Riga n.
Alberto Arbasino
Lino Gabellone
Figure in piedi, immobili, in cammino...


«Un cieco avanza la mano nella notte»
(Alberto Giacometti).

Il passo si compie in un'esitazione, insieme aperto e come impedito. Abbozzando ciò che, fuggitivo, resta. Portando con sé il suo sostegno di terra, suolo frammentato.

Ma talvolta, appena una stazione, che precede ogni abbozzo. Vigilante presenza dell'essere-in-piedi. Allora la terra è un vero sostegno, punto d'appoggio che dà luogo al sorgere delle figure.

Figure « boueusement bottées», le ha chiamate Francis Ponge per significare la loro appartenenza a una sostanza originale, indifferenziata. Terra, e non mondo.

Le prime statuette di uomini e di donne, in cammino o immobili, che Alberto Giacometti ha scolpite datano dell'inizio degli anni '30. E in Une Femme qui marche (Una donna che cammina) che si inaugura il motivo plastico della marcia nella sua opera, ma questa scultura è ancora un'opera in divenire, un annuncio: il bronzo liscio e rilucente traduce forme piene, e nel bronzo viene abbozzato quel passo che, a partire dalla stazione eretta, produce lo scarto. Motivo, ma non ancora sorgere. Bisogna giungere agli anni '40 (Silvio debout [Silvio in piedi], 1944), e soprattutto al '47, per veder apparire quelle forme allungate e precarie, a prima vista, che, lasciando indietro il motivo della marcia e della stazione eretta, affrontano una tutt'altra interrogazione del gesto.

Le ultime opere scolpite di questo genere datano dell'inizio degli anni '60. Ciò rivela l'insistenza di quest «figurine» nell'opera di Giacometti dal dopoguerra fino agli ultimi anni della sua vita.
 

L’essere-in-piedi innanzi tutto.

L’essere-in-piedi dei personaggi di Giacometti, più che uno stare in piedi che potrebbe prestarsi ad interpretazioni morali, è la manifestazione del sorgere. Certo le figure non appaiono tutt’a un tratto; esse si mantengono nella stazione che, a partire dal sorgere, apre la dimensione della verticalità. Questo non è molto diverso dal tratto in pittura, il quale, come scrive Jacques Dupin, «fa sorgere»: (Incessante inseguimento per contestazioni successive, il tratto si aggiunge al tratto, lo oblitera e progredisce. Innumerevoli tratti che non contornano niente, che non precisano niente, ma che fanno sorgere».

Tuttavia ciò che è vero per la pittura di Giacometti deve essere letto in qualche modo al rovescio per la scultura: il tratto non si aggiunge al tratto; al contrario, è il tratto che sorge a partire da un lavoro di aggiunte — prima l'armatura, poi il gesso, poi il bronzo —, da un «maneggio», da un seguito aggrovigliato di gesti che, come afferma Dupin, «danno la sensazione di una necessità misteriosa». Infatti l'aggiunta non è un semplice sovrappiù di «forma». Essa mira profondamente, attraverso il lavoro «insensato» delle mani, ad afferrare una presenza che sfugge infinitamente, in vista della quale «bisogna caricare di vita ogni particella di materia» (Giacometti). Il tratto, scansione ideale dello spazio, deve essere in qualche modo rivelato. Solo allora può dar luogo al sorgere che apre la possibilità della stazione verticale, e al di là di questa, dello spazio ritmico.

Nella celebre Lettera a Pierre Matisse, Giacometti evoca il lavoro che l'ha condotto a queste figure in piedi: «Ma nell'attimo stesso in cui rifacevo a memoria quello che avevo visto, atterrito scorgevo le sculture farsi sempre più piccole; erano somiglianti soltanto se erano piccole e tuttavia trovavo disgustosa quella loro piccolezza, e instancabilmente ricominciavo daccapo per ritrovarmi, qualche mese dopo, al medesimo punto. Una grande figura per me era falsa e una piccola ugualmente insopportabile, e poi diventavano così minuscole che con un ultimo colpo di temperino spesso sparivano per sempre nella polvere. Tuttavia, sia le teste che le figure mi sembravano un po' vere soltanto se erano piccole.
Tutto ciò cambiò un poco nel 1945, grazie al disegno. Fu quest'ultimo che mi portò a voler fare delle figure più grandi, ma allora, con mio gran disappunto, erano somiglianti solo se erano lunghe e sottili» .

Bisognava attraversare questo pericolo di una riduzione radicale, fino alla minaccia della scomparsa di ogni opera, perché un'altra modalità dell'opera fosse possibile. Non c'è niente di astratto in questo lavoro: non si tratta affatto, per Giacometti, di andare verso una semplice «épure» geometrica o, come suppone Reinhold Hohl, di fare sculture «come se si trattasse di disegni nello spazio». Il passaggio, di nuovo, attraverso il disegno avrebbe piuttosto il potere disvelante lell'essenza del gesto iniziale di afferramento dell'istante (di che natura è la rassomiglianza» che sembra preoccupare Giacometti? Non si tratta certo di una assomiglianza alla cosa, ma forse la somiglianza – impossibile – all'«istante di mondo» di cui parlava Cézanne). Il gesto è allora ciò che riapre lo spazio, abbozza o scarto, in un disequilibrio di continuo riequilibrato, capace, attraverso il apporto con il vuoto che esso suscita, di evitare la scomparsa e il trionfo del nulla.

Non si tratta nemmeno per Giacometti di lavorare a una deformazione espressionista» della figura, di iscriversi in una avventura «moderna» e falsamente nichilista della figurazione. Se la forma si allunga, si riduce, è perché essa comincia a darsi veramente nella sua essenza, che sarebbe il tratto stesso come erigine. Come scrive Henri Maldiney in L'Esthétique des rythmes, «l'artista cerca ma via d'uscita in questa stessa origine a cui accede mettendola in opera, ma a ma condizione: che la sua opera stessa sia in stato di origine perpetua».

La stazione – come stare: essere-in-piedi – figurerebbe innanzitutto e a prima pista l'immobilità, l'accaduto, lì davanti. Ma non è così semplice. Giacometti dice: «Chiamiamo stile queste visioni arrestate nel tempo e nello spazio». Ma che cos'è l'arresto? Semplice istante della cattura, nella visione, che non è dato, ma da conquistare. Bisogna arrivarci. E il lavoro dello scultore, il più laborioso e il più manuale che ci sia, deve conquistare, lasciandolo insorgere, quello stile che è esso tesso il gesto compiuto dell'arresto. Giacché dalla visione immobile nasce l'apertura iniziale della marcia prima che questa si effettui, pura imminenza.

Parlare della marcia potrebbe prestarsi a qualche malinteso, che d'altronde andrebbe di pari passo con il disconoscimento in cui ci troviamo generalmente di che cosa sia camminare, di quello che nella marcia veramente si dà, e interroga, non nel dispiegarsi della sua durata e nella resistenza del marciatore – né ancor meno nella sua funzione locomotrice e direttrice, ma in quello slancio iniziale che a del corpo in movimento un corpo senza peso, che si articola grazie al suo equilibrio all'aria verso la quale tende.
Ricordando un aneddoto in apparenza banale, Giacometti evoca la scoperta di questa legge della marcia: «Ho mantenuto l’altezza ma è diventato sottile… sottile, filiforme, immenso. Cosa significava? La spiegazione mi è venuta molto dopo. Un giorno che trasportavo una scultura per un'esposizione. L'ho presa con una mano, l'ho posata dentro un taxi. Mi sono reso conto che era leggera e che in fondo ero infastidito dalle sculture a grandezza naturale che cinque forzuti non riescono a sollevare. Infastidito, perché un uomo che cammina in strada non pesa niente. Tiene in equilibrio sulle sue gambe. Non sente il proprio peso».
Il peso si rivela soltanto nella caduta, la marcia al contrario è resa possibile dal ritmo che la porta, creatore di equilibrio, e dal ritmo che ne scaturisce, articolazione del tempo in movimento, «ordine del movimento» come lo definisce Platone.

Che c'è di più «naturale» che rivolgersi verso ciò che è inanimato in apparenza perché ci illumini sul movimento stesso a partire da ciò che Jean Soldini chiama la «struttura dell'apparire», senza attirarci all'interno di una fenomenologia? La leggerezza, l'assenza di peso non è evidentemente un semplice vantaggio pratico ma il momento fondamentale di una sensazione dello slancio, quel momento «patico» (nei termini che H. Maldiney prende in prestito da Erwin Straus) che precede ogni posizione d'oggetto, ogni oggettivazione. L'istante dell'intimità che si apre e nel suo dischiudersi si dà non come un'apparizione su uno sfondo (questo sarebbe il problema della pittura), ma come sorgere da un suolo, crescita che raggiunge lo spazio, l'altezza («ho mantenuto l'altezza») che vi si apre.

Tra il sorgere e lo scarto iniziale che crea il disequilibrio della marcia, non c'è discontinuità vera e propria, ma un ritmo spaziale di disequilibrio e di equilibrio, di tensioni incluse.

Come dice Paul Klee: «Ogni energia suscita il suo complemento per realizzare uno stato di riposo immobile al di sopra del gioco delle forze».

Tra la formazione e la forma, l'iscrizione delle tensioni che permette a ciò che e per sua natura immobile di essere in un perpetuo cominciare.
Lo zoccolo, ora comune a diverse figure ora proprio ad ognuna, non è quasi mai un semplice zoccolo ma un pezzo di suolo da cui la figura non si differenzia del tutto, tanto più che i piedi vi sono spesso impaniati, come presi nella sostanza di cui sono essi stessi impastati. Medesima sostanza che determina due l'appartenenza del corpo a quel pezzo di terra da cui proviene, e lo slam : verticale che crea Io spazio, vuoto nel quale le figure, veramente, tracciano. La plastica del tracciare verticale non è mai abbandono o dimenticanza, in Giaco. metti, di ciò che porta, e che si porta con sé, fino alle tracce tormentate, incavi e sporgenze, che modellano i corpi rugosi, che suscitano il rapporto tra terra e vuoto.

Michel Leiris ha chiamato «vasta camera straniera» questo spazio, questo luogo del rapporto. In quel vuoto le sculture di Giacometti, più che essere poste nel senso di una messa in scena spaziale della scultura, determinano esse stesse lo spazio.

«Qualunque scultura che parta dallo spazio come dato di fatto è falsa, non esiste che l'illusione dello spazio», annota Giacometti nel '49. Aggiungendosi al mondo, al di fuori di qualsiasi allestimento scenografico valorizzante o illusionistico, esse producono lo spazio del loro passaggio. Quindi «vasta camera straniera» potrebbe indicare piuttosto lo spazio di estraneità, al di là di ogni iscrizione congiunturale in uno spazio dato, nel senso in cui lo intende Giacometti quando scrive: «Ad ogni linea che traccio sul foglio, mi diventa più estranea» .

La linea, ma anche lo spazio stesso. Qui sta il senso dell'insistenza dell'artista nel suo operare incessante: dallo sguardo alla mano, dalla percezione al gesto, dall'occhio al mondo, si ha meno l'approfondimento di una conoscenza che lo scavo di un'estraneità, di un fuori nascente. Le figure in cammino portano con esse il suolo a cui appartengono e da dove sono sorte, ma costituiscono anche lo spazio come vuoto, che non è un luogo accogliente, anzi direi che si tratta di un luogo accolto: vuoto del divaricamento delle gambe, intervallo tra le braccia e il busto, superficie esigua ma tormentata del corpo, differenza di altezza e di posizione nelle composizioni di gruppo come Place (Piazza), Foret (Foresta), Clairière (Radura).
 
Spazio senza orizzonte, qui di un presente che riconvoca tutta l'esperienza passata, fuggitiva, essere di memoria, in un ora assoluto che apre tutte le direzioni senza sceglierne alcuna – come l’albero di cui parla Paul Klee – e che, nelle composizioni citate, diventa il luogo medesimo – foresta, radura, piazza – che le figure hanno suscitato.
In questa apertura del luogo, non si dà alcuna sistemazione «estetica»: l'aisthesis autentica deve in primo luogo rivelare l'imminenza del possibile. E anche se Giacometti evoca talvolta il suo tentativo di creare l'analogon di uno spazio prospettico nella scultura, questa questione non è veramente la sua. L'ordinamento di uno spazio per costituirvi una profondità è anzi il contrario di tutto quello che Giacometti si è sforzato di fare, «mostrare come le cose [mi] appaiono...».

Una simile «apparizione delle cose» non può darsi nello stesso modo nella cultura e nella pittura, ma da esse si ricava un significato comune: quale che sia il odo dell'apparire, l'apparizione delle cose non si confonde con l'apparenza, cioè n un loro sembrare; essa è ad ogni istante altra, da afferrare, sfuggente, innovata.

«Quando guardo il bicchiere – scrive Giacometti – per il suo colore, la sua )orma, la sua luce, non mi arriva ad ogni sguardo che una piccolissima cosa molto difficile da determinare, che si può tradurre con un piccolissimo tratto, una piccola macchia. Ogni volta che guardo il bicchiere, ha l'aria di ricostituirsi, cioè a sua realtà diventa dubbia, perché la sua proiezione nel mio cervello è dubbia, o parziale. Lo si vede come se sparisse... risorgesse... sparisse... risorgesse [...] L’apparizione talvolta credo di coglierla, e poi la riperdo e devo ricominciare. Allora è questo a farmi correre, lavorare».

L'estraneità è quindi nel cuore del mondo famigliare, già in quel rapporto dello sguardo con la cosa come ente instabile, infigurabile in totalità. Fare, allora, e per l'artista – il pittore, lo scultore – non tanto un punto d'arrivo, una realizzazione dell'intenzione formatrice, quanto una «spiegazione» con il reale, una lotta, un corpo a corpo.
 
«Attività furiosa e futile — scrive ancora Jacques Dupin — necessaria e fastidiosa, in cui l'atto positivo e l'atto distruttore si uniscono e si identificano per tessere la stessa durata creatrice senza inizio né fine...».

E poco dopo: «Nascita aspra e infinita e, piuttosto che opera incompiuta, opera incessante».

Dallo strano maneggio dello scultore si liberano forme la cui apparenza — statue, gruppi, figure — non ha senso se non nell'imminenza di un accadere per il quale, come scrive Jean Genet, esse «vegliano».

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