Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Ercolani e Lucetta Frisa
Il dovere d'amore

Da Monsieur de la Rochefoucauld a Madame de la Fayette

Parigi, 8 settembre 1679

Signora,
nel romanzo che un giorno scrivemmo insieme, voi, con la voce della principessa di Clèves, affermate stupita: «E mai possibile che una confessione come la mia non sia del tutto sincera, una confessione che nulla e nessuno mi costringeva a fare!».
Nella letteratura del nostro secolo, quale personaggio femminile avrebbe mai osato svelare al marito, come osò la nostra principessa, l'adulterio che avrebbe potuto commettere e non commise? C'è della grandezza perversa nella sua confessione, una sincerità che esalta la necessità del desiderio e la bellezza sublime di una passione non consumata, non immiserita a tradimento banale o basso piacere d'alcova, ma espressa come parola, come estasi della confessione. Ma la principessa di Clèves oserà di più: rimasta vedova, non si concederà all'amato duca di Nemours, negandogli-si con inflessibile tenacia fino alla propria morte terrena.
Questa decisione ostinata e paradossale entra oggi nei miei sonni come una sorpresa sgradevole. Da alcuni giorni non vi vedo, signora. Non vi fa-te trovare ai miei inviti, rispondete ai miei messaggi con missive laconiche. Non so cosa pensare. So bene che non amar troppo in amore è un mezzo sicuro per essere amati, ma ciò non mi consola da quello che provo: un malessere acuto e opprimente, una febbre di cui non controllo la violenza e la durata. C'è un eccesso, nel bene e nel male, che oltrepassa la nostra sensibilità e ci costringe alla sofferenza. Un tempo, parlando d'amore, dicevo che era un desiderio delicato e nascosto di possedere, dopo tanti misteri, ciò che si ama. Oggi so che non arrivo neppure a capire i vostri silenzi.
Ricordo solo la storia di Alfonso e Bélasire, che aveste l'ardire di scrivere, voi, la più nascosta delle donne di Francia, voi che terreste segreto il vostro nome anche a voi stessa: geloso del morto che Bélasire non amava e del vivo che non amava Bélasire, alla fine Alfonso uccide il vivo, l'amico Manrico. E Bélasire si chiude in un convento.
Qual è il vostro convento, mia Signora delle Nebbie? Di quale paesaggio o luogo o pensiero devo essere geloso? Io vi vedo, la testa coperta dal velo, giocare ancora al lupo. Non volete essere guardata, forse neppure pensata. Ma l'amore si nutre di dubbi e il dubbio di gelosie. Nessuna vanità può aiutarmi a sopportare le fitte di questo sentimento che mi umilia e mi costringe a interrogare, a volere. Se voi rifiutate lo sguardo, io sono qui, accecato dal desiderio di vedere.
Dovete perdonare l'ingenuità di questa lettera, ma io ho sempre amato la chiarezza della ragione: è l'unica virtù che riconosco alla mia mediocrità. Certo, potreste obiettarmi – Chiunque conosca la propria mente non conosce il proprio cuore – e io dovrei tacere, sotto il peso delle mie stesse parole. Ma, non essendo più certo di nulla, né della mente né del cuore, pur sapendo bene che il mondo è composto di maschere che offendono l'una come l'altro, non comprendo la vostra, Madame, e a causa di questa mia ottusità sono costretto a interrogarvi, a essere inflessibile come se limassi una delle mie spietate sentenze per la futura edizione parigina.
Vorrei farvi una domanda, e la formulerò con prudenza: in quale di queste figure, che ora vi enuncerò, riconoscete con più verità Francois de la Rochefoucauld? Il soldato vittorioso, l'amante fedele, lo scrittore acuto, l'amico affettuoso?
Voi proclamate con eccessiva facilità di amarmi – a volte non c'è nep¬pure bisogno che ve lo chieda – ma io diffido di queste confessioni troppo naturali: voi lo dite per non inquietarmi, perché da anni mi concedete senza pudori il vostro corpo e non volete che io soffra o pensi nulla in me-rito a questo dono (anche se in certe notti io provo la certezza che voi mi amiate senza complicazioni e senza inquietudini, con assoluto trasporto).
Ma fra di noi c'è e ci sarà sempre la principessa di Clèves: il desiderio che resta desiderio, l'amore che non sarà mai l'abbraccio fra due amanti, la passione fierissima della rinuncia. Le scelte terribili del nostro personaggio mi fanno tremare ogni volta che vi possiedo. Mi chiedo addirittura se non sia una banalità, una miseria, una pochezza, baciare la vostra pelle delicata e bianca. E talvolta le vostre carezze reali mi sembrano ambigue, come il regalo distratto concesso al servo che non si ama abbastanza da dimenticare il suo corpo.
Neutro e impersonale, ho inchiodato la natura umana al suo egoismo. Ho giocato fino all'ultimo la mia follia: essere saggio da solo. Ma proprio per questa solitudine da chirurgo, avendo dissezionato e analizzato, scrutato e definito, mi trovo oggi di fronte a voi, indefinibile, e non so nulla e la vostra assenza di oggi mi turba come la vostra presenza di ieri.
Io devo sapere la verità, signora, o non sarei più Francois de la Rochefoucauld. Una volta dissi che la caratteristica di una donna è quella di non avere nulla che possa lasciare il segno. Sbagliavo. Ve lo ripeto ancora, Marie-Madeleine Pioche de la Vergne, mio amore da sempre, mio tesoro, segno della mia vita su questa terra.
Chi sono io per voi?
O avete forse giurato fedeltà, per interposta persona, alla maschera della principessa di Clèves? O al vostro nobile marito, Monsieur Francois de la Fayette, gentiluomo mite e integerrimo, di diciotto anni più anziano di voi, che per sinistra coincidenza porta il mio stesso nome di battesimo?
La realtà imita il nostro, il vostro romanzo. Sono mortificato.
Non dirò, con voi, che le passioni guidano senza accecare: dirò che accecano senza guidare (e qui dovrete ammettere con me che La Rochefoucauld, l'alchimista delle antitesi, l'architetto delle sentenze, il re delle massime, è trafitto, per nemesi, dal suo stesso stile).
Se voi avete mostrato la purezza della passione a questo secolo libertino e mondano, io, Francois de la Rochefoucauld, che parte interpreto, da quasi vent'anni? Quella, forse, di futile strumento di un appetito sessuale, dove ogni abbraccio condiviso e ogni bacio corrisposto sono angosce più infernali del peggiore rifiuto, perché testimoniano la vostra totale mancanza d'amore?
Se per voi, Madeleine, io sono l'amore consumato, come potrei essere anche il desiderio inconsumabile? E se è così, perché ci vediamo ancora? Per quell'ignoto amante voi risparmiate voi stessa, tradendomi con un rivale che non potrò mai contrastare, con un fantasma che non potrò mai infilzare con il fioretto di una sentenza?
Tocca a voi, signora, sciogliermi dall'incubo o non potrò più vivere nessun attimo d'amore con voi. Ne va della mia vita e del mio equilibrio mentale. L'impeccabile armonia delle mie massime, ormai, è un gioco di cui ho perso il piacere e di cui voglio dimenticare il segreto.
Un'ultima domanda – la più crudele.
Se per caso morissi, se la fiamma La Rochefoucauld vi lasciasse sola, cosa accadrebbe? Mi piangereste come l'uomo che avete realmente amato o come la signora del demi-monde piange la morte del delizioso soriano che non può più accarezzare nell'ozio delle sue Domeniche in campagna? Io propendo per la seconda ipotesi: dopo un tempo più o meno lungo di malinconiche fantasticherie davanti al camino semispento, dopo un convenzionale periodo di lutto, non farete fatica a sostituirmi con un'altra fiamma pronta a riscaldarvi, come feci io per anni, le mani e i piedi gelati.
Rispondetemi – è vero quello che temo? Aiutatemi.
A presto, signora.
Vostro Francois
 
Da Madame de la Fayette a Monsieur de la Roche foucauld

Sainte Marie de Chaillot, 12 settembre 1679

Signore,
voi mi sorprendete e il fatto di sorprendermi così fortemente ha su di me il potere di una indefinibile ebbrezza, quasi di felicità. Perché – lo sappiamo perfettamente entrambi e da lungo tempo, dal tempo della nostra intimità pari come intensità solo all'errare delle nostre conversazioni – nulla in amore è déjà-vu, pena la rapida consunzione dell'amore stesso, nulla è quotidiano. Improntato al mistero, l'amore è regolato da una legge ferrea quanto esatta: l'inquietudine, l'interrogazione, il timore della perdita. Questi sentimenti lo rinnovano di giorno in giorno, nutrendolo di veleno e miele. Se così non fosse, tra voi e mio marito – il mio quotidiano Francois – tra me e vostra moglie – che differenza ci sarebbe? Se qualcosa ci turba e continua, grazie a Dio, a turbarci, significa che l'amore ci abita, che siamo preda dei suoi ragionamenti. Ho sempre pensato all'amore come i nostri amati provenzali: un vento con tutte le sue innumerevoli variazioni, dal rovinoso mistral al mite venticello che soffia qui in questa tranquilla campagna che circonda la dimora che fu di mia madre. La qualità dell'energia è la stessa, ma, secondo luoghi e stagioni, si tramuta, si attenua o inaspettatamente si rinforza.
Quello che però, oltre a stupore, mi crea una sorta di malessere è la richiesta che mi rivolgete – mi domandate VERITÀ: quante volte abbiamo sorriso dell'ambiguità che questa coppia «amore-verità» nasconde in sé. Ci siamo amati convinti di vivere la prima e l'ultima delle umane illusioni – la più bella, una volta deciso che solo l'illusione può rendere vivibile la vita, anzi possibile.
Se io sono, come si dice, la Signora delle Nebbie, voi non siete da meno, mio Principe delle Maschere! E ora, dietro quale travestimento mi state chiedendo se la letteratura sia finzione o verità? Puro esercizio delle parole sempre più consapevoli delle loro malizie, dei loro trucchi astutissimi, oppure cortina di fumo dalle spire inestricabili o ancora filo tenace che ci tiene uniti saldamente, filo di discorso ininterrotto come l'alternarsi del giorno e della notte? Hélas, mi state trattando come la principessa di Clèves, ma io so che voi non siete Nemours e io sono Marie-Madeleine de la Vergne! A chi rivolgete le vostre domande? A me o a lei?
Che trappola le nostre parole, soprattutto quelle scritte insieme! Ma dietro le maschere, ci conosciamo abbastanza (non posso dire completa-mente, tradirei noi due e l'amore); se io non sono la principessa di Clèves, neppure voi siete solo lo squisito autore delle affilate sentenze che tutti conosciamo.
«Chi sono io per voi?» – mi chiedete – Vi rispondo «Cosa siete voi per voi?». Quello che vi risponderete sarà la mia risposta. Ma quella risposta ha il dovere dell'assolutezza: o tutto o niente. L'unica risposta che potreb¬be darvi sicurezza – l'unica verità – sta in voi, non in me.
Mio adorato Francois, dopo aver immaginato un romanzo come La principessa di Clèves che non appartiene né al dovere di Corneille né all'amore di Racine, ma al dovere d'amore delle nostre penne e anime strettamente unite, la vostra intelligenza e il vostro cuore confondono ora i confini fra carnalità e parola, tradiscono il copione della nostra perfetta comédie d'amour.
Io vi amo, signore, di tutti gli amori possibili; materiali e spirituali, e vi dico questo – così apertamente – perché so che non sarà mai la verità, perché svelarsi del tutto è impossibile, com'è impossibile che la scrittura sia un atto di verità assoluta e non un parziale svelamento, una maschera, seppure sottilissima, che ci permette tutto, anche di dire parole «vere».
Nella Principessa di Clèves dovevamo salvare l'AMORE. In un secolo come questo di libertinaggio indiscriminato, di esibita aridità e dissacrazione di ogni cosa, dovevo salvare un seme, il piccolo seme dell'amo-re e cioè della vita. Per salvarlo, ho dovuto (abbiamo dovuto) separarlo, isolarlo da tutto, renderlo assoluto, farne il desiderio incarnato. Ho salvato l'amore nella finzione del libro e ho salvato l'amore nella realtà della nostra vita, amandovi come vi amo.
Ricordate i trobadours della nostra Provenza? Cercavano una terra, in nome di un sogno e un sogno in nome di una terra: all'uno e all'altra erano fedeli.
Ma voi sapete anche quanto fragile sia il mio corpo; in certi periodi del-la vita mi costringe all'ozio, al riposo, a farmi custodire dalla mia casa comoda e silenziosa, a seguirne come una gatta i ritmi lenti, gli adagio impalpabili come quelli dell'ambiente campestre che lo circonda e, a sua volta, protegge. E un'esigenza del mio corpo, la malattia. Altrimenti, qualcosa di non previsto e incontrollabile potrebbe spezzarlo... Proteggo il vaso, il contenitore, per non versare il suo prezioso, volatile interno: l'amore.
Io non rinuncio alla passione – come vorrebbe Corneille con lo stoicismo delle sue eroine – semplicemente mi sottraggo ad essa. C'è un tempo Per tutto e il tempo, come la musica, è soggetto a pause che vanno rispettate, pena la dissipazione e l'annientamento. Mi troverei sola, senza più nulla da darvi, come una dimora profanata dai predoni o schiantata da bufere terribili.
Per potere amare come desidero, devo conservare il corpo ma anche la ragione. E la ragione è conoscenza e rispetto della vulnerabilità di ogni involucro, di ogni strumento, la sua cura quotidiana e l'assidua vigilanza come per la propria amata dimora.
Mentre mi proteggo, vi attendo e lascio che il tempo scorra, che il tempo si perda. E resto in compagnia di mia madre. Ho bisogno di lei come del sonno per recuperare vitali energie. Mia madre è morta, mi direte, da quasi vent'anni... Ebbene, che differenza c'è tra vivi e morti se sappiamo trattenerli con un occulto legame? E dai morti che noi at-tingiamo vita. Non sta forse a noi fare in modo che una persona o una cosa sia reale o no, presente o no? Niente di più irreale di quello che si mostra solo ai nostri occhi fisici. La realtà, nella sua interezza, è cosa ben più complessa e notturna. Le autentiche passioni sono quelle che non si mostrano, che non vogliono essere preda della corruzione della cronaca come del pettegolezzo salottiero.
Le autentiche passioni vanno tenute nascoste come la spiga di Persefone, sottoterra.
Ogni volta che lo desidero, mia madre è qui, vicino a me, nell'aria di queste grandi, luminose stanze. Sola con mia madre è come stare sola con me stessa. Finalmente non mi nascondo più dietro alle maschere. Cedo tutte le armi, tutti i miei giochi mondani. E in questa casa della mia infanzia che mi concedo questo lusso estremo: liberare l'altra parte del mio essere. Nulla mi trattiene. Non voglio vedere né parlare con nessuno, e nessuno deve vedermi o parlarmi. Obbligo la mia cameriera a portare una maschera nera sul volto, a entrare nella mia camera in punta di piedi, con il cibo indispensabile alla mia sopravvivenza, e a non guardarmi mai. Trasformo le mie abitudini: di giorno dormo e la notte veglio. Non faccio nulla, lascio che mi portino via soltanto immagini e pensieri dalle ali leggere: entro in un vuoto assoluto, che è ,analogo all'assoluta pienezza, e vi sprofondo, felice solo del mio respiro. E questa l'ebbrezza che provano i monaci in clausura, dove il tempo è ampio e disteso, e ci appartiene tutto proprio perché ne perdiamo la memoria?
Solitudine e silenzio: e ogni cosa ritorna sacra, intatta, infine reale. In tale modo, trovo in me stessa la mia ultima maschera: la pelle nuda del mio viso nell'aria della notte, esposta alla luce delle candele che accendo ad una ad una con le mie mani per trascorrere queste ore perfette.
Ebbene, posso così accudire agli ineffabili piaceri dello spirito e all'oblio di una parte di me stessa, con totale abbandono, proprio grazie a voi, mio caro amico: proprio perché sono protetta dalla consapevolezza del vostro amore e dal mio amore verso di voi. E da questa concretezza che io posso permettermi di vagabondare col pensiero indietro nella memoria, o dischiudere uno stato della coscienza dove i sogni sono di troppo, senza vacillare né ingannarmi.
L'amore serve anche a questo. Perdonatemi se vi ho reso strumento della mia conoscenza, se siete l'ombra della mia luce. Raduno in me, in un unico, occulto legame, voi che siete vivo e mia madre che è morta. Il regno dell'assenza nutre, con la sua linfa, il corpo e il cuore.
Eppure nel mio corpo, come in questa casa, comprenderete bene come non ci sia posto per due assoluti: mi vedo costretta a eludervi come un intruso. Eludo la presenza del vostro corpo sensuale, non quella della vostra anima intangibile che mi sostiene e consola.
Se è vero, com'è vero, che mi amate, sappiatemi aspettare con serena pazienza, perché non posso concedermi a nulla e a nessuno che non sia questa sospensione del tempo mondano, necessaria al mio esistere.
Rispettatela, vi prego, non profanatela con una volgare gelosia. Anche scrivervi questa lettera mi è costato un grande sforzo su me stessa.
E le parole, infine mi chiedo, avranno consacrato o sconsacrato questi attimi misteriosi che dovrebbero restare segreti nell'anima e non preda degli occhi di un lettore, sebbene questo lettore porti il nome del mio amato Francois de la Rochefoucauld?
In questo momento, rinuncio al vostro amore per rispettarlo. Per rispettare le parole rinuncio, da questo momento, a parlarvi e a scrivervi più... Vi supplico, per amore di questo duplice amore, di fare altrettanto.
Vostra principessa di Clèves

Francois de la Rochefoucauld e Madame de la Fayette si incontrano nel 1663 da Madame de Plessis-Guénégaud, al castello di Fresnes. In due lettere dello stesso anno Madame de la Fayette giudica con indignata severità le Maximes del nuovo amico: «Quale corruzione della mente e del cuore si svela in tutto ciò».
Ma fra di loro nasce un'«amitié amoureuse» che porterà il moralista francese a recarsi quasi quotidianamente in Rue de Vaugirard fino al 1680, anno della sua morte.
Madame de Sévigné scriverà al conte di Guitaut nello stesso anno: «Questa Perdita è motivo di grande rimpianto (...); ho un'amica che non se ne dà pace (...); credo che nessuna passione superi la forza di un simile legame».
Francois de la Rochefoucauld collabora con Madame de la Fayette – così racconta la tradizione – alla stesura de La Princesse de Clèves. Il libro, che sarà giudicato il primo grande romanzo della letteratura francese, narra l'amore casto e mai consumato della principessa di Clèves per il duca di Nemours.

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