Riga n.
Alberto Arbasino
Reinold Hohl
«Il disegno è il fondamento di tutte le arti» ovvero: il disegno è veramente il fondamento di tutte le arti?

Già poco più che quindicenne, Alberto Giacometti esprimeva in una conferenza sulla pittura e la scultura davanti ai suoi compagni di scuola quella che sarebbe stata una sua certezza per tutta la vita: «Il disegno è il fondamento di tutte le arti». Di quel tempo è il ricordo del fratello Bruno che all'epoca non aveva ancora dieci anni: «Aveva l'abitudine di disegnare tutto ciò che lo circondava. Teneva sempre in mano la matita e il foglio di carta. [...] Quando Alberto mi ritraeva mentre giocavo, sentivo sempre arrivare il momento in cui sarei caduto vittima del suo sguardo intenso. [...] Talvolta fuggivo immediatamente perché sapevo che ogni esitazione poteva essere fatale e che Alberto mi avrebbe detto: "Non ti muovere! Stai fermo, guarda da questa parte..."».
Dell'artista stesso è questa considerazione retrospettiva: «Da bambino avevo soprattutto voglia di illustrare delle favole. Ma ben presto cominciai a disegnare dal vero e avevo l'impressione di saperlo fare così bene che tutto mi riusciva esattamente come volevo. A dieci anni ero così presuntuoso...! Mi stupivo di me stesso, avevo l'impressione di saper fare di tutto con questo mezzo meraviglioso, il disegno. [...] Il mio modo di vedere le cose non mi dava problemi, era celestiale e durò fino quando non ebbi 18 o 19 anni. Allora mi parve di non saper fare assolutamente più nulla! Divenne sempre peggio... [...] La linea — me ne ricordo molto bene — la linea che va dall'orecchio al mento, non l'avrei mai più (lo capii allora) saputa riprodurre così come la vedevo».
Si potrebbero citare ancora molte altre affermazioni dell'artista sull'importanza del disegno in generale e le «difficoltà» personali che vi incontrò (se si trattava poi veramente di difficoltà). Non riguardano naturalmente l'arte del disegnare, bensì la riproduzione dell'evento, o meglio: ciò che lui, Alberto Giacometti, pensava nel guardare disegnando. «Ancora fino ad un anno fa», diceva Giacometti nel settembre del 1964 a David Sylvester, «pensavo che fosse molto più semplice disegnare una tovaglia che una testa. Di fatto lo credo ancora adesso. Ma qualche mese fa ho passato tre o quattro giorni cercando di disegnare una tovaglia su un tavolo rotondo e mi sembrava completamente impossibile disegnarla così come la vedevo. In realtà bisognerebbe insistere con la tovaglia finché non si è capito un po' meglio se è possibile disegnarla oppure no. Bisognerebbe insomma sacrificare la pittura e la scultura, le teste e tutto il resto e limitarsi a star seduti in una stanza, davanti allo stesso tavolo, alla stessa tovaglia e alla stessa sedia e non fare altro che disegnarli. Ma so già che più ci provassi, più difficile diventerebbe».
Difficile? Molte generazioni di artisti esordienti si esercitavano proprio nel ritrarre il modo in cui cadono tessuti, panni sospesi, le pieghe delle stoffe per riuscire a fare il famoso drappeggio. E nessuno ne fu spinto, come Giacometti, fino alla disperazione. Tuttavia, nel caso delle pieghe della tovaglia nei disegni che egli descrisse a David Sylvester, si trattava di una difficoltà effettivamente presente, oggettiva: il tavolino rotondo aveva quattro gambe sottili e ricurve nella parte superiore come delle spalle sopra le quali il tessuto che scendeva dal bordo del tavolino richiedeva un'ulteriore bombatura difficile da rendere. Ma per questo «sacrificare la pittura e la scultura, le teste e tutto il resto...»? No, Giacometti deve aver inteso qualcos'altro.
Il carattere delle sue «difficoltà» personali Giacometti lo ha spiegato nella stessa conversazione sotto forma di aneddoto di gioventù: «Quando mio padre ritraeva dal vero delle mele su un tavolo, le riproduceva in grandezza naturale. Una volta disegnai delle pere – avevo 18-19 anni – delle pere che erano su un tavolo, dalla distanza normale dalla quale si disegna una natura morta. Le pere risultarono minuscole. Ricominciai, venivano sempre piccole come prima. Mio padre disse irritato: "Ma falle come sono, come le vedi!", e le corresse. Tentai di farle così, ma poi, contro il mio volere, presi la gomma, cancellai e dopo mezz'ora erano piccole uguali, al millimetro, come prima».


LE «DIFFICOLTÀ» DI GIACOMETTI

Non è qui la sede per discutere che cosa significhi questo involontario rimpicciolimento delle cose viste da Giacometti, poiché il «problema» in realtà — da quanto sappiamo dai documenti di lavoro — si presentò dapprima nella scultura, vale a dire, nel 19396. Il rimpicciolimento prima e in seguito l'assottigliamento immateriale costituiscono spesso il racconto epico dello sviluppo dell'opera del tardo Giacometti sia come scultore che come pittore. Tuttavia: «Tutto ciò cambiò un poco nel 1945, grazie al disegno» recita la frase chiave nella prima lettera di Giacometti a Pierre Matisse per l'esposizione nella sua galleria di New York nel gennaio del 1948. Ciò ebbe come «causa», per dirlo in termini generali (se fosse mai permesso ricondurre lo stile di un artista a delle «cause») il fatto che sulla superficie da dipingere e da disegnare e sul piedistallo per modellare egli voleva rap-presentare («voleva»? – ma che cosa ne sappiamo?) come percepiva un oggetto visto a distanza nel suo campo visivo. Molti disegni documentano questo sviluppo. Tutte queste figure e teste «sottili» o «piccole» sui grandi fogli di carta «vuoti» richiedono questo «vuoto» attorno; esso rientra nel motivo del disegno, il quale è una figura vista a distanza insieme al suo spazio circostante; o meglio, non tanto«una figura», quanto la percezione, l'impressione, la reminiscenza di una figura vista nella profondità dello spazio. Questo è il carattere di fondo «fenomenologico» dell'opera di Giacometti — ma questa constatazione in merito alle «cause» dello «stile di Giacometti» già entrato mito è giustificata solo se contemporaneamente si riconosce che Giacometti ha creato dal suo modo di vedere uno (il suo) stile (che non coincide con un protocollo della percezione visiva) e che con esso ha espresso dei temi contenutistici (per es. l'immagine della strada come parabola della condizione umana).
Ma questi ed altri disegni sono naturalmente molto più che dei documenti, sono ben altro che cibo spirituale per critici d'arte. Sono ciò che si definisce «disegni da maestro»: appassionanti, splendidi, insondabili. Ciò vale sia per i disegni di bravura che dovevano dimostrare la capacità artistica, come ad esempio l'autoritratto frontale del 1918 o un'immagine tarda della madre del 1963 che rivaleggia con Rembrandt, sia per gli schizzi di idee apparentemente più fuga-ci. In essi si vede sempre il mestiere del grande disegnatore che si affida sia all'effetto materiale dello spazio bianco del foglio lasciato libero (o ristabilito con la gomma da cancellare) sia alle tracce della punta di grafite sulla carta.
Cézanne disegnava così, Picasso no.

 
DISEGNO DI INVENTARIO E DI «BILANCIO»

Nessun foglio di Giacometti è dunque semplicemente un documento del processo verso la scoperta di uno stile. Ma alcuni sono anche questo. Li chiameremo «disegni di bilancio». Citiamo la Natura morta nello studio con sveglia, libro, scultura e testa in gesso del 1927 (fig. 5) e vari altri interni dello studio più tardi in cui compaiono le sculture prodotte nei mesi precedenti disposte in maniera apparentemente casuale: sotto forma di disegni tutti documentano ciò che l'artista ha compiuto come scultore (andandone, evidentemente, alquanto fiero). Sono documenti della sua creazione artistica anche quelli che sullo stesso foglio accostano motivi della produzione pittorica e scultorea di Giacometti. Infine, il carattere di «bilancio» lo posseggono anche quei disegni nei quali una accanto all'altra, dislocate nello spazio, vi sono, per esempio, «rappresentazioni» del fratello Diego, a mezza figura, come ritratto dal vero o a memoria, come Busto di Diego, e come esercizio di grafia ricominciato centinaia di volte.
Che nel caso di tali «disegni di inventario» si tratti sempre di un bilancio di Giacometti, lo si vede chiaramente facendo un paragone tra due disegni. Entrambi sono nati dopo che Giacometti aveva «sfondato» come scultore. In entrambi compare – la prima volta nel 1927 grande in primo piano sulla destra; la seconda nel 1949, ma riposto sotto uno scaffale – il calco in gesso della testa rasata di Gudea conservata al Louvre: un «prototipo» vecchio più di quattromila anni di una testa scolpita tradizionale. Entrambi mostrano accanto ad essa le creazioni stilistiche più recenti di Alberto Giacometti: nel 1927 era una scultura «astratta» ad essere interpretabile come autoritratto del giovane Alberto Giacometti che in quel momento stava rivoluzionando la scultura. Ma nel 1949 Giacometti disegnò accanto a quella stessa testa di Gudea uno dei piccoli busti di donna con cui nel 1946, da poco tornato da Ginevra, incarnava ora nel suo stile postbellico gli esperimenti triennali che vi aveva condotto per una scultura fenomenologica; probabilmente si tratta del Busto di Diane Bataille. L'importanza dei due fogli consiste nel fatto che il disegnatore vi manifestò i suoi risultati come scultore, ma le due opere sono, oltre a questo, – e forse in prima linea – anche dei «disegni da maestro», di quelli che si acquistano per una collezione pubblica.
Anche un altro soggetto rientra nel gruppo dei «disegni di bilancio» ma compare quasi unicamente in fogli conservati in collezioni private, sia perché Alberto li regalava ad amici intimi, sia perché si trovavano nel lascito. Sono tutti disegnati con matite colorate, cosa piuttosto rara, e mostrano una piccola figura o un busto con testa che guarda verso un albero molto alto. Per quanto mi è noto sono tutti del 1949; alcuni furono tuttavia ridisegnati e datati due o tre anni dopo. Dovremo forse definire questo soggetto una metafora. Come può essere decifrata? Essa può avere lo stesso significato delle sculture La Place e La Forét del 1950 e del gruppo di figure Grande femme debout, Homme qui marche, Grande tete sur socie degli anni 1958-60 progettati per la Chase Manhattan Plaza di New York. Ma chi può esprimere in parole ciò che significano? L'albero alto (il bosco, le figure di donne in piedi più grandi del naturale) rappresentano la continuità della vita? La figura (l'uomo che avanza, rappresentato a grandezza naturale) è forse l'uomo che si affanna? La testa che guarda (la scultura di una testa, la Grande Testa su base) sarà allora l'artista? Si tratta di un bilancio «vita versus arte»? In ogni caso questi fogli a matita colorata, di cui esistono circa quindici esemplari diversi, sembrano dar voce ad un pensiero molto intimo. E lo stesso pensiero ispira molte delle sculture prodotte fra il 1948 e il 1960. Chi fosse in grado di interpretare questi disegni a matita colorata potrebbe spiegare i gruppi di figure di Giacometti.


STUDI DA ALTRE OPERE D'ARTE

Il foglio Studio da El Greco e testa della madre dell'artista è esemplare di un altro gruppo di disegni, vale a dire, delle copie che Giacometti faceva da opere di altri artisti. Sono moltissime e rivestono un posto particolare sia nel corpus dei disegni di Giacometti, sia nel suo mondo interiore; forse essi rappresentano – accanto alle sculture programmatiche, ai busti e ai ritratti dipinti e disegnati – il lavoro più personale di Giacometti'. Disegnava quasi sempre prendendo a modello delle riproduzioni e questo fin dall'infanzia. Ero il suo modo di appropriarsi di un'opera d'arte. «Copiare» non è la parola giusta, anche se egli restava molto aderente ai modelli, piuttosto si trattava per lui di seguire il pensiero degli scultori egiziani, degli intagliatori africani e oceanici, degli antichi maestri europei ed extraeuropei e anche di ridare vita nello spazio alle immagini bidimensionali. Era in primo luogo una percezione che rendeva omaggio, talvolta era però anche una sfida critica, agli antichi maestri ed un misurarsi con le proprie capacità, era anche un paragonare il modello su due dimensioni con la propria esperienza visiva dello spazio.
Questo si vede bene nella copia disegnata del ritratto di un erudito dipinto da El Greco e nella raffigurazione – probabilmente a memoria – della madre (sul retro Giacometti ridisegnò un motivo di Lukas Cranach). Non si ha l'impressione che l'antico spagnolo sia più presente e vivo nello spazio del foglio della testa della madre? Come ha interpretato diversamente nel 1950 Picasso il ritratto che El Greco fece del figlio pittore Jorge con in mano pennello e tavolozza: rovesciato e «per via della luce della luna», come diceva; egli l'ha parafrasato con i mezzi stilistici a sua disposizione a quel tempo e in un certo senso l'ha anche inteso come autorappresentazione: «Io, Picasso – e il Greco di allora!» Anche Picasso ha lavorato rifacendosi ad una riproduzione (il dipinto di El Greco si trova nel museo d'arte di Siviglia) ma non ha ricreato nulla della plasticità fisica e della spazialità dell'originale, le ha piuttosto tradotte graficamente e cromaticamente in superfici. Giacometti, invece, si manteneva così fedele ai modelli che molte copie disegnate possono essere interamente decifrate non solo identificando l'opera d'arte rappresentata, ma studiando esattamente anche la riproduzione su libro di cui Giacometti cercava di ridare, per esempio, l'angolazione della luce nel momento in cui l'opera veniva fotografata. E ciò significa allora che egli voleva riprodurre fedelmente ciò che vedeva davanti a sé.
In questo «Studio da El Greco» le cose erano tuttavia un po' più complesse. Si tratta veramente di uno «studio» e non di una copia più o meno fedele. Fecero da modello due tavole nel volume El Greco della Phaidon (Londra, 1938, tavole 73 e 74) che riproducono in calcografia in bianco e nero a retino sottile il Ritratto del medico e poeta Don Rodrigo de la Fuente (eseguito intorno al 1586, ora conservato nel Museo del Prado) e il particolare della testa e della gorgiera. La mezza figura e il braccio destro sono stati schizzati da Giacometti seguendo il modello; il braccio sinistro scompare tra le linee sovrapposte; il libro è disegnato in maniera completamente diversa. Ma era la testa ad affascinare Giacometti: la sua presenza viva, lo sguardo dell'occhio destro rivolto verso l'osservatore, mentre l'occhio sinistro si trova più in basso e nascosto dall'ombra del naso, gli effetti di luce e ombre sul volto: la guancia e la parte destra del naso illuminate, la plasticità della fronte alta...
In fondo Giacometti e Picasso in un dipinto di El Greco erano interessati dallo stesso problema di tecnica pittorica, la riproduzione della rotondità creata dalla luce; Picasso lo elaborò come immagine fatta di superfici; Giacometti lo studio ponendosi una domanda diversa: come con ciò si potesse restituire al modello ritratto la propria realtà vivente. Ma chi sa perché allora proprio accanto ad esso ha trovato posto uno schizzo fatto a memoria della testa della madre?


RITRATTI

Questo ridare sostanza vitale al modello ritratto si ha anche nei disegni che raffigurano dei contemporanei. Quasi sempre posarono per lui – per ore, come alcuni di essi raccontarono in seguito. Si potrebbe dar forma ad un'intera galleria di contemporanei famosi; quasi sempre sono ritratti frontalmente e il modello e l'artista si guardano negli occhi in un incontro eternizzante dello sguardo. Da questa frontalità (che al pittore e al disegnatore crea difficoltà maggiori del ritratto di profilo) emana un fascino che cattura anche l'osservatore di questi disegni. Apparentemente si può seguire tratto per tratto perché il naso e il mento sono a noi più vicini degli occhi, come si presenta la rotondità del viso e come il busto è posto nello spazio dell'immagine, poiché naturalmente nel corso degli anni molti tratti ed effetti sono diventati abituali; tuttavia, la virtuale presenza di chi è rap-presentato colpisce l'osservatore in maniera non diversa del proprio volto che inaspettatamente si incontra nello specchio.
Eppure l'artista Henri Matisse Giacometti non l'ha ritratto frontalmente ben-ché la serie costituita da circa una decina di fogli che Giacometti ha disegnato dal 20 maggio al 6 luglio 1954 e nel settembre dello stesso anno a Nizza faccia parte delle importanti opere «definitive» prodotte dal disegnatore Alberto Giacometti. Proviamo a immaginarlo: eccolo seduto su incarico dello stato (vale a dire per la zecca francese che voleva onorare Matisse con un medaglione commemorativo ufficiale) al capezzale di uno dei disegnatori più sublimi di questo secolo per ritrarlo! Prima nella poltrona mentre riposa e poi nel letto nel quale Matisse morirà il 3 novembre. Pare che conversassero sul disegno, su come esso costituisse indubbiamente il fondamento di ogni arte, come lo studente Giacometti aveva sostenuto quasi cinquant'anni prima davanti ai suoi compagni di scuola – lui, che poi per tutta la vita continuò a dire che l'arte rappresenta sempre un fallimento di fronte alla realtà... in queste ore egli dimostrò, come a suo tempo a sedici – diciotto anni, che «poteva fare di tutto con questo mezzo meraviglioso, il disegno». E naturalmente ora sapeva fare anche quello che poi dovette creargli delle (difficoltà»: rappresentare l'oggetto come lo vedeva dinnanzi a sé nello spazio. La «grandezza naturale», il modo in cui le cose sono «in realtà», consiste nel giusto rapporto tra disegno e superficie della carta.


MODELLARE, DIPINGERE - E DISEGNARE

Mentre ogni disegno di Giacometti merita, da questa prospettiva, di essere guardato singolarmente, si impongono sempre più rapporti con ritratti modellati e dipinti. Fino a che punto si può dire che per l'artista Alberto Giacometti il disegno sia stato il fondamento della scultura e della pittura come egli ha continuato ad affermare dal 1916 al 1965?
In quella parte della personalità dell'artista a noi impenetrabile, dove l'incontro con il mondo circostante e lo studio della realtà osservata si legano alla necessità di riprodurlo, più ancora, di ricrearlo come opera d'arte, il disegno ha avuto sicuramente un'importanza primaria. Giacometti era – non è necessario sottolinearlo – un disegnatore «nato». Il disegno gli ha dato la prima certezza della sua arte; gli ha aperto gli occhi nel 1945 facendogli trovare ciò che circa dal 1938 andava cercando nelle sculture e nei dipinti. Ma stranamente la vicenda ginevrina, quando le figurine di gesso rimpicciolivano sempre di più (e poi i loro piedistalli man mano si ingrandivano) non è accompagnata da disegni corrispondenti – o in ogni caso solo da alcuni che fissavano a posteriori i risultati di ciò che aveva modellato. Il ritrarre invece rappresentava per lui allora e anche già prima e ancora nel 1964, quando lo disse a David Sylvester, la disciplina artistica fondamentale. Inoltre bisogna anche guardare quanto i ritratti disegnati da Giacometti devono alla sua tecnica pittorica, e in definitiva si può dire che vi sono molti più schizzi e disegni che ritraggono le sue sculture che non degli abbozzi preparatori per esse. Se si fosse veramente trattato di trasformare in busti e quadri ciò che aveva appreso attraverso disegno modellare e dipingere ad ogni nuova opera non sarebbe diventato un compito «impossibile»; eppure sono le sculture e i dipinti che assegna-no a Giacometti il suo posto nella storia dell'arte.
Ma dopo aver detto tutto questo, rimane pur sempre da porsi la domanda: che cosa fa di un disegno di Alberto Giacometti un «disegno à la Giacometti»? Che cosa c'è – per usare le parole della Jenny dei pirati di Brecht –: «Che cosa c'è di tanto particolare?» Perché c'è qualcosa di particolare, è un concetto noto, si riconosce subito (e perciò anche in quanto tale viene imitato e falsificato): ci sono dei disegni che pur non essendo firmati si rivelano subito come disegni di Alberto Giacometti. Ciò vale per così dire per tutti, anche se sono le nature morte, gli in-terni, i ritratti e gli autoritratti più belli (e quelli spesso esposti in gallerie d'arte) ad essere diventati caratterizzanti (lo stesso dicasi per le litografie).
Si è parlato dei mezzi tecnici: delle matite sempre appuntite con mina dura 3H o 4H e carta Rives B. F. K. color crema chiaro, e anche delle successive tracce della gomma da cancellare che attraversano il foglio dando un effetto di lucentezza o di luminosità; o dello sguardo fatto dall'intrico di linee della punta di grafite. Si conosce l'impiego straordinariamente frequente di Giacometti negli anni tardi della penna a sfera blu che si snoda in curve ed anse. Nello scritto di Giacometti nell'album Paris sans fin si legge che amava disegnare con una matita litografica ad impasto grasso su carta da riporto perché ciò non gli consentiva delle modifiche. Tutto questo ha certo la sua importanza.
Ma se andiamo a vedere i tardi ritratti disegnati per quanto possano essere allo stadio di abbozzo, di più, se si viene guardati da quelle teste che campeggiano nello spazio del foglio e che guardano fuori da esso di colpo si impone la sensazione della loro presenza in quanto disegni – e questa è la cosa particolare in essi.
Mentre i dipinti conquistano una presenza iconica attraverso la frontalità del modello e l'assialità della composizione e le donne e le teste in bronzo costringo-no l'osservatore a porsi in posizione frontale rispetto alla base della scultura, ai disegni ci si avvicina più disinvoltamente. Si analizzano senza complimenti da sinistra a destra, dal basso all'alto. Più che notare i loro soggetti, si osservano i fogli in quanto disegni. E vi si è catturati: avvinti dalla loro presenza.

Traduzione di Santina D'Agostini.
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