Riga n.
Alberto Arbasino
Antonio Moresco
La bambina

La bambina era seduta già da mezz'ora sul vasino. Lui, che stava in un'altra stanza, ogni tanto si alzava per dare un'occhiata, colpito dal silenzio assoluto che regnava.
La bambina era completamente assorta. Attorno a sé aveva radunato una grande moltitudine di animaletti di plastica, li aveva messi tutti in piedi e li spostava sussurrando loro qualcosa. Si muoveva nella stanza senza alzarsi mai da sedere, spingendosi con i piedi e facendo scivolare il vasino sul pavimento per essere in grado di effettuare spostamenti in ogni punto del grande branco dove poteva capitare che la gallina fosse più alta dell'elefante e che il cinghiale fosse più piccolo del granchio. In mezzo agli animaletti c'erano anche i pezzi sparsi di una costruzione a incastri e lettere dell'alfabeto, di plastica e calamitate, che in piedi erano più alte persino del dinosauro.
Il tempo passava e la bambina pareva sempre più assorta. Aveva iniziato a colorare con un pennarello alcuni maccheroncini, che stavano anche loro in mezzo al branco. Intanto ripeteva sottovoce: «Tu mi hai salvato la vita! Tu mi hai salvato la vita!» Poi, spostandosi nel solito modo attraverso la stanza, si era procurata un barattolo di colla e aveva cominciato a incollare i maccheroncini colorati su un foglio di carta, a intervalli regolari, ripetendo due o tre volte con durezza: «Ti ucciderò!».
Sopra un mobile, ai piedi del letto, spuntavano da un minuscolo recipiente i lunghissimi germogli delle lenticchie che la bambina aveva piantato tempo prima in un batuffolo di cotone e che ormai si piegavano a causa del peso e cadevano giù sollevando le piccole radici incuneate come vene di ovatta.
Passò ancora del tempo. D'un tratto lui sentì gridare:
«Ho finito!»
La bambina era in piedi e guardava dentro il vasino.
«Oggi che cos'è?»
Lui guardò attentamente.
«Secondo me è la coda di un drago!»
 
«Sbagliato! È la lettera S!»

Si svegliò presto. Infilò macchinalmente le mutande, i calzoni e le calze. Mise con decisione il piede in una scarpa e subito avvertì un dolore acuto. Guardò giù: dentro la scarpa c'erano quattro animaletti in piedi, e precisa-mente un cinghiale, un tacchino, una tartaruga e un cane.
Li tolse e finì di vestirsi. Poi entrò nella stanza della bambina, che era ancora a letto. Appena lo vide entrare, la bambina si girò sulla schiena, ancora mezzo addormentata. Lo guardò per un attimo.
«Mi sembri preoccupato.»
Lui scosse la testa.
«Oggi il latte me lo devi preparare tu.»
Lui uscì dalla stanza e cominciò a girare per la casa in cerca del biberon perché la bambina, nonostante avesse passato i cinque anni, non voleva abituarsi a bere il latte nella scodella. Finalmente trovò il biberon, ma c'erano tappati dentro numerosi animaletti, i più piccoli del branco, quelli che potevano passare dall'apertura, e anche alcune lettere, le più sottili, come la I, la L, la T.
Vuotò il biberon, scaldò il latte, ve lo mise dentro, lo zuccherò e lo portò alla bambina.
Mentre lei succhiava, lui si mise a sedere sul letto.
«Dovresti farmi un piacere» chiese dopo un po' alla bambina «Avrei bisogno di un libro di fisica, di una decina di bulloncini come questo qui e di una manciata di semi di zucca abbrustoliti.»
La bambina lasciò passare un po' di tempo, poi chiese a sua volta: «E per quel tuo lavoro?»
Lui fece di sì con la testa.
Passò ancora del tempo, il biberon era quasi vuoto e la bambina sembrava molto preoccupata.
«Eppure poco fa, quando sei entrato, sono rimasta scossa. Mi sembravi molto teso» disse, quasi tra sé.
Mezz'ora dopo la bambina, lavata e vestita, aveva inforcato la piccola bicicletta ed era partita. Lui si era chiuso in camera sua, ma non riusciva a fare niente. Si era coricato sul letto, guardando il soffitto senza pensare.
La rivide a pranzo. Prima di potersi sedere a tavola, su richiesta degli altri, la bambina come sempre suonò al pianoforte un brano imparato a memoria. Lo ripeteva due volte al giorno, prima dei pasti, e anche quando c'erano visite.
La bambina suonò la canzone, accelerandola un po' per potersi mettere al più presto a tavola assieme agli altri, che nel frattempo avevano già cominciato a mangiare e parlavano vivacemente tra loro senza prestare la minima attenzione a quanto la bambina stava suonando.
Dopo pranzo la bambina lo invitò nella sua stanza. C'era un pacco ai piedi del suo letto, avvolto in qualche modo in una pagina di giornale.
«Qui c'è tutto!» spiegò la bambina «Il libro lo vogliono indietro tra due giorni.»
Lui fece di sì con la testa e tornò a chiudersi in camera sua. Cominciò a camminare, ma il pavimento scricchiolava e da sotto doveva sentirsi il rumore dei suoi passi. «Sarà meglio che smetta!» pensò «Tanto più che qui sono ospite...»
Riuscì a lavorare qualche ora. Un po' prima di cena aprì la porta e gridò nella tromba delle scale che non sarebbe sceso a mangiare. Si scusò. Mezz'ora dopo sentì la solita canzoncina, accelerata al massimo. Passò ancora del tempo. Qualcuno bussò alla porta della sua stanza. Aprì: era la bambina. Lui le diede la buona notte, la bambina gli diede un bacio e subito uscì. Da sotto giungevano le voci degli altri che indugiavano ancora attorno alla tavola. Lui andò a buttarsi sul letto, vestito. Fissava le pareti della stanza: vi erano appesi alcuni quadretti, fotografie di neonati e un'antica cartina geografica dell'Italia.
Dalla camera della bambina non veniva il minimo rumore. Andò a dare un'occhiata attraverso la porta socchiusa: la bambina era inginocchiata sul pavimento e teneva accanto a sé una scodella piena d'acqua, un batuffolo di cotone e un sacchetto di coriandoli. Bagnava il cotone, poi ci posava sopra i coriandoli che, impregnandosi d'acqua e schiacciati dal suo ditino, restavano in qualche modo appiccicati. Intanto recitava sottovoce una specie di cantilena: «Amore di pianto di pianto d'amore d'amore di pianto...».
Tutt'intorno alla bambina, sul pavimento, c'era acqua rovesciata.
Lui tornò nella sua stanza. Continuò a perlustrare le pareti, aprì l'armadio: dentro era vuoto, ma alla sbarra che lo attraversava in alto erano appese molte grucce per i vestiti.
Tornò silenziosamente a guardare la bambina attraverso la porta socchiusa. Ora se ne stava seduta per terra, al centro di un anello d'animaletti, pezzi di costruzione e lettere dell'alfabeto. Stava facendo il gioco del silenzio. Lui rimase a guardarla per molto tempo, osservando a sua volta un assoluto silenzio, per non essere scoperto. La bambina fissava a lungo, uno per uno, gli animaletti e i piccoli oggetti che aveva intorno, poi sceglieva volta per volta quello che a suo parere era rimasto più silenzioso e immobile, scacciava i disturbatori, tutto senza mai aprire bocca, con scatti delle mani e smorfie del viso.
D'un tratto lui si accorse che, con un gesto cattivo della mano, la bambina aveva allontanato un pesce. Allora non riuscì a trattenersi dal chiederle:
«Perché hai allontanato proprio il pesce?»
La bambina si girò di scatto verso la porta, e lo vide. Pareva sconvolta: «Perché ha parlato!» gridò.
«Ma il pesce non può parlare, è muto!»
La bambina rimase in silenzio per un po'. Teneva la testa abbassata e i suoi piccoli pugni stretti tremavano di rabbia. La fronte aggrottata, pareva volersi concentrare al massimo.
«Ha mosso la coda!» gridò infine, fissando con odio il pesce e allontanandolo ancora di più con un gesto violento della mano.
Lui tornò di nuovo nella sua stanza e si mise a letto, stavolta sotto le coperte. Sfogliò alcuni libri che erano sul comodino, leggendo una frase qua e una là senza riuscire a iniziarne alcuno. Staccò dal muro il quadretto con la cartina geografica d'Italia. Si accomodò col cuscino dietro le reni e cominciò ad osservare con grande stupore la cartina. In alto c'era scritto: L'Italia prima del '59. La penisola era divisa in numerosi pezzi dai colori diversi e c'erano macchie grandi, dilaganti, e altre più piccole e più scure incuneate tra estensioni più chiare o tratteggiate. Sui vari pezzi colorati si poteva leggere: Casa di Savoia, Svizzera, Austria, duchi di Parma e Pia¬cenza, Casa d'Este, Casa di Lorena, Stati della Chiesa, Francia, Borboni, Inghilterra.

Uscendo passò davanti al gabinetto. La porta era aperta. Dentro, la bambina stava facendo il bagno in un recipiente di plastica contenuto a sua volta nella vasca da bagno.
Entrò a salutarla. La bambina, seduta nella vaschetta, era circondata da tutti gli animaletti che galleggiavano nell'acqua assieme a un paio di barche, una nave da crociera con numerosi minuscoli oblò, una grossa cipolla e due pesciolini a molla che si muovevano tra gli altri animaletti facendo vibrare la coda. Si era portata nell'acqua anche alcune lettere dell'alfabeto che però, a causa della piccola calamita, erano scese sul fondo. L'acqua era già un po' insaponata e si distinguevano appena.
«Ti serve qualcosa oggi?» chiese la bambina.
Lui sedette sul bordo della vasca da bagno:
«Sì, mi occorre un libro di elettrotecnica e una ruota dentata del diametro di otto centimetri. Solo che oggi è domenica, i negozi sono chiusi, credo che non riusciremo a trovarli...»
La bambina abbassò la testa, tenendosi per un po' la fronte con la piccola mano in evidente concentrazione:
«Non ti preoccupare, credo di avere trovato la soluzione. So chi mi può aiutare.»
Mentre lui stava uscendo, la bambina lo richiamò indietro: «Non hai visto cosa c'è sul tuo comodino?»
«No.»
«Va' a vedere, allora!»
Lui ritornò nella sua stanza: affondato tra le pagine di un libro aperto, quasi invisibile nella scriminatura, c'era un dentino poco più grande di un chicco di riso; un puntino rosso nella minuscola radice indicava il canalicolo da cui erano passati i vasi sanguigni e le terminazioni nervose.
Prese il dentino e tornò nel gabinetto.
«Quando lo hai messo lì?» chiese alla bambina, sedendosi di nuovo sul bordo della vasca.
«Stanotte.»
«Non ti ho sentita.»
«Ho fatto pianissimo. Dormivi.»
La bambina si sollevò il labbro, scoprendo la gengiva:
«Convinto, adesso?»
«Cominci già a cambiare i denti... Sei precoce!»
«Cosa vuol dire "precoce"?»
«Che matura prima del tempo.»
La bambina pareva emozionata. Girò la testa da una parte, affondò una mano nell'acqua e cominciò a muoverla facendo ondeggiare tutto il bran-co degli animaletti ammassati.
Rivide la bambina a pranzo. Era intento a lavorare nella sua stanza e pensava che fosse molto più presto, quando aveva sentito la canzone della bambina, talmente accelerata da sembrare l'accompagnamento di un vecchio film muto. Era sceso. La bambina gli si era accostata. Senza farsi sentire dagli altri gli aveva sussurrato all'orecchio:
«E tutto a posto, ho trovato tutto!»

La bambina era sul letto. Giocava con gli animaletti ed era completa-mente assorta. In mezzo al grande branco c'erano alcune piccole case e tutt'intorno, a mo' di recinto, correvano le lettere dell'alfabeto.
La bambina si accorse di lui quando era ormai a un metro di distanza. Alzò la testa. Un po' tesa gli disse:
«Guarda cos'ho qui...»
Cominciò a rovistare sotto una calza, estraendo un foglio di carta appallottolato.
«Guarda» lo invitò ancora, distendendo il foglio.
Vi era disegnata una figura con la testa piccolissima, per metà fuori dal foglio, e una grandissima veste che si allargava sempre di più man mano che scendeva verso il basso. Anche i piedi non erano contenuti nel foglio.
«Sono io!» spiegò la bambina.
Poi appallottolò di nuovo il foglio, lo rimise sotto la calza, si sollevò il vestito e abbassò le piccole mutande: c'erano anche lì alcuni animaletti ammassati, che si affollavano e si aggrovigliavano con le loro ali, le loro zampette, le loro proboscidi e le loro zanne.
«Voglio uscire!» disse improvvisamente la bambina, mettendo anche quegli animaletti in mezzo al branco. «Portami fuori.»
Uscirono assieme dalla casa, incamminandosi verso un parco giochi poco distante. La bambina faceva l'equilibrista sui bordi dei marciapiedi, chiudeva gli occhi, fingeva di essere cieca:
«Dimmi tu quando c'è uno scalino!»
Arrivarono. Lui sedette su una panchina e rimase a guardarla mentre giocava. Ogni tanto la bambina gli portava piccoli oggetti dissotterrati: una chiave arrugginita, una piuma caduta a un colombo, un brandello di giornale.
Vedendola correre continuamente verso la panchina, un grosso cane le si era avvicinato e aveva cominciato a seguirla. Alcune donne sedute poco distante stavano raccontando di due cani che il giorno prima avevano sbranato un altro cane proprio lì al parco giochi. Nella storia c'era anche un cane cui di notte avevano tagliato entrambe le orecchie, ma non si capiva se quest'ultimo era lo sbranato o uno degli sbranatori.
Durante una delle numerose corse verso di lui, la bambina si era spaventata. Gridava, mentre il cane la spingeva da dietro con le zampe. Cercando di fuggire più velocemente, era caduta con le mani e le ginocchia per terra. Il cane allora le era balzato sopra, aveva calato le zampe sulle sue spalle muovendosi contro di lei come per montare. Solo a questo punto era sbucato il padrone del cane, che aveva allontanato la bestia. Mentre si avvicinava, lui aveva sentito che l'uomo stava dicendo alla bambina:
«Non dovevi metterti a gridare così!»
Tornarono a casa prima del previsto. Dopo cena la bambina passò nella sua stanza per salutarlo. Lui era coricato da un po' di tempo sul letto e non si decideva a mettersi sotto le coperte.
 
«Cos'hai? Non stai bene?» chiese sottovoce la bambina.
«Non so, mi scoppia la testa» rispose lui.
La bambina gli si sedette accanto, prendendogli la testa fra le mani:
«Stai calmo, vedrai che un po' alla volta ti passa. Adesso ti cullo.»

Non vedeva la bambina da mezza giornata. All'ora di pranzo aveva voluto che le portassero da mangiare su in camera. Forse era malata. Eppure, quando l'aveva vista di prima mattina, gli era sembrata perfettamente in salute. Lo aveva chiamato in camera sua e gli aveva chiesto:
«E oggi cos'è?»
Lui aveva guardato attentamente dentro il vasino:
«La lettera L.»
«Sbagliato, è la lingua!»
Nelle prime ore del pomeriggio aveva cercato di raggiungerla in camera, ma la porta era chiusa a chiave dal di dentro. Aveva bussato, ma senza ottenere risposta.
Era tornato in camera sua, pensando di lavorare un po'. Mentre si chinava sotto il letto per far scivolare fuori il lavoro si era accorto che qualcosa non andava: la coperta era leggermente sollevata in un punto, come se qualcuno l'avesse abbassata in fretta, e male, sentendolo arrivare. Fece scivolare fuori il lavoro e subito si rese conto che era stato toccato, che qualcuno ci aveva messo le mani; se ne accorgeva- da alcuni piccoli spostamenti, da alcune ingenuità nel cercare di rimettere tutto quanto a posto come prima. Chi poteva essere stato? Aveva nascosto il suo lavoro lì perché gli sembrava il posto più sicuro, con quell'enorme coperta che scendeva fino a sfiorare il pavimento. Tanto più che il letto lo faceva sempre lui. Eppure qualcuno lo aveva trovato, lo aveva guardato, ci aveva messo le mani.
Rivide la bambina soltanto a ora di cena. Era scesa un po' in ritardo, aveva suonato il suo motivetto senza aspettare che glielo chiedessero e si era seduta a tavola senza guardarlo. Aveva mangiato poco, nonostante gli altri cercassero di invogliarla. Prima di risalire in camera aveva trovato il modo di incrociare il suo sguardo con quello di lui. Lo aveva guardato per un attimo diritto negli occhi con espressione ferita, disperata.
Un'ora dopo, salendo in camera sua, lui aveva visto di fronte alla porta chiusa della bambina l'intero branco degli animaletti. Era la prima volta che li teneva fuori. Sul pavimento c'erano anche un paio di piccole mutande; dentro, la bambina ci aveva ammucchiato tutte le lettere dell'alfabeto.
Lui era passato oltre, sollevando bene i piedi e mettendoli nei pochi spazi liberi per non schiacciare qualche animaletto. Era entrato in camera sua, si era spogliato e messo a letto col proposito di addormentarsi subito. Ma, man mano che il tempo passava, si sentiva sempre più inquieto.

Da quel giorno la bambina aveva smesso di giocare col branco di animaletti. Passava il tempo da sola, chiusa nella sua camera, e non mangiava quasi. Se gli altri la forzavano, impallidiva, le venivano le lacrime agli occhi, si copriva la bocca con la mano cercando di resistere ai conati di vomito.
Nella sua stanza aveva radunato tutti gli stracci, i ritagli, i brandelli di vecchi vestiti trovati in casa, e con questi faceva mantelli, turbanti, strascichi stracciati nei quali avvolgeva le bambole, da quelle più grandi a certi bambolotti lunghi pochi centimetri che, infagottati là dentro, scomparivano quasi. E non vestiva solo bambole ma anche oggetti qualsiasi che trovava nella stanza. Prendeva dal suo cassetto tutte le mutande che trovava e le faceva indossare a barattoli, libri, sveglie, termometri, piccoli specchi.
Un giorno lui aveva aperto la cella del frigorifero e vi aveva trovato dentro un paio di mutande della bambina, tutte schiacciate sul fondo, dure, gelate. Ne era rimasto turbato, «Certo, certo...» aveva pensato. Toccava a lui, dopo tutto, trovare il modo di parlarle ancora.
Quel giorno non era stato in grado di lavorare. Era uscito, aveva camminato per parecchie ore senza potersi calmare del tutto. Era rientrato a casa molto tardi, aveva girato piano la chiave nella serratura, cercando di non svegliare gli altri. Si era tolto le scarpe prima di salire le scale senza accendere la luce. La porta della sua stanza era socchiusa. Infilata una mano nello spiraglio, aveva acceso la luce, pronto a chiudere in fretta la porta appena entrato. Ma proprio in quel brevissimo intervallo di tempo vide qualcosa di strano per terra. Aprì maggiormente la porta, in modo che la luce accesa nella stanza allungasse il suo angolo fin lì. Ma ancora non capiva. Allora accese la luce del pianerottolo: erano le mutande della bambina, stavolta riempite con avanzi di cibo, strisce di grasso, probabilmente i bordi di alcune fette di prosciutto, croste di formaggio, una palla di mollica di pane, i resti di due ali di pollo.
Sentì che in un attimo la testa gli si era riempita di sangue. Tremava, non riusciva a controllarsi. Avvolse in qualche modo gli avanzi di cibo nelle mutande, ridiscese le scale e andò a buttarli nella pattumiera. Ritornò su. Si avvicinò alla porta della bambina e, senza provare ad aprirla, batté forte il pugno, una sola volta, contro di essa, e nel silenzio della casa gli parve di avvertire confusamente i battiti del cuore della bambina che, svegliato di colpo nella notte, pulsava tanto forte da spalancare il piccolo corpo, dilagando fino agli angoli della stanza.
Rimase alcuni secondi davanti alla porta. Si aspettava di veder pulsare anch'essa, investita dalle progressive onde d'urto sprigionate da quel piccolo cuore.
Spense la luce nel pianerottolo ed entrò in camera sua. Si sentiva sfinito e nello stesso tempo carico di un'elettricità che non riusciva a disperdere. Si buttò sul letto e prese in mano la cartina d'Italia, ma neppure essa, quella sera, riusciva a dargli pace. Fece scivolare fuori il suo lavoro da sotto il letto, lo mise sul tavolino. Lavorò per un po', calcolò quanto gli restava ancora da fare, diede un'occhiata ai materiali che aveva raccolto durante tutti quei mesi. Poi rimise tutto sotto il letto e tornò a coricarsi, anche se sapeva che non avrebbe dormito.
Finalmente arrivò la mattina.
Si vestì e uscì dalla stanza. Sulla cassapanca di fronte c'erano le mutande della bambina, stavolta indossate da un ferro da stiro. Improvvisamente si ricordò con chiarezza di quanto era successo la sera prima, e allora provò un forte desiderio di parlare con lei e, senza tentare la maniglia con la mano, bussò tre o quattro volte, molto leggermente.
«Posso entrare?» chiese con gentilezza.
Un attimo dopo avvertì alcuni piccoli rumori all'interno, probabilmente piedini nudi sul pavimento. Di nuovo silenzio. Finalmente sentì la chiave girare nella serratura, un rumore molto leggero che pareva venire da lontano.
Attese ancora un po' fuori dalla porta, poi entrò. La bambina aveva avuto il tempo di tornare a letto. Era immobile, seduta con le braccia attorno alle ginocchia, e indossava la sua camicia da notte più lunga, che le scendeva fino ai piedi. Aveva il viso stanco, segnato dalle occhiaie e un po' sciupato, come se fosse invecchiata di molti anni nell'arco di una sola notte.
Lui si mise a passeggiare per la stanza. Non sapeva come cominciare. «Siediti pure!» lo invitò la bambina, indicando con la mano un punto del letto vicino a sé.
Lui sedette. Con le mani le strinse entrambe le spalle all'altezza delle scapole, la scosse due o tre volte, e intanto sentiva perfettamente sotto le dita gli ossicini della bambina, tutto il piccolo scheletro che si muoveva in ogni articolazione sotto le sollecitazioni delle sue scosse.
«Hai bisogno di qualcosa?» chiese dopo un po' la bambina, senza sollevare Io sguardo.
Lui si alzò da sedere e riprese a camminare per la stanza.
«Sì, ma è l'ultima volta che te lo chiedo. Il fatto è che devo fare una prova, è sempre per quel lavoro... tu ormai sai tutto, hai visto, no?» La bambina taceva, immobile. Lui continuò:
«Mi serve un motorino. Quello di un piccolo aeroplano per esempio Lo so che è molto difficile... bisognerebbe conoscere qualcuno appassionato di modellismo... Mi basterebbe averlo per un paio di giorni.»
La bambina continuava a non guardarlo. Teneva gli occhi bassi e taceva. Lui, non sapendo più cosa fare, le aveva stretto un braccio con la mano, e si era alzato:
«Scusami, ti ho chiesto una cosa impossibile.»
Aveva attraversato la stanza. Proprio mentre stava uscendo, la voce della bambina lo aveva chiamato:
«Aspetta!»
Si era girato. La bambina aveva emesso un sospiro profondissimo: sembra impossibile che appena un attimo prima il suo piccolo corpo avesse potuto contenerlo.
«E va bene... sarà molto difficile, ma ce la farò!» disse infine.
E anche pronunciando queste parole non aveva alzato gli occhi un solo momento per guardarlo.

I giorni successivi la bambina li passò in febbrile agitazione. Usciva anche due volte al giorno con la piccola bicicletta, era tesa, concentrata, completamente chiusa in se stessa.
Una sera, prima di cena, lui sentì bussare alla porta della sua stanza. Rimise velocemente il lavoro sotto il letto e andò ad aprire: era la bambina. Camminava piano e con fatica, sembrava infinitamente stanca. In mano teneva un motorino. Lo posò su una sedia.
«Eccolo!» disse, guardandolo in viso per la prima volta dopo tanti giorni.
Era pallidissima. Lui non sapeva cosa pensare di quell'insolito atteggia-mento.
La bambina spostò distrattamente alcuni soprammobili con la mano. Lui la guardò meglio e si accorse che tremava.
«Cosa succede?» le chiese.
La bambina non rispose, sembrava impietrita.
Lui si sedette sul pavimento, per diventare più piccolo di lei. Quando sollevò lo sguardo vide che, in piedi di fronte a lui, la bambina aveva alzato la minuscola gonna con le mani: c'era sangue fresco dappertutto, colava lungo le piccole cosce, anche le calze ne erano impregnate.
Lui rimase per un attimo confuso, sentì che non riusciva a respirare. Per una frazione di tempo infinitamente breve gli parve di essere sul punto di alzare le mani su di lei, per annientarla. Levò gli occhi sbalordito, incrociando lo sguardo della bambina: il suo piccolo volto sembrava sul punto di scoppiare. Allora abbassò gli occhi; avvertiva che, se l'avesse guardata un secondo di più, sarebbe morta. Strappandola dalle piccole mani contratte, abbassò la gonna della bambina, che intanto aveva cominciato irrefrenabilmente a parlare:
«Aveva i capelli bianchi e gli occhi rossi. Albino, si dice... Erano tre giorni che andavo là. L'ultima volta che ero stata a casa sua avevo visto tanti piccoli pezzi di legno attaccati al muro. Erano bianchi bianchi. Avevo chiesto cos'erano, lui mi aveva risposto che suo fratello costruiva da solo piccoli aeroplani.
«Per questo sono tornata là. Quando ormai avevo perso la speranza, lui è uscito da un porta. Io non ricordavo dove abitava di preciso, se no avrei suonato subito. Gli sono andata vicino e gli ho chiesto se poteva prestarmi il motore di un piccolo aeroplano. Solo per due giorni. Lui mi ha fatto entrare in casa, mi ha portato nella stanza del fratello e allora ho rivisto quei pezzi di legno tutti bianchi che erano attaccati al muro. Qualche pezzo era anche sul tavolo e lui ne ha preso in mano uno e mi ha detto che potevo toccarlo anch'io. Era leggero e non sembrava neanche di legno, sembrava un osso di seppia. Lui mi ha detto che si chiamava legno di balsa e che si poteva segnare anche con l'unghia. Mi ha fatto vedere che era vero.
«Sul tavolo c'erano anche due aeroplani finiti, con le ali molto lunghe e tutte colorate. E anche dei motori, tanti, almeno dieci o anche di più. C'era un odore che faceva star male. Lui mi ha detto che era etere e che serviva per i motori. Se uno lo respirava per un po', prima stava male e poi si addormentava.
«Mi ha portato fuori di lì e siamo andati a sederci sul bordo di una specie di porta sopra un canale. Che poi non era una porta perché la porta non c'era, quella che si apre e si chiude, c'era solo il segno, era una porta senza porta e se non si sta attenti si può anche cadere nel canale. La sua mamma non c'era e a me dispiaceva perché l'avevo vista una volta e mi aveva dato un grappolo d'uva. Non c'era nessuno. Eravamo seduti sul bordo di questa porta che non è una porta e l'acqua passava appena sotto le nostre scarpe. C'erano altre case di fronte e di fianco, tutte si affacciava-no su quel canale e tutte avevano quella porta senza porta. Lui mi ha detto che lì tutte le case avevano una porta per uscire in strada e un'altra sul canale, però il bagno non si poteva fare perché l'acqua era piena di alghe, lamiere, bottiglie rotte, immondizie e pesci gatto. Infatti bastava guardare giù e si vedevano delle cose nere lunghe lunghe che si muovevano nell'acqua. Sembravano capelli. "Dovresti buttare giù uno dei tuoi capelli!" ho detto a lui, perché pensavo che si sarebbe visto benissimo in mezzo a tutte quelle alghe nere, e poi sarebbe cresciuto e diventato lunghissimo. Lui si è strappato un capello e l'ha buttato nell'acqua, ma la corrente l'ha tirato giù in un secondo. E andato a finire in mezzo a quelle alghe nere e non si è visto più. "Allora dovresti buttarceli dentro tutti!" gli ho detto. Lui si è messo a parlare di altre cose. Io lo ascoltavo per gentilezza, ma stavo un po' male per quella cosa che avevo respirato. Lui mi ha detto che forse poteva chiedere il motore a suo fratello. Poi è rimasto per molto tempo in silenzio. "Dipende da te!" ha detto alla fine.
«Sono tornata a casa e, avrai visto, ero molto preoccupata. Non sapevo cosa fare. Ieri poi mi sono decisa. Ho preso la bicicletta e sono andata là. La sua mamma non c'era ancora. Lui mi ha detto che andava a fare dei lavori in una casa lì vicino. Siamo entrati nella stanza degli aeroplani e sul tavolo c'era un motore un po' lontano dagli altri, e molto più lucido. "Questo è per te!" mi ha detto. Io stavo lì a guardare e non sapevo cosa fare. "E allora?" ha detto ancora lui. Mi sono preparata e lui mi ha fatto sedere per terra in un angolo, perché se no quelli delle case vicine mi potevano vedere dal finestrone. In quel momento è entrato nella stanza un suo amico che avevo già visto qualche volta. Io ho detto di no. Ma lui mi ha detto che anche quell'altro voleva vedere. Io gli ho risposto che proprio non me la sentivo. Allora lui ha detto: "Ti faccio respirare un po' di etere, così non ci fai più caso." "Speriamo!" gli ho detto. E allora lui mi ha fatto annusare una boccetta. Mi sono sentita un po' male e lui mi fissava da vicino, con gli occhi rossi, e mi ha spinto anche dentro la punta del dito e anche l'altro era venuto vicino vicino con la testa per guardare meglio. Poi lui ha preso una manciata di piccole eliche e mi ha chiesto se poteva metterne dentro una per vedere fin dove arrivava. Io ero un po' preoccupata, ma lui per fortuna mi ha fatto annusare ancora quella boccetta. Poi ha avvicinato l'elica e io gli ho detto che quella lì era troppo lucida e mi faceva paura, allora lui ne ha preso una più vecchia, che era tutta arrugginita ma non aveva quel lucido che mi spaventava.
«Io non parlavo, pensavo: "Ma sì, basta che facciamo presto! Ancora un po' ed è tutto finito." Ma lui ha spinto molto e io ho sentito un grande male. Allora ho pensato: "Adesso devo morire." Loro si sono spaventati e sono scappati fuori dalla stanza. Ma poi sono rientrati e sentivo che dicevano: "Cosa facciamo?" "Buttiamola nel canale!" Loro credevano che non li sentivo. "Va bene, ma facciamo presto, prima che arrivi la mamma!" diceva uno. E allora l'altro è venuto molto vicino, ha toccato l'elica con la mano e poi l'ha schiacciata dentro ancora di più per essere sicuro che fossi morta proprio per sempre.
«A sentire di nuovo quel grande male io sono riuscita ad aprire gli occhi e ho visto tutto il sangue, allora mi sono spaventata, mi sono alzata per scappare via. Quando mi hanno vista di nuovo in piedi, loro si sono messi a gridare e più gridavano e più si spaventavano e avevano tutti e due la tremarella. Poi si è sentito suonare e uno di loro è andato ad aprire la porta. Era arrivata la mamma. Io ero ormai vicina alla porta, tutta piegata per il male, e la mamma quando è passata ha creduto che scherzassi e non mi ha neppure guardata. Ho paura di averle fatto una cattiva impressione.
«Sono uscita, senza dimenticare il motore, ho preso la bicicletta. Anche se mi faceva paura ho tirato per far uscire l'elica e poi l'ho buttata in un buco del tombino che c'era in mezzo al cortile. Ma non ce l'ho fatta lo stesso a sedermi sulla bicicletta e sono venuta a casa a piedi piano piano.
«Ma adesso è tutto finito. Abbi pazienza, vedi se riesci a pulirmi prima che vedano gli altri...»
Lui la prese in braccio e la portò nel bagno. Chiuse la porta a chiave, la spogliò e la mise in piedi nella vasca. Con la doccetta le tolse il sangue da tutto il corpo, fin dalla pianta dei piedi dove se ne era seccata qualche goccia. La bambina, per non scivolare sulla superficie liscia e bagnata della vasca, gli aveva abbracciato la testa col suo piccolo braccio.
La mattina. del giorno dopo la bambina lo chiamò in camera sua. Era ancora a letto
Lui si sedette accanto a lei.
«Questa notte non ho chiuso occhio» disse la bambina. «Io fra poco morirò. Cosa farai tu adesso, da solo? Questo pensiero non mi dà pace.»
Nei giorni successivi, con una precisione da manuale, le tossine del bacillo del tetano si diffusero in tutto il corpo della bambina. In un primo tempo le si contrassero i muscoli della mandibola, poi quelli della nuca, del tronco e degli arti, che incurvarono a ponte il piccolo corpo. Il riso della bambina era diventato sardonico per la contrazione dei muscoli facciali.
Il giorno che la portarono all'ospedale l'autoambulanza era entrata fin dentro il cortile di casa. Avevano portato giù la bambina. Sotto la coperta stesa sulla barella pareva ci fosse qualche oggetto irrigidito: uno strumento musicale, un attrezzo da lavoro, un lampadario.
La sera stessa lui era entrato nella camera della bambina. Era tutto in ordine: le due paia di ciabattine erano ben allineate sotto il letto, il branco degli animaletti era in un fustino vuoto di detersivo per lavatrici e le lettere dell'alfabeto erano tutte attaccate alla lavagnetta metallica, alli¬neate in tre file esatte.
Provò a leggere:
ABCDEFGHILNMOPQRSTUVZ.
Macchinalmente scambiò la M con la N.

Guardava la bambina da lontano. La sua faccia era diventata ossuta, i capelli sembravano cresciuti a dismisura sul cuscino. Ormai la rigidità si era estesa ai muscoli della faringe e della laringe, deglutiva e respirava con fatica e c'era pericolo che morisse per asfissia.
«Il cervello invece è lucidissimo» sussurrò il medico alle sue spalle.
La bambina girò la testa verso di lui, lo guardò a lungo, poi, con uno
sforzo che doveva costarle enormi difficoltà, digrignò i denti. «Sta cercando di sorriderle» disse il medico.
«Lei crede? Ne è sicuro?»

Quando la bambina, dopo essere stata a lungo tra la vita e la morte, tornò a casa, lui si trovava in camera sua, buttato sul letto. Con la faccia girata verso il muro guardava le macchie di colore sulla cartina dell'Italia; da lontano, senza staccarla dalla parete. Si sentiva esausto, forse a causa della grande agitazione che l'aveva preso alla notizia del ritorno della bambina. L'aspettava per il pomeriggio e quando sentì alcune voci con-citate ai piano di sotto e le prime note, appena accennate, della solita canzoncina, saltò giù dal letto, infilò le scarpe, si aggiustò i capelli di fronte allo specchio. Ma poi, mentre scendeva le scale, si sentì soffocare. Poteva sempre ritornare a letto e far finta di essersi addormentato... In questo caso niente di strano che non avesse sentito nulla e non fosse sceso.
Rientrò in camera cercando di non fare rumore. Si rimise sul letto con la faccia incuneata nell'angolo formato dall'incontro delle due pareti. La porta era quasi alle sue spalle, per cui poteva anche tenere gli occhi aperti senza essere visto. Per sicurezza li chiuse.
Ancora per una decina di minuti continuò a sentire quelle voci concitate al piano di sotto. Una voce che non conosceva gridava letteralmente. La voce della bambina, sommersa da tutte le altre, non si sentiva.
 
Passò ancora del tempo. Non sapeva cosa fare. D'altra parte ormai non poteva più scendere facendo finta di niente. D'un tratto le voci cessarono. Si sentì ancora per un paio di volte un mormorio, poi più niente. Cosa
stavano facendo? Perché la bambina non si decideva a salire, togliendolo da quella terribile situazione?
Stare immobile nel letto gli era divenuto ormai insostenibile. Ma passò molto tempo prima che la bambina salisse. Forse, quando infine sentì l'inconfondibile rumore dei suoi passi, lui si era veramente assopito. Capì che la bambina stava passando davanti alla porta aperta della sua stanza, che si era fermata trattenendo il respiro. Sentiva che Io stava guardando da dietro. «Se sta ancora lì un minuto, faccio finta di svegliarmi e mi volto» pensò «Ma dovrebbe fare almeno qualche piccolo rumore per darmene il pretesto. Perché non fa almeno un piccolo rumore?»
Il silenzio era assoluto. Nel momento in cui lui si stava preparando a simulare il risveglio, rinunciando anche al pretesto del rumore, la bambina si allontanò dalla porta e ridiscese in fretta le scale.
Verso l'ora di pranzo gli parve di capire che al piano di sotto qualcuno stesse chiedendo alla bambina di salire a chiamarlo. Sentì i piccoli passi lungo le scale. Stavolta iniziò subito i preparativi per simulare il risveglio. Quando la bambina entrò nella stanza, lui era intento a grattarsi la testa
rigirandosi un'ultima volta nel letto con gli occhi semiaperti. «Ciao» disse la bambina.
E, con cortesia persino eccessiva, gli si era avvicinata* e gli aveva dato cerimoniosamente la mano.
Lui si alzò a sedere sul letto e la guardò: era diventata più alta, più slanciata, e con i capelli tagliati corti era quasi irriconoscibile. Sembrava a disagio mentre lui le tratteneva la mano nella sua, impedendole di staccar-si. Era intimidita, distante, come davanti a un estraneo.
«E allora?» le chiese lui sottovoce, cercando di ristabilire il contatto.
Le strinse le piccole braccia con entrambe le mani, scuotendola leggermente.
«Mah...» rispose la bambina, guardando insistentemente verso la porta «non so cosa dirti.»
Da tutta una serie di piccoli segnali, anche se nessuno gli aveva mai detto niente, capì che non poteva più fermarsi in quel posto.
Fece scivolare fuori il lavoro da sotto il letto. Come avrebbe fatto a trasportarlo in buono stato, per poter continuare a lavorarci sopra altro-ve? Lo mise sul tavolo e iniziò a esaminarlo. Era ancora difficile raccapezzarsi, ma lui intravedeva già le linee di tendenza. Per il momento si vedeva solo un ammasso di piccoli ingranaggi, minuscole cinghie, pistoncini e stantuffi, striscioline di pelle animale con qualche pelo ancora attaccato e altre piccole cose, ma lui sapeva che, quando il progetto sarebbe stato ultimato, mediante un piccolo interruttore avrebbe potuto azionare un motorino d'aereo che avrebbe messo in moto l'intero macchinario e si sarebbero aggiunti pezzi di nastri registrati, spezzoni di pellicola che, passando su appositi dentini o accanto a un elettromagnete, avrebbero iniziato a cantare o a declamare o a rappresentare o a esprimere con ogni possibilità di variazione e di scambio e di perfezionamento e allora, accendendosi tutto il ticchettio della piccola macchina, si sarebbe visto su una minuscola porzione di muro un piccolo raggio di luce recante l'immagine di una persona sola in una stanza, intenta a decifrare la superficie di una fetta di formaggio o di una grande folla che prendeva d'assalto un palazzo o di un gran viavai di oggetti che entravano e uscivano da una vagina nel momento in cui una voce stentorea avrebbe gridato: «Ditemi la verità o tacete!», mentre poco più in là un piccolo serbatoio di plastica, non accogliendo nessuna delle due richieste, avrebbe espulso una decina di semi di zucca abbrustoliti che, battendo su un piattino, avrebbero azionato un piccolo braccio metallico che, facendo passare su un pettine un dentino appositamente incapsulato, poco più grande di un chicco di riso, lo avrebbe reso musicale.
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