritorno sovente: il tempo come percezione soggettiva, come tempo «interno». L'ho scritto da qualche parte e più di una volta che il tempo soggettivo è a fisarmonica, cioè non ha un metro di misura preciso; spesso si ha l'impressione che a vent'anni si disponga di un tempo molto più lungo perché si riesce a fare molte più cose, a immagazzinare più nozioni e che il tempo dopo vada sempre più stringendosi, le giornate sono più corte.
Ma forse l'esperienza fondamentale in questo terna è quella di Se questo è un uomo, che è comune a molti altri colleghi di prigionia e anche a chi è stato in prigione, non in Lager e cioè che retrospettivamente si percepivano le giornate come molto lunghe, ma gli anni come corti, in modo abbastanza assurdo. Era lunghissimo arrivare alla fine della giornata, però appena passata il ricordo si appiattiva, si restringeva perché capitavano poche cose, erano giornate tutte uguali l'una all'altra e quindi era difficile distinguere, nel ricordo, un giorno dal successivo. Direi che questo è il tema che ho svolto con più precisione.
Mi sembra di aver notato una certa «frettolosità», una certa inquietudine nei personaggi dei suoi racconti (Vizio di forma e Storie naturali, per esempio nel Versificatore o ne I procacciatori di affari). Cosa rappresenta?
È vero. Ma non so dire perché. Le propongo una spiegazione. Tutti questi racconti io li ho scritti quando lavoravo in fabbrica ed avevo fretta. Avevo fretta in fabbrica perché la vita di fabbrica — in una fabbrica seria come la mia — consiste nell'aver sempre troppe cose da fare; e in più c'era una mia fretta privata perché queste cose le scrivevo non durante le ore di lavoro, ma dopo. Quindi può darsi che si rifletta una fretta mia propria che era costante.
Il tempo atmosferico, secondo lei, riflette lo stato d'animo dei personaggi?
Le posso dire che non ho mai fatto sforzi. Consapevolmente non ho mai distorto il tempo atmosferico to match, per corrispondere allo stato d'animo dei personaggi. Se poi lo abbia fatto inconsapevolmente: quello che è inconsapevole non si può raccontare. Lo scrivere non è un'attività tutta alla luce del sole. Proprio nella prefazione alla Antologia personale che sta per uscire ho scritto qualcosa del genere: il tragitto che va dalla mente alla carta non passa solo per la mano, ma fa dei lunghi giri attraverso chissà quali organi.
Passiamo ora ai personaggi: mi sembra che nelle descrizioni fisiche abbia molta importanza il particolare, per esempio le mani, mentre non prevale né il deforme né l'apollineo, ma piuttosto una ironizzazione del mito della bellezza classica. Perché?
Le posso ancora fornire un tentativo di spiegazione: non sono mai stato bello e da bambino sono stato preoccupato di non essere bello (qualcuno me lo aveva detto). Dagli otto ai dodici anni sono stato abbastanza tormentato da questo fatto. Può darsi che si rifletta in alcuni racconti delle Storie naturali (per esempio La misura della bellezza) dove tutto è ironizzato, anche il mito della bellezza, e c'è un tranquillo intento dissacratorio. Senza dubbio questa mia preoccupazione infantile della bellezza deve aver contato molto.
In quanto alle mani non sempre c'è un'intenzione di sottolineare la manualità e la praticità, per esempio per Faussone è nato a freddo...
Anche nella Tregua e nel Sistema periodico ritorna questo motivo, per esempio le mani «callose» di Sandro Delmastro oppure le mani «abili» di Henek, nella Tregua...
Credo siano elementi secondari. Mi pare di ricordare che quando, da ragazzo, avevo letto Sherlock Holmes mi aveva fatto molta impressione quello che Sherlock Holmes cavava dalle mani dei suoi personaggi. Delle proprie mani si risponde, in qualche misura; registrano più cose che non il viso. Il resto non si vede molto, del corpo: si vedono il viso e le mani.
Le mani parlano di più, questo non è subconscio, è un fatto razionale. Non occorre essere Sherlock Holmes per ricavare dalle mani di qualcuno – secondo quanto sono curate, sviluppate, della differenza fra la destra e la sinistra, di come sono trattate le unghie – molto del personaggio stesso. Quindi penso, a livello abbastanza consapevole, che sia utile descrivere le mani, come guida per chi legge.
Come giustifica la predominanza della realtà animale e la preferenza per gli insetti in particolare?
Questo sì, questo è alla luce del sole; io ho un amore non corrisposto per la biologia e la zoologia; son stato chimico, ma ho sempre letto libri di divulgazione sugli animali. Ma c'è un perché in queste cose, è decifrabile?
So di aver spesso usato gli animali come termini di riferimento, cioè nel descrivere un personaggio di paragonarlo ad uno o più animali, mi ricordo per esempio il Greco (nella Tregua) che ho paragonato a un pesce da preda e a un uccello notturno. Mi viene spontaneo, ma c'è anche un riferimento culturale in questo: l'ho anche scritto su «La Stampa» nell'articolo Lo scrittore e gli animali, l'ho teorizzato addirittura. Avevo letto, negli anni '40 addirittura, un saggio di Huxley, Aldous Huxley, uno scrittore ma di dinastia di zoologi e di biologi (suo fratello, suo nonno, suo bisnonno erano de i famosi fisiologi e zoologi). Questo saggio – che mi ha molto divertito – inizia così: è venuto un ragazzo da me, dicendomi che voleva fare lo scrittore, da dove devo cominciare, chiede il ragazzo a Huxley. Io gli ho risposto: si compri una coppia di gatti e poi stia a guardare cosa fanno. Poi Huxley fa una divertente esemplificazione di cosa fa la gatta quando il gatto torna da una randonnée sui tetti e conclude dicendo: ti serviranno i gatti come esempio perché sono come noi, ma senza coperchio, cioè non hanno inibizioni. Questa gatta quando vede tornare il gatto, tutto pesto, stanco, sporco, dal suo giro sui tetti, lo graffia dal naso alla coda, non gli fa una scenata a voce. Poi Huxley descrive una gatta che gioca coi suoi piccoli e questo fatto mi aveva molto colpito e poi l'ho utilizzato cinicamente, a mia volta: non ho gatti in casa, ma è come se li avessi. Mi diverte molto trovare tutti i riferimenti incrociati tra il comportamento umano e quello animale. Ho letto i libri di Lorenz e li trovo molto notevoli sotto questo aspetto e anche molti altri. E un interesse che ho per un problema così rilevante: per quanto c'è di animale in noi, quanto c'era di animale nei nazisti. Penso ancora adesso che una delle radici del nazismo fosse zoologico: quello che racconta Lorenz di cosa capita a un ratto di una certa tribù che viene introdotto nel territorio di un'altra tribù di ratti è agghiacciante, son le camere a gas insomma.
Venendo ora ai rapporti umani (amicizia, rapporti familiari, amore, profes¬sioni) per quanto riguarda la famiglia ho notato che lei si sofferma di più sul rapporto padre-figlio piuttosto che sul rapporto madre-figlio. Qual è il motivo?
È molto semplice: mia madre esiste ancora, la sente camminare, quindi dei vivi non si parla.
Invece per quanto riguarda l'amicizia ho notato che si tratta di un legame molto importante.
Sì, lo è.
Quasi superiore al rapporto di tipo sentimentale, al rapporto uomo-donna. Anche per questo c'è una spiegazione di discrezione, il rapporto sentimentale per motivi di decenza, di discrezione, di riserbo preferisco tenerlo privato. Quello dell'amicizia è meno delicato.
L'amore spesso è ironizzato o descritto «scientificamente»: il motivo è sempre lo stesso?
Sì, direi di sì.
Ricorre spesso il motivo del lavoro come specializzazione, il «travail bien fait»: che ruolo può avere?
In parte è esperienza mia, perché io ho fatto un lavoro che mi piaceva, quello del chimico, così anche quello dello scrittore, che mi piaceva. Così mi sono trovato bene a fare l'uno e l'altro, contro un'esperienza frequente e violentemente teorizzata nel Sessantotto che il lavoro, per definizione, non deve essere piacevole, deve essere punitivo. La Chiave a stella è nata di qui in sostanza, è nata da questo mio disaccordo con una tesi estremistica che il lavoro è il grande nemico. Può non esserlo, qualche volta lo è, è chiaro, ma non necessariamente. Si può far molto per evitare che il lavoro sia punitivo; non è che la società sia la colpa di tutto.
Il lavoro manuale è come una contrapposizione all'astrattezza libresca, scolastica?
Sì, lo è. Rispecchia anche questo un disagio che ho provato e che anche ho descritto nel Sistema periodico. Il disagio del liceo, del ginnasio – anche se al ginnasio si è ancora dei bozzoli. Al liceo ero sensibile a questo fatto, insieme ai miei amici di allora (che sono anche gli amici di adesso – io sono fedele nelle amicizie) abbiamo sofferto questa privazione. Allora non si faceva e non si pensava neanche ad un lavoro manuale serio (come neanche adesso). Il capitolo Idrogeno nel Sistema periodico è abbastanza rappresentativo di questo stato d'animo, cioè che dovessimo andare a cercare noi il lavoro manuale, pratico, il confronto con la materia, che invece veniva affrontata in termini greci, in termini indecifrabili nel corso di filosofia, lo hyle. Era una cosa che mi lasciava completamente affamato e vuoto. Insieme a questo gruppo di amici di allora – che in parte ora si è disperso e in parte è rimasto – avevo questo bisogno abbastanza preciso e continuo di verificare coi miei sensi la presenza della materia.
Per quanto riguarda il problema della comunicazione ho individuato due livelli di comunicazione: uno universale e naturale e istintivo, l'altro umano, sociale che crea l'incomunicabilità e la «torre di Babele», cioè la confusione di linguaggi. E vero?
Sì, ma sono complementari. Una delle esperienze del Lager è stata per me quella della mancata comunicazione e mi ha molto colpito il fatto di non averlo trovato in altri libri (io leggo molti libri sulla condizione del prigioniero). Devo dire che ho trovato descritto tutto quello che io ho descritto (la fame, il freddo, i colpi, la paura, la morte, la malattia eccetera) e non invece questo topos della mancata comunicazione. Secondo me ci sono due ragioni in questo: una, mia personale, e cioè io sono uno che ha bisogno di comunicare molto, se non riesco a comunicare soffro, ho bisogno di parlare o scrivere, avere se possibile una comunicazione ad andata e ritorno, ma anche soltanto in andata come quando si scrive, e là, nel Lager, ne ero privo. La seconda ragione è questa: la condizione mia era quella del prigioniero italiano, che era particolarmente disagiata. Tutti gli altri possedevano mezzi linguistici migliori del mio; i prigionieri italiani sono morti quasi tutti subito, per mancata comunicazione – questa è una lacerazione che non ho mai trovato fatta da altri – ma era un dato vistoso: il fatto di non capire e di non farsi capire voleva dire morire presto. Era una mutilazione che io ho sentito in modo pauroso e anche gli altri italiani che erano con me, ed era una mutilazione italiana, solo i greci erano altrettanto handicappati (ma i greci ormai non c'erano più a quell'epoca ed erano dei superstiti quelli che se la cavavano). Quando io sono entrato ad Auschwitz gli italiani erano proprio lo zimbello del Lager, li chiamavano «le due mani sinistre», erano gli intellettuali e non parlavano né il tedesco né l'yiddisch né il polacco, quindi erano dei goffi, degli intellettuali tra virgolette, perché che intellettuale è quello che non si fa capire? Gli altri prigionieri, non solo le SS e i Kapos, prendevano in giro gli italiani perché erano tutti avvocati e dottori, incapaci non soltanto di maneggiare una pala ma anche di parlare. Erano degli spauracchi e degli spaventapasseri.
Questo è uno dei temi di Se questo è un uomo su cui ho insistito forse non abbastanza. Sovente ho avuto voglia di parlarne ancora, separatamente, dello spreco che si fa oggi di questo termine di incomunicabilità, di fronte alla vera privazione della comunicazione. Chi va all'estero oggi per ragioni di turismo, di lavoro o altro, è già preparato a questo, sa di trovare dei partners che magari non capiscono l'italiano o il francese o l'inglese, ma che sono pieni di buona volontà e un territorio linguistico comune si finisce di trovarlo. Mentre quell'altra esperienza era di privazione totale.
Io ho studiato tedesco nel Lager per ragioni di sopravvivenza: mi pagavo le lezioni con il pane, proprio da quel Pikolo del Canto di Ulisse.
Il rapporto rousseauiano tra natura e civiltà mi sembra sia importante nei racconti di Storie naturali e di Vizio di forma.
Credo che sia in gran parte ironico questo. E chiaro, è uno dei grandi temi di oggi. Io non sono un ecologo puritano, non credo questo venga fuori, o per lo meno vien fuori per metafora.
Ho notato, per esempio nei racconti Versamina e Verso Occidente, un ribaltamento dell'istinto naturale, una innaturalità derivata, secondo me, proprio da questo rapporto di opposizione tra natura e civiltà.
Non sono sicuro. A livello consapevole, mi piace la natura, mi trovo molto bene nella natura, vorrei vivere come Mario Rigoni Stern che è mio amico e lo invidio quando ci incontriamo; però non soffro a stare in città, sono un animale urbano, un animale ormai addomesticato; può darsi che questo tema compaia, forse in modo non tanto spontaneo, non creda che venga tanto dal profondo. Forse è un ossequio ad una polemica attuale e contemporanea del ritorno alla natura, dell'urbanesimo contaminante.
Un problema che ritorna spesso nella sua narrativa è quello della fame. E preso come simbolo di una degenerata condizione umana che deriva dall’esperienza dal Lager (per esempio nelle novelle Procacciatori d'affari e La nutrice)?
È chiaramente una allusione, una visione retrospettiva mia. Comunque non è specifico: a parte il fatto che ho provato la fame, chiunque legga i giornali sa che un terzo del mondo è sottoalimentato. Non credo che occorra essere stati ad Au¬schwitz perché emerga il problema della fame; non credo che sia un problema specificatamente mio. Ci potrebbe essere un po' di enfasi in più, ma poco.
Venendo ora al tema della morte, per esempio in Se questo è un uomo la morte è violenza, nelle Storie naturali invece è una scelta esistenziale e filosofica. Cosa ne pensa?
Ci sono molti anni fra i due libri. Comunque non esiste una concezione di tipo mistico o religioso. Sono cose che non conosco bene, non sono mai stato religioso, tanto meno mistico. Neanche ad Auschwitz. Ammetto benissimo di essere un «disertore», un uomo consapevole deve pure occuparsi di questi problemi; invece io preferisco occuparmi d'altro. Diciamo pure in modo scandaloso, non mi interessa tanto il tema della morte, preferisco occuparmi delle cose della vita.
Cosa intende per «destino», parola che trovo spesso citata nei suoi libri?
Destino è ambiguo come termine. Può avere un'accezione deterministica, cioè il destino scritto e prescritto, segnato, oppure una accezione indeterministica: il destino è quello che ti aspetta, ma che tu non ti aspetti, quello cui tu andrai incontro, ma non è scritto. Non credo che una di queste due forme prevalga sull'altra, ma io non credo molto a un destino scritto e in questo penso di seguire passivamente il pensiero moderno, oggi pochi sono deterministi. Ce l'abbiamo nel sangue il determinismo, almeno chimici e fisici abituati a prevedere i fenomeni i quali sono un po' contrariati e scandalizzati a non poter prevedere se stessi o i propri vicini di banco. E invece avviene, continuamente avviene di non poter dire non soltanto cosa farà la Germania o il Giappone o l'Unione Sovietica fra cinque anni, ma neppure cosa farà tua sorella, tuo fratello, tua moglie fra cinque minuti e questo è scandaloso, però c'è, e penso che affiori questo sfasamento fra la nostra capacità di prevedere i fenomeni fisici, anche di sfruttarli, di aggiogarli e la nostra incapacità di prevedere il comportamento umano, collettivo o singolo.
Qual è il suo rapporto con la religione in generale ed in particolare con l'Ebraismo?
Di rispetto per i religiosi, e di sostanziale indifferenza. Non mi verrebbe mai in mente di aderire ad una religione qualsiasi, non è un bisogno che io sento. Non è che io sia sempre contento di quello che faccio o che ho fatto, ma tra le mie esperienze ricordo molto bene che nel corso di quella selezione di ottobre che ho descritto in Se questo è un uomo, quando era il mio turno ho sentito un certo bisogno di pregare, ma, mi sono detto fra me, sarebbe una preghiera blasfema, diventare religioso proprio nel momento in cui mi serve, e non l'ho fatto. Mi sono censurato.
Un altro tema importante è quello della memoria. Qual è il valore della memoria: ha sempre un valore etico oppure anche estetico?
E vero che è un argomento che mi sta a cuore. Mi pare che la memoria sia un dono, ma anche un dovere, quindi si è tenuti a coltivare la propria memoria, non si può lasciarla andare in disfacimento.
D'altra parte io ho 62 anni e a 62 anni la memoria si deteriora in modo sensibile e quindi questo è un po' come perdere la forza muscolare o la vista. La terza età comincia dalla memoria. Può darsi che negli ultimi scritti miei si ripercuota questo fatto, questa preoccupazione di non lasciare andare in rovina non soltanto i propri ricordi, ma anche la capacità di immagazzinarne dei nuovi.
E poi c'è, come dice lei, il valore estetico della memoria. Il piacere di ricordare esiste. Esiste e come tanti altri piaceri con l'età si attenua, bisogna fare qualche sforzo per non lasciarlo deperire troppo.
Esiste quasi un mito del Primo Levi indignato che non prova odio verso i nazisti. Fino a che punto l'odio può essere razionalizzato?
Ha ragione lei, è proprio un mito. E una domanda che mi ossessiona. Non so se ha visto l'edizione scolastica di Se questo è un uomo, dovrei ripetermi. In certi momenti quasi quasi mi vergogno di non provare odio, sembra che sia prescritto, sembra che sia concepito come una mostruosità uno che non riesce materialmente a mobilitarsi nel senso dell'odio. Però è proprio così, è vero, è una mia sordità, se vogliamo, una mia amputazione psicologica che era già nota, non so se le può servire, al tempo in cui ero studente ed ero già allora leggendario come Primo Levi che non si arrabbia mai. I miei compagni di scuola cristiani, al tempo delle leggi razziali, avevano notato questo e me lo rimproveravano amorevolmente. Io ero indignato, ma manifestazioni clamorose non le posseggo. Non mi succede quasi mai di perdere il controllo. L'odio in sé, l'ho scritto e lo ripeto, a cosa serve? Si confonde con il desiderio di giustizia, ma son due cose diverse. In sé è mal pilotato, può portare dei danni. Ho detto per paradosso che mi vergogno di non odiare. In realtà mi trovo abbastanza bene così.
Per quel che riguarda le influenze culturali nella sua opera, ho trovato alcuni riferimenti al cinema, scarsi riferimenti alla pittura, ma nessuno alla musica classica. Invece appaiono ampi riferimenti e citazioni di testi letterari.
Le rispondo con un brano del mio prossimo libro, l'Antologia personale: «Trenta autori cavati fuori da trenta secoli di scritti letterari e non sono che una goccia in un oceano, molte omissioni sono dovute ai limiti di spazio, ad una eccessiva specializ¬zazione, alla netta convinzione che la mia predilezione è patologica, è un'incapric¬ciatura, un pallino magari e giustificabile chissà come, intrasmissibile. Altre omis¬sioni sono più grandi, ma derivano da una mia sordità o insensibilità o un blocco emotivo di cui sono consapevole e non fingo. Le inimicizie sono inesplicabili quanto le amicizie e confesso di aver letto Balzac e Dostoevskij per dovere, tardi, con fatica e scarso profitto. Ho omesso altri testi, specie se poetici, per la ragione opposta. Non mi sono sentito di proporre autori stranieri che mi sono cari e che scrivono in lingue che io conosco: Bellow, Lewis Carroll, Heine, perché le tradu¬zioni esistenti mi sembrano riduttive senza che io mi senta capace di farne una nuova e se non ne conosco la lingua come per i lirici greci perché so gli inganni che si annidano nelle traduzioni. In altri casi ancora è certamente entrato in gioco un effetto di soglia, di barriera, si trattava di superare uno sbarramento di lingua di stile di caratteri e di ideologia dopo il quale avrei trovato il terreno piano. Non ho fatto il passo decisivo per pigrizia, per pregiudizio o per mancanza di tempo; se l'avessi fatto mi sarei forse procurato un nuovo amico, avrei aggiunto una provin¬cia al mio territorio meravigliosa per definizione perché ogni terra inesplorata è meravigliosa. Mia colpa devo confessarlo, preferisco andare sul sicuro, fare un buco e poi rosicchiare dentro a lungo, magari tutta la vita, come fanno i tarli quando hanno trovato il legno di loro gusto. Ci sono infine, beninteso, lacune anche più grosse, vuoti senza fondo, che sono vuoti miei di una cultura autogestita, sbilanciata, faziosa, domenicale, anche violentata: niente di musica, niente di figurativo, poco o niente dell'universo del sentimento, tant'è non potevo fingere chi non sono».
Ecco, mi sembra di aver risposto alla sua domanda. Veramente io ho studiato in un periodo difficile, non c'erano le scelte che ci sono adesso, per cui leggere un libro americano era abbastanza difficile, ce n'erano ma pochi.
Per quanto riguarda la pittura devo confessarle che tuttora sono un pessimo «guardatore»: non me l'hanno insegnata e non ce l'ho nel sangue.
Per quanto riguarda la musica, la capivo abbastanza bene, ma poi l'ho abbandonata per ragioni di tempo. Anche adesso mi piacerebbe, ma mi sembra di perdere tempo se metto su un disco.
Per quanto riguarda la narrativa fantascientifica è stato influenzato da qualche autore in particolare?
Non tanto, non ho letto moltissimo e non sono un fanatico della fantascienza. Né come lettore né come scrittore ritengo di essere patito di fantascienza, mi pare che sia degna letteratura di serie B, generalmente, qualcuno anche di serie A. Adesso poi è degenerata.
Questa intervista risale al febbraio 1981, circa un anno dopo avrei discusso la mia tesi. Il relatore, professor Guido Davico Bonino, mi aveva consigliato di e¬sporre allo scrittore i miei dubbi, i quesiti più inquietanti emersi da una schedatura, forse maniacale, sulla quale, successivamente, si era articolata l'ossatura delle domande che avrei rivolto a Levi. Per questa ragione, al momento dell'intervista, alcune richieste un po' insolite lo sorpresero suscitando in lui curiosità, perplessità, anche divertimento, come ad esempio le domande sul mare, sulla bellezza e sul sentimento d'amore. Come si può notare leggendo l'intervista, in alcuni casi mi sono scontrata con la sua profonda riservatezza, quando si trattava di sviscerare problematiche più personali, mentre altrove compaiono il senso ironico e la sua lucida razionalità, schermo protettivo che non era facile infrangere.
Rileggendola, dopo tanti anni, saltano all'occhio soprattutto le ingenuità di una studentessa che cercava conferme o smentite a ipotesi di lettura critica, e quindi un po' pedestremente procedeva secondo una logica precostituita. Mi sembra tuttavia che si possa intravvedere lo sforzo di una interpretazione prevalente-mente letteraria, anche se lacunosa e immatura; e per questo intento specifico è originale rispetto a quelle interviste che allora mettevano a fuoco sempre gli stessi aspetti emergenti nell'opera e nella biografia dello scrittore (l'Ebraismo, il valore della testimonianza, il rapporto scienza e letteratura) rischiando di cadere nel convenzionale e nel noto.
Parti scelte di questa intervista sono state inserite nella tesi di laurea, alla cui discussione Primo Levi intervenne come spettatore discreto e curioso – e per me assai gradito –, animato anche da quel pizzico di diffidenza nei confronti di chi aveva la pretesa di scavare, attraverso i suoi libri, nella sua personalità. (P.V.)
Io contesto un po' la domanda. Nei miei primi due libri è fondamentale perché si tratta di resoconti (infatti ho fatto impazzire Einaudi per quella cartina pubblicata nell'edizione scolastica di La tregua). E vero, avrei potuto anche farne a meno, ma corrisponde a un mio schema mentale. Io quando leggo un libro desidero sapere il più possibile sui dati Spazio e Tempo; se mancano le date e i luoghi mi sento frustrato e allora, per rappresaglia, ho fornito i dati il più possibile precisi (mi sembrava essenziale, in sostanza sono delle testimonianze i miei primi due libri, e le testimonianze senza dire il dove e il quando non hanno molto peso) e ho chiesto all'editore che riportasse una cartina per far vedere questo viaggio assurdo: senza una cartina non si vede l'assurdità.
Nei due libri di racconti questa caratterizzazione geografica non c'è, o per lo meno c'è in modo falsato, c'è una falsa determinazione, sempre per questo bisogno interno. Nella Chiave a stella la determinazione geografica ritorna, ma anche qui mi pare che fosse essenziale per definire questo personaggio e far vedere che abita nei cinque continenti e che si sposta con estrema facilità.
E che significato ha la geografia fantastica, mitica o leggendaria, per esempio nelle novelle Piombo e Mercurio e in altri racconti?
Non saprei rispondere diversamente, anche questo fa parte del mio schema menta-le, per cui un racconto che non abbia un dove è amputato e handicappato. Ne ho bisogno io quando leggo e quindi ho tendenza a farlo quando scrivo.
Tra i paesaggi, mi sembra privilegiata la descrizione della montagna, foresta,
bosco... Il mare, l'acqua in generale, quale significato hanno?
La ragione più semplice è che io sono andato parecchio in montagna e poco al mare e conosco poco il mare. Se devo fornire al lettore dei dettagli «marittimi» devo attingere ai libri, non alla mia esperienza che è quasi nulla. Invece da libero cittadino ho visto parecchie montagne sia da alpinista che da turista; poi il mio grande viaggio della prigionia e seguito è stato attraverso le foreste, una sorpresa per un italiano. Se poi ci sono anche delle cause profonde, non saprei dirlo.
L'acqua mi sembra ritorni molto, c'è anche un racconto Ottima è l'acqua...
Sì, ma è un'acqua speciale quella, è un'acqua da chimico, è un'acqua contaminata. Se poi ci sia sotto tutto questo qualche vicenda freudiana, può darsi benissimo: io non ho mai fatto analisi.
Torino: come si riflette nei suoi libri e quali sono altre città importanti?
Anche questo è un dato di fatto. Io sono sempre vissuto a Torino, salvo un anno a Milano durante la guerra. La terza città che viene nella graduatoria è Katowice, perché ci sono stato prima di partire per il viaggio della Tregua, quindi stranamente questa orribile città mineraria è la terza come permanenza.
Quindi mi viene naturale riferirmi a Torino, anche perché non sono in grado di fare dei confronti, non avendo abitato a lungo in altre città. Sono in difficoltà a descrivere altri ambienti urbani all'infuori di quello torinese, per pura ignoranza, per mancanza di input.
Passando dallo Spazio al Tempo, qual è la sua concezione del tempo? Contemplativa o finalizzata a qualcosa?
Contemplativa no. Finalizzata come qualunque altro scrittore, credo. Ma in più c'è una problematica biologica del tempo che mi preoccupa abbastanza, su cui ritorno sovente: il tempo come percezione soggettiva, come tempo «interno». L'ho scritto da qualche parte e più di una volta che il tempo soggettivo è a fisarmonica, cioè non ha un metro di misura preciso; spesso si ha l'impressione che a vent'anni si disponga di un tempo molto più lungo perché si riesce a fare molte più cose, a immagazzinare più nozioni e che il tempo dopo vada sempre più stringendosi, le giornate sono più corte.
Ma forse l'esperienza fondamentale in questo terna è quella di Se questo è un uomo, che è comune a molti altri colleghi di prigionia e anche a chi è stato in prigione, non in Lager e cioè che retrospettivamente si percepivano le giornate come molto lunghe, ma gli anni come corti, in modo abbastanza assurdo. Era lunghissimo arrivare alla fine della giornata, però appena passata il ricordo si appiattiva, si restringeva perché capitavano poche cose, erano giornate tutte uguali l'una all'altra e quindi era difficile distinguere, nel ricordo, un giorno dal successivo. Direi che questo è il tema che ho svolto con più precisione.
Mi sembra di aver notato una certa «frettolosità», una certa inquietudine nei personaggi dei suoi racconti (Vizio di forma e Storie naturali, per esempio nel Versificatore o ne I procacciatori di affari). Cosa rappresenta?
È vero. Ma non so dire perché. Le propongo una spiegazione. Tutti questi racconti io li ho scritti quando lavoravo in fabbrica ed avevo fretta. Avevo fretta in fabbrica perché la vita di fabbrica — in una fabbrica seria come la mia — consiste nell'aver sempre troppe cose da fare; e in più c'era una mia fretta privata perché queste cose le scrivevo non durante le ore di lavoro, ma dopo. Quindi può darsi che si rifletta una fretta mia propria che era costante.
Il tempo atmosferico, secondo lei, riflette lo stato d'animo dei personaggi?
Le posso dire che non ho mai fatto sforzi. Consapevolmente non ho mai distorto il tempo atmosferico to match, per corrispondere allo stato d'animo dei personaggi. Se poi lo abbia fatto inconsapevolmente: quello che è inconsapevole non si può raccontare. Lo scrivere non è un'attività tutta alla luce del sole. Proprio nella prefazione alla Antologia personale che sta per uscire ho scritto qualcosa del genere: il tragitto che va dalla mente alla carta non passa solo per la mano, ma fa dei lunghi giri attraverso chissà quali organi.
Passiamo ora ai personaggi: mi sembra che nelle descrizioni fisiche abbia molta importanza il particolare, per esempio le mani, mentre non prevale né il deforme né l'apollineo, ma piuttosto una ironizzazione del mito della bellezza classica. Perché?
Le posso ancora fornire un tentativo di spiegazione: non sono mai stato bello e da bambino sono stato preoccupato di non essere bello (qualcuno me lo aveva detto). Dagli otto ai dodici anni sono stato abbastanza tormentato da questo fatto. Può darsi che si rifletta in alcuni racconti delle Storie naturali (per esempio La misura della bellezza) dove tutto è ironizzato, anche il mito della bellezza, e c'è un tranquillo intento dissacratorio. Senza dubbio questa mia preoccupazione infantile della bellezza deve aver contato molto.
In quanto alle mani non sempre c'è un'intenzione di sottolineare la manualità e la praticità, per esempio per Faussone è nato a freddo...
Anche nella Tregua e nel Sistema periodico ritorna questo motivo, per esempio le mani «callose» di Sandro Delmastro oppure le mani «abili» di Henek, nella Tregua...
Credo siano elementi secondari. Mi pare di ricordare che quando, da ragazzo, avevo letto Sherlock Holmes mi aveva fatto molta impressione quello che Sherlock Holmes cavava dalle mani dei suoi personaggi. Delle proprie mani si risponde, in qualche misura; registrano più cose che non il viso. Il resto non si vede molto, del corpo: si vedono il viso e le mani.
Le mani parlano di più, questo non è subconscio, è un fatto razionale. Non occorre essere Sherlock Holmes per ricavare dalle mani di qualcuno – secondo quanto sono curate, sviluppate, della differenza fra la destra e la sinistra, di come sono trattate le unghie – molto del personaggio stesso. Quindi penso, a livello abbastanza consapevole, che sia utile descrivere le mani, come guida per chi legge.
Come giustifica la predominanza della realtà animale e la preferenza per gli insetti in particolare?
Questo sì, questo è alla luce del sole; io ho un amore non corrisposto per la biologia e la zoologia; son stato chimico, ma ho sempre letto libri di divulgazione sugli animali. Ma c'è un perché in queste cose, è decifrabile?
So di aver spesso usato gli animali come termini di riferimento, cioè nel descrivere un personaggio di paragonarlo ad uno o più animali, mi ricordo per esempio il Greco (nella Tregua) che ho paragonato a un pesce da preda e a un uccello notturno. Mi viene spontaneo, ma c'è anche un riferimento culturale in questo: l'ho anche scritto su «La Stampa» nell'articolo Lo scrittore e gli animali, l'ho teorizzato addirittura. Avevo letto, negli anni '40 addirittura, un saggio di Huxley, Aldous Huxley, uno scrittore ma di dinastia di zoologi e di biologi (suo fratello, suo nonno, suo bisnonno erano de i famosi fisiologi e zoologi). Questo saggio – che mi ha molto divertito – inizia così: è venuto un ragazzo da me, dicendomi che voleva fare lo scrittore, da dove devo cominciare, chiede il ragazzo a Huxley. Io gli ho risposto: si compri una coppia di gatti e poi stia a guardare cosa fanno. Poi Huxley fa una divertente esemplificazione di cosa fa la gatta quando il gatto torna da una randonnée sui tetti e conclude dicendo: ti serviranno i gatti come esempio perché sono come noi, ma senza coperchio, cioè non hanno inibizioni. Questa gatta quando vede tornare il gatto, tutto pesto, stanco, sporco, dal suo giro sui tetti, lo graffia dal naso alla coda, non gli fa una scenata a voce. Poi Huxley descrive una gatta che gioca coi suoi piccoli e questo fatto mi aveva molto colpito e poi l'ho utilizzato cinicamente, a mia volta: non ho gatti in casa, ma è come se li avessi. Mi diverte molto trovare tutti i riferimenti incrociati tra il comportamento umano e quello animale. Ho letto i libri di Lorenz e li trovo molto notevoli sotto questo aspetto e anche molti altri. E un interesse che ho per un problema così rilevante: per quanto c'è di animale in noi, quanto c'era di animale nei nazisti. Penso ancora adesso che una delle radici del nazismo fosse zoologico: quello che racconta Lorenz di cosa capita a un ratto di una certa tribù che viene introdotto nel territorio di un'altra tribù di ratti è agghiacciante, son le camere a gas insomma.
Venendo ora ai rapporti umani (amicizia, rapporti familiari, amore, profes¬sioni) per quanto riguarda la famiglia ho notato che lei si sofferma di più sul rapporto padre-figlio piuttosto che sul rapporto madre-figlio. Qual è il motivo?
È molto semplice: mia madre esiste ancora, la sente camminare, quindi dei vivi non si parla.
Invece per quanto riguarda l'amicizia ho notato che si tratta di un legame molto importante.
Sì, lo è.
Quasi superiore al rapporto di tipo sentimentale, al rapporto uomo-donna. Anche per questo c'è una spiegazione di discrezione, il rapporto sentimentale per motivi di decenza, di discrezione, di riserbo preferisco tenerlo privato. Quello dell'amicizia è meno delicato.
L'amore spesso è ironizzato o descritto «scientificamente»: il motivo è sempre lo stesso?
Sì, direi di sì.
Ricorre spesso il motivo del lavoro come specializzazione, il «travail bien fait»: che ruolo può avere?
In parte è esperienza mia, perché io ho fatto un lavoro che mi piaceva, quello del chimico, così anche quello dello scrittore, che mi piaceva. Così mi sono trovato bene a fare l'uno e l'altro, contro un'esperienza frequente e violentemente teorizzata nel Sessantotto che il lavoro, per definizione, non deve essere piacevole, deve essere punitivo. La Chiave a stella è nata di qui in sostanza, è nata da questo mio disaccordo con una tesi estremistica che il lavoro è il grande nemico. Può non esserlo, qualche volta lo è, è chiaro, ma non necessariamente. Si può far molto per evitare che il lavoro sia punitivo; non è che la società sia la colpa di tutto.
Il lavoro manuale è come una contrapposizione all'astrattezza libresca, scolastica?
Sì, lo è. Rispecchia anche questo un disagio che ho provato e che anche ho descritto nel Sistema periodico. Il disagio del liceo, del ginnasio – anche se al ginnasio si è ancora dei bozzoli. Al liceo ero sensibile a questo fatto, insieme ai miei amici di allora (che sono anche gli amici di adesso – io sono fedele nelle amicizie) abbiamo sofferto questa privazione. Allora non si faceva e non si pensava neanche ad un lavoro manuale serio (come neanche adesso). Il capitolo Idrogeno nel Sistema periodico è abbastanza rappresentativo di questo stato d'animo, cioè che dovessimo andare a cercare noi il lavoro manuale, pratico, il confronto con la materia, che invece veniva affrontata in termini greci, in termini indecifrabili nel corso di filosofia, lo hyle. Era una cosa che mi lasciava completamente affamato e vuoto. Insieme a questo gruppo di amici di allora – che in parte ora si è disperso e in parte è rimasto – avevo questo bisogno abbastanza preciso e continuo di verificare coi miei sensi la presenza della materia.
Per quanto riguarda il problema della comunicazione ho individuato due livelli di comunicazione: uno universale e naturale e istintivo, l'altro umano, sociale che crea l'incomunicabilità e la «torre di Babele», cioè la confusione di linguaggi. E vero?
Sì, ma sono complementari. Una delle esperienze del Lager è stata per me quella della mancata comunicazione e mi ha molto colpito il fatto di non averlo trovato in altri libri (io leggo molti libri sulla condizione del prigioniero). Devo dire che ho trovato descritto tutto quello che io ho descritto (la fame, il freddo, i colpi, la paura, la morte, la malattia eccetera) e non invece questo topos della mancata comunicazione. Secondo me ci sono due ragioni in questo: una, mia personale, e cioè io sono uno che ha bisogno di comunicare molto, se non riesco a comunicare soffro, ho bisogno di parlare o scrivere, avere se possibile una comunicazione ad andata e ritorno, ma anche soltanto in andata come quando si scrive, e là, nel Lager, ne ero privo. La seconda ragione è questa: la condizione mia era quella del prigioniero italiano, che era particolarmente disagiata. Tutti gli altri possedevano mezzi linguistici migliori del mio; i prigionieri italiani sono morti quasi tutti subito, per mancata comunicazione – questa è una lacerazione che non ho mai trovato fatta da altri – ma era un dato vistoso: il fatto di non capire e di non farsi capire voleva dire morire presto. Era una mutilazione che io ho sentito in modo pauroso e anche gli altri italiani che erano con me, ed era una mutilazione italiana, solo i greci erano altrettanto handicappati (ma i greci ormai non c'erano più a quell'epoca ed erano dei superstiti quelli che se la cavavano). Quando io sono entrato ad Auschwitz gli italiani erano proprio lo zimbello del Lager, li chiamavano «le due mani sinistre», erano gli intellettuali e non parlavano né il tedesco né l'yiddisch né il polacco, quindi erano dei goffi, degli intellettuali tra virgolette, perché che intellettuale è quello che non si fa capire? Gli altri prigionieri, non solo le SS e i Kapos, prendevano in giro gli italiani perché erano tutti avvocati e dottori, incapaci non soltanto di maneggiare una pala ma anche di parlare. Erano degli spauracchi e degli spaventapasseri.
Questo è uno dei temi di Se questo è un uomo su cui ho insistito forse non abbastanza. Sovente ho avuto voglia di parlarne ancora, separatamente, dello spreco che si fa oggi di questo termine di incomunicabilità, di fronte alla vera privazione della comunicazione. Chi va all'estero oggi per ragioni di turismo, di lavoro o altro, è già preparato a questo, sa di trovare dei partners che magari non capiscono l'italiano o il francese o l'inglese, ma che sono pieni di buona volontà e un territorio linguistico comune si finisce di trovarlo. Mentre quell'altra esperienza era di privazione totale.
Io ho studiato tedesco nel Lager per ragioni di sopravvivenza: mi pagavo le lezioni con il pane, proprio da quel Pikolo del Canto di Ulisse.
Il rapporto rousseauiano tra natura e civiltà mi sembra sia importante nei racconti di Storie naturali e di Vizio di forma.
Credo che sia in gran parte ironico questo. E chiaro, è uno dei grandi temi di oggi. Io non sono un ecologo puritano, non credo questo venga fuori, o per lo meno vien fuori per metafora.
Ho notato, per esempio nei racconti Versamina e Verso Occidente, un ribaltamento dell'istinto naturale, una innaturalità derivata, secondo me, proprio da questo rapporto di opposizione tra natura e civiltà.
Non sono sicuro. A livello consapevole, mi piace la natura, mi trovo molto bene nella natura, vorrei vivere come Mario Rigoni Stern che è mio amico e lo invidio quando ci incontriamo; però non soffro a stare in città, sono un animale urbano, un animale ormai addomesticato; può darsi che questo tema compaia, forse in modo non tanto spontaneo, non creda che venga tanto dal profondo. Forse è un ossequio ad una polemica attuale e contemporanea del ritorno alla natura, dell'urbanesimo contaminante.
Un problema che ritorna spesso nella sua narrativa è quello della fame. E preso come simbolo di una degenerata condizione umana che deriva dall’esperienza dal Lager (per esempio nelle novelle Procacciatori d'affari e La nutrice)?
È chiaramente una allusione, una visione retrospettiva mia. Comunque non è specifico: a parte il fatto che ho provato la fame, chiunque legga i giornali sa che un terzo del mondo è sottoalimentato. Non credo che occorra essere stati ad Au¬schwitz perché emerga il problema della fame; non credo che sia un problema specificatamente mio. Ci potrebbe essere un po' di enfasi in più, ma poco.
Venendo ora al tema della morte, per esempio in Se questo è un uomo la morte è violenza, nelle Storie naturali invece è una scelta esistenziale e filosofica. Cosa ne pensa?
Ci sono molti anni fra i due libri. Comunque non esiste una concezione di tipo mistico o religioso. Sono cose che non conosco bene, non sono mai stato religioso, tanto meno mistico. Neanche ad Auschwitz. Ammetto benissimo di essere un «disertore», un uomo consapevole deve pure occuparsi di questi problemi; invece io preferisco occuparmi d'altro. Diciamo pure in modo scandaloso, non mi interessa tanto il tema della morte, preferisco occuparmi delle cose della vita.
Cosa intende per «destino», parola che trovo spesso citata nei suoi libri?
Destino è ambiguo come termine. Può avere un'accezione deterministica, cioè il destino scritto e prescritto, segnato, oppure una accezione indeterministica: il destino è quello che ti aspetta, ma che tu non ti aspetti, quello cui tu andrai incontro, ma non è scritto. Non credo che una di queste due forme prevalga sull'altra, ma io non credo molto a un destino scritto e in questo penso di seguire passivamente il pensiero moderno, oggi pochi sono deterministi. Ce l'abbiamo nel sangue il determinismo, almeno chimici e fisici abituati a prevedere i fenomeni i quali sono un po' contrariati e scandalizzati a non poter prevedere se stessi o i propri vicini di banco. E invece avviene, continuamente avviene di non poter dire non soltanto cosa farà la Germania o il Giappone o l'Unione Sovietica fra cinque anni, ma neppure cosa farà tua sorella, tuo fratello, tua moglie fra cinque minuti e questo è scandaloso, però c'è, e penso che affiori questo sfasamento fra la nostra capacità di prevedere i fenomeni fisici, anche di sfruttarli, di aggiogarli e la nostra incapacità di prevedere il comportamento umano, collettivo o singolo.
Qual è il suo rapporto con la religione in generale ed in particolare con l'Ebraismo?
Di rispetto per i religiosi, e di sostanziale indifferenza. Non mi verrebbe mai in mente di aderire ad una religione qualsiasi, non è un bisogno che io sento. Non è che io sia sempre contento di quello che faccio o che ho fatto, ma tra le mie esperienze ricordo molto bene che nel corso di quella selezione di ottobre che ho descritto in Se questo è un uomo, quando era il mio turno ho sentito un certo bisogno di pregare, ma, mi sono detto fra me, sarebbe una preghiera blasfema, diventare religioso proprio nel momento in cui mi serve, e non l'ho fatto. Mi sono censurato.
Un altro tema importante è quello della memoria. Qual è il valore della memoria: ha sempre un valore etico oppure anche estetico?
E vero che è un argomento che mi sta a cuore. Mi pare che la memoria sia un dono, ma anche un dovere, quindi si è tenuti a coltivare la propria memoria, non si può lasciarla andare in disfacimento.
D'altra parte io ho 62 anni e a 62 anni la memoria si deteriora in modo sensibile e quindi questo è un po' come perdere la forza muscolare o la vista. La terza età comincia dalla memoria. Può darsi che negli ultimi scritti miei si ripercuota questo fatto, questa preoccupazione di non lasciare andare in rovina non soltanto i propri ricordi, ma anche la capacità di immagazzinarne dei nuovi.
E poi c'è, come dice lei, il valore estetico della memoria. Il piacere di ricordare esiste. Esiste e come tanti altri piaceri con l'età si attenua, bisogna fare qualche sforzo per non lasciarlo deperire troppo.
Esiste quasi un mito del Primo Levi indignato che non prova odio verso i nazisti. Fino a che punto l'odio può essere razionalizzato?
Ha ragione lei, è proprio un mito. E una domanda che mi ossessiona. Non so se ha visto l'edizione scolastica di Se questo è un uomo, dovrei ripetermi. In certi momenti quasi quasi mi vergogno di non provare odio, sembra che sia prescritto, sembra che sia concepito come una mostruosità uno che non riesce materialmente a mobilitarsi nel senso dell'odio. Però è proprio così, è vero, è una mia sordità, se vogliamo, una mia amputazione psicologica che era già nota, non so se le può servire, al tempo in cui ero studente ed ero già allora leggendario come Primo Levi che non si arrabbia mai. I miei compagni di scuola cristiani, al tempo delle leggi razziali, avevano notato questo e me lo rimproveravano amorevolmente. Io ero indignato, ma manifestazioni clamorose non le posseggo. Non mi succede quasi mai di perdere il controllo. L'odio in sé, l'ho scritto e lo ripeto, a cosa serve? Si confonde con il desiderio di giustizia, ma son due cose diverse. In sé è mal pilotato, può portare dei danni. Ho detto per paradosso che mi vergogno di non odiare. In realtà mi trovo abbastanza bene così.
Per quel che riguarda le influenze culturali nella sua opera, ho trovato alcuni riferimenti al cinema, scarsi riferimenti alla pittura, ma nessuno alla musica classica. Invece appaiono ampi riferimenti e citazioni di testi letterari.
Le rispondo con un brano del mio prossimo libro, l'Antologia personale: «Trenta autori cavati fuori da trenta secoli di scritti letterari e non sono che una goccia in un oceano, molte omissioni sono dovute ai limiti di spazio, ad una eccessiva specializ¬zazione, alla netta convinzione che la mia predilezione è patologica, è un'incapric¬ciatura, un pallino magari e giustificabile chissà come, intrasmissibile. Altre omis¬sioni sono più grandi, ma derivano da una mia sordità o insensibilità o un blocco emotivo di cui sono consapevole e non fingo. Le inimicizie sono inesplicabili quanto le amicizie e confesso di aver letto Balzac e Dostoevskij per dovere, tardi, con fatica e scarso profitto. Ho omesso altri testi, specie se poetici, per la ragione opposta. Non mi sono sentito di proporre autori stranieri che mi sono cari e che scrivono in lingue che io conosco: Bellow, Lewis Carroll, Heine, perché le tradu¬zioni esistenti mi sembrano riduttive senza che io mi senta capace di farne una nuova e se non ne conosco la lingua come per i lirici greci perché so gli inganni che si annidano nelle traduzioni. In altri casi ancora è certamente entrato in gioco un effetto di soglia, di barriera, si trattava di superare uno sbarramento di lingua di stile di caratteri e di ideologia dopo il quale avrei trovato il terreno piano. Non ho fatto il passo decisivo per pigrizia, per pregiudizio o per mancanza di tempo; se l'avessi fatto mi sarei forse procurato un nuovo amico, avrei aggiunto una provin¬cia al mio territorio meravigliosa per definizione perché ogni terra inesplorata è meravigliosa. Mia colpa devo confessarlo, preferisco andare sul sicuro, fare un buco e poi rosicchiare dentro a lungo, magari tutta la vita, come fanno i tarli quando hanno trovato il legno di loro gusto. Ci sono infine, beninteso, lacune anche più grosse, vuoti senza fondo, che sono vuoti miei di una cultura autogestita, sbilanciata, faziosa, domenicale, anche violentata: niente di musica, niente di figurativo, poco o niente dell'universo del sentimento, tant'è non potevo fingere chi non sono».
Ecco, mi sembra di aver risposto alla sua domanda. Veramente io ho studiato in un periodo difficile, non c'erano le scelte che ci sono adesso, per cui leggere un libro americano era abbastanza difficile, ce n'erano ma pochi.
Per quanto riguarda la pittura devo confessarle che tuttora sono un pessimo «guardatore»: non me l'hanno insegnata e non ce l'ho nel sangue.
Per quanto riguarda la musica, la capivo abbastanza bene, ma poi l'ho abbandonata per ragioni di tempo. Anche adesso mi piacerebbe, ma mi sembra di perdere tempo se metto su un disco.
Per quanto riguarda la narrativa fantascientifica è stato influenzato da qualche autore in particolare?
Non tanto, non ho letto moltissimo e non sono un fanatico della fantascienza. Né come lettore né come scrittore ritengo di essere patito di fantascienza, mi pare che sia degna letteratura di serie B, generalmente, qualcuno anche di serie A. Adesso poi è degenerata.
Questa intervista risale al febbraio 1981, circa un anno dopo avrei discusso la mia tesi. Il relatore, professor Guido Davico Bonino, mi aveva consigliato di e¬sporre allo scrittore i miei dubbi, i quesiti più inquietanti emersi da una schedatura, forse maniacale, sulla quale, successivamente, si era articolata l'ossatura delle domande che avrei rivolto a Levi. Per questa ragione, al momento dell'intervista, alcune richieste un po' insolite lo sorpresero suscitando in lui curiosità, perplessità, anche divertimento, come ad esempio le domande sul mare, sulla bellezza e sul sentimento d'amore. Come si può notare leggendo l'intervista, in alcuni casi mi sono scontrata con la sua profonda riservatezza, quando si trattava di sviscerare problematiche più personali, mentre altrove compaiono il senso ironico e la sua lucida razionalità, schermo protettivo che non era facile infrangere.
Rileggendola, dopo tanti anni, saltano all'occhio soprattutto le ingenuità di una studentessa che cercava conferme o smentite a ipotesi di lettura critica, e quindi un po' pedestremente procedeva secondo una logica precostituita. Mi sembra tuttavia che si possa intravvedere lo sforzo di una interpretazione prevalente-mente letteraria, anche se lacunosa e immatura; e per questo intento specifico è originale rispetto a quelle interviste che allora mettevano a fuoco sempre gli stessi aspetti emergenti nell'opera e nella biografia dello scrittore (l'Ebraismo, il valore della testimonianza, il rapporto scienza e letteratura) rischiando di cadere nel convenzionale e nel noto.
Parti scelte di questa intervista sono state inserite nella tesi di laurea, alla cui discussione Primo Levi intervenne come spettatore discreto e curioso – e per me assai gradito –, animato anche da quel pizzico di diffidenza nei confronti di chi aveva la pretesa di scavare, attraverso i suoi libri, nella sua personalità. (P.V.)