Alberto Giacometti
Conversazione con Enrico Romero
Conversazione con Enrico Romero
Le notizie che riguardano il pittore Alberto Giacometti c'interessano sempre da vicino. Sta per uscire a cura del critico d'arte Luigi Carluccio, pubblica-to dalle Edizioni Botero di Torino, un nuovo libro di suoi disegni; ha per titolo appunto Le copie del passato. Sono disegni di un genere particolare in quanto si tratta di copie di opere d'arte conosciute, una specie di antologia d'arte vista da Alberto Giacometti in circa duecento riproduzioni. Nei giorni scorsi a Stampa abbiamo incontrato Alberto Giacometti nell'atelier che fu già di suo padre e dove egli lavora saltuariamente quando ritorna al paese natale.
Signor Giacometti, davanti alle bozze di Le copie del passato una domanda viene spontanea: come è nata, quando, questa sua curiosità per le opere del passato e il desiderio, quasi la necessità di copiarle?
Devo dire che quasi tra i primi ricordi della mia infanzia, per quanto posso ricordarmi... ho cominciato a guardare delle riproduzioni di opere d'arte del passato. Siccome mio padre era pittore e aveva un certo numero di libri, ho avuto, all'età, non so, di dieci anni o che, la curiosità di guardare tutto quello che mi cadeva sotto le mani, e molto presto ho cominciato, quasi mio malgrado, ho avuto voglia di copiare i due artisti che m'impressionavano di più e quelli che erano i meglio rappresentati, del resto, nella biblioteca di mio padre: Rembrandt e Diirer. Il primo impulso non so da che cosa veniva in fondo, perché avevo quel bisogno; certo più tardi so che ho sempre copiato le opere del passato che m'interessavano sul momento per vederle meglio: disegnandole si capiscono meglio, e quello è stato il motivo in ogni modo da venti e trent'anni a questa parte.
Dal momento che Le copie del passato è stato pubblicato a l'orino da Botero nel 1967, dopo la morte di Giacometti, avvenuta 1'11 gennaio 1966, l'intervista deve essere stata registrata a partire dalle bozze del volume in uno dei ritorni nei Grigioni nel 1965; poiché nel corso dell'ultimo anno di vita furono numerosi gli spostamenti di Giacometti in occasione di mostre e premi, si può presumere che l'intervista sia stata registrata nel mese di settembre o, in ogni caso, prima del viaggio a New York avvenuto all'inizio di ottobre.
E perché ha dimostrato questa preferenza spiccata per Diirer e Rembrandt?
Fino all'anno passato, posso dire, o fino a quest'anno, non ho mai potuto resistere, quando guardavo qualche cosa, di copiarlo, e questo è nettamente per capirlo meglio. Se ci sono molte più copie di Diirer e di Rembrandt che di altri, è che durante tutta la mia vita in certi momenti mi hanno interessato. L'altro gruppo più rappresentato è certo quello delle sculture egizie, perché certo tra tutte le sculture, a partire dal momento che le ho conosciute verso il 1920 - sì, so che ho comperato un libro, il primo libro sulla scultura egizia, l'ho comperato a Roma nel '20 - e fino ad oggi resta, malgrado tutto, la scultura che forse m'interessa di più.
Forse in questa simpatia per gli Egizi c'è la naturale propensione per forme d'arte che raggiungono, almeno nell'accezione comune, quello che si è soliti chiamare uno stile.
Sì, è quello che penso sempre più, che più una cosa è vera, o somigliante anche - quasi nel senso più diretto -, più è somigliante e più diventa per gli altri quello che si chiama «stile». Perché c'è l'abitudine molto corrente di considerare, per esempio, le sculture romane, i busti romani, come molto veri e quelli egizi come stilizzati, e per la maggior parte della gente sono volontariamente stilizzati. In realtà, so che allora, lavorando dal vero, che sia scultura o pittura, vedo sempre più la somiglianza di qualsiasi testa d'oggi con una scultura egizia che con una romana: il busto romano è molto più un concetto in fondo, non è una visione, è piuttosto un concetto. L'altra scultura che è discretamente rappresentata qua, che è anche una scultura di grande stile, si può dire, è quella dei Sumeri, che mi ha appassionato per anni: so che fu una delle grandi rivelazioni quando nel '23 ho visto le prime cose sumere al Louvre, e durante almeno tutto un inverno sono andato ogni domenica e non guardavo che quelle cose lì. E anche lì, che è un'opera, come l'egizia, che si potrebbe chiamare il più grande stile, sono per me le più vicine alla realtà immediata. E ciò anche per la pittura.
Ad ogni modo negli atteggiamenti ieratici delle figure egizie c'è una specie di sottinteso misterioso, metafisico, che si può trovare per altre vie nella sua pittura. E una sorta di affinità elettiva?
No, io credo che proprio se parliamo delle cose egizie, sumere e bizantine, si potrebbe parlare anche delle opere cinesi e buddiste, che hanno il medesimo grande stile, se si vuole. Per me... mi sembrano più somiglianti nel modo più diretto, più semplice, e non c'entra in nessun modo il fatto che siano più misteriose o metafisiche. Voglio dire, la visione diretta, diciamo quasi: vedo una testa, cerco di copiarla, senza nessun pregiudizio, nessun'idea metafisica, semplicemente per capire la costruzione di una testa; la costruzione stessa mi sembra più vera, e vicino a queste opere tutte le opere degli ultimi secoli, Rembrandt compreso, mi sembrano molto più superficiali.
E questi circa duecento disegni costituiscono allora la somma della sua opera di studio dei capolavori antichi.
Devo dire che, in fondo, queste riproduzioni che abbiamo, non sono che una, credo, minima parte di tutte le cose che ho copiato, perché penso in questo momento alla rivelazione che fu per me verso il '16 o il '17, o anche prima, piuttosto prima ancora, il '15 o che, di tutta la pittura italiana del '400. Mi ricordo benissimo di aver copiato il Pinturicchio e Benozzo Gozzoli e Signorelli - del resto c'è un Signorelli qua - e Cosmé Tura e... circa tutti i pittori di quell'epoca.
I disegni nascono dunque da un incontro più che da una scelta deliberata.
Sì, certo, in ogni modo non è una scelta, è l'incontro con una cosa che non conoscevo e che si rivela, e che immediatamente mi dava una visione più vasta del mondo, dopo tutto. Così so che la scoperta di Raffaello, verso il '16 o il '17 in un libro, è stato un avvenimento per me; più tardi quella di Seurat, per esempio; più tardi le cose delle caverne, che ho copiato, ne ho copiate molte che ho perduto. Poi il bisogno di disegnare e di copiare è cominciato circa nella medesima epoca in cui ho provato il bisogno di copiare io direttamente le cose dalla natura, dunque il mio disegno proprio e le copie sono sempre andate parallele e probabilmente il vero motivo delle copie è per conoscere meglio le cose del passato e per vedere attraverso le cose del passato, veder meglio le cose che ho davanti agli occhi, la realtà. Per esempio, quando ho conosciuto tutte le arti dell'Africa o dell'Oceania, quello che si è prodotto... o dell'America precolombiana, verso il '25 o il '30, lì era tutto un mondo nuovo che si rivelava a me e lì naturalmente ho provato il medesimo bisogno di copiare. In fondo, per vedere fino a che punto queste opere che sembrano talmente stilizzate o inventate assomigliano, malgrado tutto, alla realtà; e perciò penso più che mai che per loro erano naturalmente così vere come per noi sono vere le opere classiche degli ultimi secoli, vero? Ma negli ultimi anni l'interesse per le arti esotiche ha piuttosto perduto di peso di fronte al mio interesse continuo per le arti della nostra civilizzazione.
Approfondendo i capolavori attraverso il disegno, lei, Giacometti, è venuto a delle conclusioni, a delle scoperte?
Lo scopo della copia è di approfondire la conoscenza della cosa, perché si hanno delle sorprese. Per esempio, so che Velazquez a prima vista m'impressionava piuttosto come colorista, quasi come un disegno impressionista, e copiandolo invece, copiando Innocenzo X, ciò che mi risaltava era la struttura, il disegno della testa; copiandolo mi ha fatto vedere un po' meglio tutto il Velazquez, perché adesso Velazquez m'interessa quasi più come composizione, ossia le figure in rapporto a tutta la tela, come in Las Meninas, dove c'è un immenso vuoto nella parte superiore del quadro: la distribuzione e la costruzione della tela m'interessa più del colore, nevvero? Allora lì mi ha aiutato realmente a veder meglio il quadro del quale si trattava.
E per le sculture, qual è stato il risultato delle sue ricerche?
Per la scultura caldea è successa la medesima cosa. La testa di Gudea, per esempio, e tutta la scultura sumera, a prima vista sembra rotonda; soprattutto la testa di Gudea, quello che impressiona a prima vista è che la testa è quasi una sfera. Allora, copiandola mi sono accorto che questa sfera non è realizzata che attraverso delle... quasi dei piani molto accentuati, il contrario della sfera, no? La sfera è l'ultimo risultato di una costruzione che va quasi a angoli diritti: orizzontali verticali, orizzontali verticali, in un modo molto acuto, vero? E lì penso... anche lì, naturalmente, mi è servito a capire perché queste teste mi interessavano. Ed è appunto vedendo che la sfera non diventa sfera che attraverso il suo contrario, che diventa vera... E ciò certo mi ha aiutato nel mio proprio lavoro. Perché, per esempio, ci sono diverse copie di Matisse, che ho fatto dai quadri di Matisse, che è certo uno dei pittori moderni che m'impressionano e m'interessano di più; ma, per esempio, lui aveva fatto una scultura che fa sfera, no?, ma la grande differenza... Ci sono delle sculture, devo dire, di Matisse che m'interessano moltissimo, trovo che è uno dei grandi scultori della nostra epoca, ma quando ha voluto fare una testa, dare uno stile alla testa - e certo influenzato dalla scultura sumera, perché mi ricordo adesso di aver visto copie di... una copia almeno di... Matisse da una scultura numera, non so più in che insieme, è vero -, lì ha creduto di arrivare a fare la sfera senza passare per il suo contrario e il risultato è che, vicino a una testa sumera, quella di Matisse non è altro più che molle.
E, scusi, lei vuoi dirci se tiene molto a queste copie del passato, a questo suo ultimo libro di disegni?
Certo, a un tale punto che è forse il libro che a me interessa di più; dei libri è quello che sono più contento che sia fatto, perché per me è naturalmente un po' tutto il passato fissato. E certo quando prima si parlava di Picasso e de Las Meninas e delle Donne d'Algeri e altre... non c'è niente di comune tra il suo procedimento e il mio: lui parte da opere del passato quasi come pretesto, per farne delle varianti, nevvero?; io ho sempre cercato di copiare nel modo più preciso possibile, senza mai provare a metterci uno stile. mio, e in due o tre disegni soltanto - tra questi, che so?, per esempio, nei due Masaccio, Adamo e Eva scacciati dal Paradiso, e nella Fornarina -, ci sono dei disegni che volontariamente ho trasformato un po', allungandoli, se si può dire; ma non era con lo scopo di allungarli, era che in quel momento lì, da un parte attraverso il mio lavoro personale, d'altra parte attraverso le cose del passato che mi sembravano le più vere, le figure, per esempio di Masaccio, malgrado tutta l'ammirazione che ho per Masaccio, o per Raffaello, mi sembravano troppo larghe, no?, come fatte da un apparecchio fotografico che non sa che è un occhio, vero? Allora, lì ho provato, quasi volontariamente, a riportarle, vedere cosa diventano, se le interpreto, fino ad un certo punto, più liberamente, ma sono quasi i due unici casi dove ho proceduto così.
E tuttavia chi guarda questi disegni non può fare a meno di accorgersi che escono dalla sua penna e che talvolta sono giacomettiani almeno quanto gli altri, come se, quasi ci verrebbe di dire, se Rembrandt o Diirer o gli scultori egizi avessero voluto fare del Giacometti senza saperlo.
Questa naturalmente è una enorme esagerazione, ma ciò detto, è evidente che tutti questi disegni, che siano copie delle cose più lontane una dall'altra, hanno per forza qualche cosa di comune, no?, perché lì, io, come tutti, si è molto limitati, no?, come sono limitato nella mia dimensione: sono alto un metro e settanta e non un metro e settantadue, un naso di una tale forma e una mano così, no?, una sensibilità che non è né più né meno quella che mi è stata data nascendo, eh? Non potrò mai, anche se voglio essere più oggettivo possibile, non potrò mai essere che quello che... esprimere ciò che mi impressiona di più. Dunque è molto relativo, è molto parziale, è molto ridotto: è questo naturalmente che fa, che dà un insieme a tutto il libro. Per esempio, ci sono certi modi di disegnare che per me sono completamente esclusi, perché non corrispondono né alla mia sensibilità né, si potrebbe dire, alla grandezza o alla nervosità, o al contrario, della mia mano, è vero? Lì si arriva al limite delle proprie possibilità. Così è peccato che non ci sia - perché non credo che ci sia - un altro oggi, diciamo, della mia generazione che abbia fatto tante copie di tutte le opere del passato, ma sarebbe divertente se ciò esistesse, se ci fossero due o tre altri che avessero fatto, dalla loro infanzia fino ad adesso, il medesimo lavoro, parallelo al loro lavoro proprio, sarebbe interessante di vedere il risultato.
Trascrizione dell'intervista registrata da Enrico Romero a Stampa nel 1965 per la Radio della Svizzera italiana, che ringraziamo.
Signor Giacometti, davanti alle bozze di Le copie del passato una domanda viene spontanea: come è nata, quando, questa sua curiosità per le opere del passato e il desiderio, quasi la necessità di copiarle?
Devo dire che quasi tra i primi ricordi della mia infanzia, per quanto posso ricordarmi... ho cominciato a guardare delle riproduzioni di opere d'arte del passato. Siccome mio padre era pittore e aveva un certo numero di libri, ho avuto, all'età, non so, di dieci anni o che, la curiosità di guardare tutto quello che mi cadeva sotto le mani, e molto presto ho cominciato, quasi mio malgrado, ho avuto voglia di copiare i due artisti che m'impressionavano di più e quelli che erano i meglio rappresentati, del resto, nella biblioteca di mio padre: Rembrandt e Diirer. Il primo impulso non so da che cosa veniva in fondo, perché avevo quel bisogno; certo più tardi so che ho sempre copiato le opere del passato che m'interessavano sul momento per vederle meglio: disegnandole si capiscono meglio, e quello è stato il motivo in ogni modo da venti e trent'anni a questa parte.
Dal momento che Le copie del passato è stato pubblicato a l'orino da Botero nel 1967, dopo la morte di Giacometti, avvenuta 1'11 gennaio 1966, l'intervista deve essere stata registrata a partire dalle bozze del volume in uno dei ritorni nei Grigioni nel 1965; poiché nel corso dell'ultimo anno di vita furono numerosi gli spostamenti di Giacometti in occasione di mostre e premi, si può presumere che l'intervista sia stata registrata nel mese di settembre o, in ogni caso, prima del viaggio a New York avvenuto all'inizio di ottobre.
E perché ha dimostrato questa preferenza spiccata per Diirer e Rembrandt?
Fino all'anno passato, posso dire, o fino a quest'anno, non ho mai potuto resistere, quando guardavo qualche cosa, di copiarlo, e questo è nettamente per capirlo meglio. Se ci sono molte più copie di Diirer e di Rembrandt che di altri, è che durante tutta la mia vita in certi momenti mi hanno interessato. L'altro gruppo più rappresentato è certo quello delle sculture egizie, perché certo tra tutte le sculture, a partire dal momento che le ho conosciute verso il 1920 - sì, so che ho comperato un libro, il primo libro sulla scultura egizia, l'ho comperato a Roma nel '20 - e fino ad oggi resta, malgrado tutto, la scultura che forse m'interessa di più.
Forse in questa simpatia per gli Egizi c'è la naturale propensione per forme d'arte che raggiungono, almeno nell'accezione comune, quello che si è soliti chiamare uno stile.
Sì, è quello che penso sempre più, che più una cosa è vera, o somigliante anche - quasi nel senso più diretto -, più è somigliante e più diventa per gli altri quello che si chiama «stile». Perché c'è l'abitudine molto corrente di considerare, per esempio, le sculture romane, i busti romani, come molto veri e quelli egizi come stilizzati, e per la maggior parte della gente sono volontariamente stilizzati. In realtà, so che allora, lavorando dal vero, che sia scultura o pittura, vedo sempre più la somiglianza di qualsiasi testa d'oggi con una scultura egizia che con una romana: il busto romano è molto più un concetto in fondo, non è una visione, è piuttosto un concetto. L'altra scultura che è discretamente rappresentata qua, che è anche una scultura di grande stile, si può dire, è quella dei Sumeri, che mi ha appassionato per anni: so che fu una delle grandi rivelazioni quando nel '23 ho visto le prime cose sumere al Louvre, e durante almeno tutto un inverno sono andato ogni domenica e non guardavo che quelle cose lì. E anche lì, che è un'opera, come l'egizia, che si potrebbe chiamare il più grande stile, sono per me le più vicine alla realtà immediata. E ciò anche per la pittura.
Ad ogni modo negli atteggiamenti ieratici delle figure egizie c'è una specie di sottinteso misterioso, metafisico, che si può trovare per altre vie nella sua pittura. E una sorta di affinità elettiva?
No, io credo che proprio se parliamo delle cose egizie, sumere e bizantine, si potrebbe parlare anche delle opere cinesi e buddiste, che hanno il medesimo grande stile, se si vuole. Per me... mi sembrano più somiglianti nel modo più diretto, più semplice, e non c'entra in nessun modo il fatto che siano più misteriose o metafisiche. Voglio dire, la visione diretta, diciamo quasi: vedo una testa, cerco di copiarla, senza nessun pregiudizio, nessun'idea metafisica, semplicemente per capire la costruzione di una testa; la costruzione stessa mi sembra più vera, e vicino a queste opere tutte le opere degli ultimi secoli, Rembrandt compreso, mi sembrano molto più superficiali.
E questi circa duecento disegni costituiscono allora la somma della sua opera di studio dei capolavori antichi.
Devo dire che, in fondo, queste riproduzioni che abbiamo, non sono che una, credo, minima parte di tutte le cose che ho copiato, perché penso in questo momento alla rivelazione che fu per me verso il '16 o il '17, o anche prima, piuttosto prima ancora, il '15 o che, di tutta la pittura italiana del '400. Mi ricordo benissimo di aver copiato il Pinturicchio e Benozzo Gozzoli e Signorelli - del resto c'è un Signorelli qua - e Cosmé Tura e... circa tutti i pittori di quell'epoca.
I disegni nascono dunque da un incontro più che da una scelta deliberata.
Sì, certo, in ogni modo non è una scelta, è l'incontro con una cosa che non conoscevo e che si rivela, e che immediatamente mi dava una visione più vasta del mondo, dopo tutto. Così so che la scoperta di Raffaello, verso il '16 o il '17 in un libro, è stato un avvenimento per me; più tardi quella di Seurat, per esempio; più tardi le cose delle caverne, che ho copiato, ne ho copiate molte che ho perduto. Poi il bisogno di disegnare e di copiare è cominciato circa nella medesima epoca in cui ho provato il bisogno di copiare io direttamente le cose dalla natura, dunque il mio disegno proprio e le copie sono sempre andate parallele e probabilmente il vero motivo delle copie è per conoscere meglio le cose del passato e per vedere attraverso le cose del passato, veder meglio le cose che ho davanti agli occhi, la realtà. Per esempio, quando ho conosciuto tutte le arti dell'Africa o dell'Oceania, quello che si è prodotto... o dell'America precolombiana, verso il '25 o il '30, lì era tutto un mondo nuovo che si rivelava a me e lì naturalmente ho provato il medesimo bisogno di copiare. In fondo, per vedere fino a che punto queste opere che sembrano talmente stilizzate o inventate assomigliano, malgrado tutto, alla realtà; e perciò penso più che mai che per loro erano naturalmente così vere come per noi sono vere le opere classiche degli ultimi secoli, vero? Ma negli ultimi anni l'interesse per le arti esotiche ha piuttosto perduto di peso di fronte al mio interesse continuo per le arti della nostra civilizzazione.
Approfondendo i capolavori attraverso il disegno, lei, Giacometti, è venuto a delle conclusioni, a delle scoperte?
Lo scopo della copia è di approfondire la conoscenza della cosa, perché si hanno delle sorprese. Per esempio, so che Velazquez a prima vista m'impressionava piuttosto come colorista, quasi come un disegno impressionista, e copiandolo invece, copiando Innocenzo X, ciò che mi risaltava era la struttura, il disegno della testa; copiandolo mi ha fatto vedere un po' meglio tutto il Velazquez, perché adesso Velazquez m'interessa quasi più come composizione, ossia le figure in rapporto a tutta la tela, come in Las Meninas, dove c'è un immenso vuoto nella parte superiore del quadro: la distribuzione e la costruzione della tela m'interessa più del colore, nevvero? Allora lì mi ha aiutato realmente a veder meglio il quadro del quale si trattava.
E per le sculture, qual è stato il risultato delle sue ricerche?
Per la scultura caldea è successa la medesima cosa. La testa di Gudea, per esempio, e tutta la scultura sumera, a prima vista sembra rotonda; soprattutto la testa di Gudea, quello che impressiona a prima vista è che la testa è quasi una sfera. Allora, copiandola mi sono accorto che questa sfera non è realizzata che attraverso delle... quasi dei piani molto accentuati, il contrario della sfera, no? La sfera è l'ultimo risultato di una costruzione che va quasi a angoli diritti: orizzontali verticali, orizzontali verticali, in un modo molto acuto, vero? E lì penso... anche lì, naturalmente, mi è servito a capire perché queste teste mi interessavano. Ed è appunto vedendo che la sfera non diventa sfera che attraverso il suo contrario, che diventa vera... E ciò certo mi ha aiutato nel mio proprio lavoro. Perché, per esempio, ci sono diverse copie di Matisse, che ho fatto dai quadri di Matisse, che è certo uno dei pittori moderni che m'impressionano e m'interessano di più; ma, per esempio, lui aveva fatto una scultura che fa sfera, no?, ma la grande differenza... Ci sono delle sculture, devo dire, di Matisse che m'interessano moltissimo, trovo che è uno dei grandi scultori della nostra epoca, ma quando ha voluto fare una testa, dare uno stile alla testa - e certo influenzato dalla scultura sumera, perché mi ricordo adesso di aver visto copie di... una copia almeno di... Matisse da una scultura numera, non so più in che insieme, è vero -, lì ha creduto di arrivare a fare la sfera senza passare per il suo contrario e il risultato è che, vicino a una testa sumera, quella di Matisse non è altro più che molle.
E, scusi, lei vuoi dirci se tiene molto a queste copie del passato, a questo suo ultimo libro di disegni?
Certo, a un tale punto che è forse il libro che a me interessa di più; dei libri è quello che sono più contento che sia fatto, perché per me è naturalmente un po' tutto il passato fissato. E certo quando prima si parlava di Picasso e de Las Meninas e delle Donne d'Algeri e altre... non c'è niente di comune tra il suo procedimento e il mio: lui parte da opere del passato quasi come pretesto, per farne delle varianti, nevvero?; io ho sempre cercato di copiare nel modo più preciso possibile, senza mai provare a metterci uno stile. mio, e in due o tre disegni soltanto - tra questi, che so?, per esempio, nei due Masaccio, Adamo e Eva scacciati dal Paradiso, e nella Fornarina -, ci sono dei disegni che volontariamente ho trasformato un po', allungandoli, se si può dire; ma non era con lo scopo di allungarli, era che in quel momento lì, da un parte attraverso il mio lavoro personale, d'altra parte attraverso le cose del passato che mi sembravano le più vere, le figure, per esempio di Masaccio, malgrado tutta l'ammirazione che ho per Masaccio, o per Raffaello, mi sembravano troppo larghe, no?, come fatte da un apparecchio fotografico che non sa che è un occhio, vero? Allora, lì ho provato, quasi volontariamente, a riportarle, vedere cosa diventano, se le interpreto, fino ad un certo punto, più liberamente, ma sono quasi i due unici casi dove ho proceduto così.
E tuttavia chi guarda questi disegni non può fare a meno di accorgersi che escono dalla sua penna e che talvolta sono giacomettiani almeno quanto gli altri, come se, quasi ci verrebbe di dire, se Rembrandt o Diirer o gli scultori egizi avessero voluto fare del Giacometti senza saperlo.
Questa naturalmente è una enorme esagerazione, ma ciò detto, è evidente che tutti questi disegni, che siano copie delle cose più lontane una dall'altra, hanno per forza qualche cosa di comune, no?, perché lì, io, come tutti, si è molto limitati, no?, come sono limitato nella mia dimensione: sono alto un metro e settanta e non un metro e settantadue, un naso di una tale forma e una mano così, no?, una sensibilità che non è né più né meno quella che mi è stata data nascendo, eh? Non potrò mai, anche se voglio essere più oggettivo possibile, non potrò mai essere che quello che... esprimere ciò che mi impressiona di più. Dunque è molto relativo, è molto parziale, è molto ridotto: è questo naturalmente che fa, che dà un insieme a tutto il libro. Per esempio, ci sono certi modi di disegnare che per me sono completamente esclusi, perché non corrispondono né alla mia sensibilità né, si potrebbe dire, alla grandezza o alla nervosità, o al contrario, della mia mano, è vero? Lì si arriva al limite delle proprie possibilità. Così è peccato che non ci sia - perché non credo che ci sia - un altro oggi, diciamo, della mia generazione che abbia fatto tante copie di tutte le opere del passato, ma sarebbe divertente se ciò esistesse, se ci fossero due o tre altri che avessero fatto, dalla loro infanzia fino ad adesso, il medesimo lavoro, parallelo al loro lavoro proprio, sarebbe interessante di vedere il risultato.
Trascrizione dell'intervista registrata da Enrico Romero a Stampa nel 1965 per la Radio della Svizzera italiana, che ringraziamo.