Maurice Blanchot
Progetto
Progetto
I
I. La gravità del progetto. Siamo tutti consapevoli che ci avviciniamo a un momento estremo, a quello che chiamerei una mutazione dell’epoca. Ciò non allude solo a particolari possibilità di sconvolgimento (in Francia, un regime sotto la continua minaccia d’essere sommerso da forze che egli stesso ha suscitato; nel mondo, la questione di Berlino e molte altre); ma, molto più gravemente, significa che tutti i problemi sono d’ordine internazionale e che i minimi problemi internazionali diventano insolubili perché servono soltanto a generare e a ingenerare uno stato di tensione tale, che il ritorno all’idea tradizionale di pace è ormai radicalmente escluso e perfino una guerra - una buona guerra classica - potrebbe sembrare un allentamento di questo stato di tensione (di qui la tentazione della guerra).
In questo momento estremo, pensare a una nuova rivista solo più interessante o migliore delle altre, sarebbe ridicolo. Bisogna assolutamente che un simile progetto si raccolga senza posa sulla sua gravità: quella di cercare di rispondere a questo enigma grave che rappresenta il passaggio da un tempo a un altro.
II. Questa riduzione all’essenziale deve affermarsi in riferimento a un certo numero di principi:
1) Il progetto è essenzialmente collettivo, essendo a livello internazionale. Ciò significa: non che si cerchi un pensiero comune a tutti - tutti i partecipanti - ma che, mettendo in comune i nostri sforzi, le nostre domande e le nostre risorse, soprattutto attraverso un superamento interiore dei nostri pensieri individuali, si possa dar vita a nuove possibilità. Ne deriva che la direzione deve essere, senza restrizioni, collegiale, che ciascuno deve parteciparvi appieno, non solo dando il suo accordo, ma lavorando davvero, offrendo le proprie idee, il proprio tempo e orientando la propria riflessione, d’ora in poi, verso il compimento del progetto. Se non siamo del tutto decisi a tale sforzo collettivo, meglio non intraprendere nulla. D’altra parte, è possibile che una direzione collegiale non sia realizzabile praticamente. Può darsi. Allora rinunceremo, ma dobbiamo verificarlo attraverso l’esperienza e, se sarà un’utopia, accettare di fallire utopicamente.
2) Questa rivista non sarà una rivista, cioè un’espressione panoramica delle attività culturali, letterarie e politiche del nostro tempo. Ci sono pochissime cose che in essa devono interessarci; in altri termini, non dobbiamo dare l’impressione d’essere interessati e curiosi di tutto. O ancora, non dobbiamo interessarci che al tutto, là dove il tutto è in gioco, e ritrovare sempre questo interesse e questa passione del tutto. Inoltre, dobbiamo chiederci se l’interesse essenziale non vada esteso anche a ciò che è al di fuori di tutto.
3) Questa rivista non sarà una rivista di cultura: ad esempio, l’interesse che abbiamo per la letteratura non è un interesse di cultura; quando scriviamo, non lo facciamo per arricchire la cultura generale. Quel che conta per noi è una ricerca di verità, o meglio un’esigenza forse di giustizia, per la quale l’affermazione letteraria è essenziale, proprio in virtù della centralità del suo interesse per il linguaggio, del suo rapporto esclusivo col linguaggio.
4) Nella pratica, tutto questo si realizzerà privilegiando la cronaca centrale, attorno a cui il resto della rivista deve organizzarsi - dando importanza al tono della rivista, al suo linguaggio, alla sua forma - con l’esclusione di tutto quel che è secondario (note di lettura, ecc.).
II
1) Una rivista può essere l’espressione di una dottrina già costituita o di un gruppo già esistente (surrealismo). Può servire a dare forma a tendenze ancora vaghe ma latenti; può infine essere un’opera creatrice collettiva di superamento delle esigenze orientate che, in virtù dell’esistenza stessa della rivista, spinge ciascun collaboratore un po’ al di là del suo stesso cammino e forse anche in un cammino un po’ diverso da quello che, essendo solo, avrebbe seguito. Ognuno diventa responsabile di affermazioni di cui non è l’autore, di una ricerca che, non è solo la sua, risponde di un sapere che, da sé, all’inizio non sapeva. Questo è il senso della rivista come possibilità collettiva. E uno statuto intermedio tra autore e lettore. Di qui la necessità di un grande lavoro di elaborazione in comune, e poiché l’unanimità non è possibile né auspicabile, la necessità di perseguire, nella rivista stessa, la discussione e il dialogo.
2) Per l’attuale progetto di rivista questa necessità s’impone ancor di più. Dev’essere una rivista internazionale in modo essenziale: non solo multinazionale, né universale nel senso di un’universalità astratta, che assuma solo un’identità vaga e vuota dei problemi, ma metta in comune i problemi letterari, filosofici, politici e sociali che emergono in ogni lingua e in ogni contesto nazionale. Il che presuppone la rinuncia di ciascuno a un diritto esclusivo di proprietà e di valutazione dei propri problemi, il riconoscimento dell’appartenenza di questi anche agli altri e l’accettazione di configurarli in una prospettiva comune.
Dunque, non solo rivista di scambio, ma spazio d’interrogazione, di discussione e di dialogo.
3) Devono esserci alcuni principi di partenza che tutti riconoscono:
Riguardo all’orizzonte politico: da un lato, si tratta di rimettere tutto in questione, nella misura in cui accettiamo d’interrogarci fondamentalmente sul nostro tempo; in cui cerchiamo di restituire tutta la sua forza e la sua dignità al termine questione e di mettere in causa anche il valore della questione. Dall’altro, non si tratta di rimettere tutto in questione in modo semplicemente scettico e leggero, o col pretesto che la storia non ci ha offerto verifiche sicure, acquisizioni definitive. Ad esempio: qualunque sia la nostra scelta personale rispetto al marxismo, resta il fatto che abbiamo il marxismo alle spalle e ci appoggiamo a esso, foss’anche per contestarlo. La necessità di pensare, a un certo momento, tutti i problemi come se fossero di natura unicamente politica poi, e al tempo stesso, non come soltanto politici, ma implicanti un’esigenza globale che non può più dirsi solo politica, tale necessità deriva dal marxismo e c’induce ad affermare il marxismo come dialettica, senza tuttavia condannarci a ripetere la dialettica marxista.
4) Esigenza della letteratura e delle arti: la letteratura e le arti possono benissimo essere sottomesse a una critica di tipo marxista (ad esempio); ciò è ammissibile, anzi necessario, a condizione che tale critica dica cose nuove e non rimugini triti luoghi comuni. Ma dobbiamo anche riconoscere che la letteratura, almeno ancora oggi, costituisce non solo un’esperienza particolare, ma un’esperienza fondamentale, che mette tutto in causa, compreso se stessa e la dialettica. Se è vero infatti che la dialettica può e deve appropriarsi della letteratura e sottometterla al suo movimento, é vero al contempo che il modo di affermazione letterario sfugge alla dialettica poiché non le appartiene.
La letteratura rappresenta un potere di tipo particolare che forse non deriva dalla possibilità (la sola possibilità ha già qualcosa in comune con la dialettica): l’arte è contestazione infinita, contestazione di se stessa e delle altre forme di potere - e ciò non nella semplice anarchia, ma nella libera ricerca del potere originale che l’arte e la letteratura rappresentano (potere senza potere).
Molto sommariamente e schematicamente si può configurare la letteratura
- come affermazione delle opere: il movimento verso l’opera è essenzialmente enigmatico;
- come ricerca di se stessa, esperienza che non deve essere sottomessa a nessuna restrizione o sorveglianza dogmatica in quanto, la sua, è una contestazione di natura creatrice, giacché essa stessa si contesta con la sola forza della creazione;
- come ricerca della ricerca stessa, nella quale forse parla qualcos’altro rispetto alla sola letteratura. (La letteratura, perfino la cosiddetta pura, è più della letteratura; perché? cos’è questo più? perché la letteratura non si compie attraverso la necessaria illusione d’essere più di se stessa, come affermazione di una “verità” extra-letteraria?)
5) Pare ne risulti un’irriducibile differenza, e perfino una discordanza, tra la responsabilità politica (una responsabilità globale e insieme concreta, che accetta il marxismo come natura e la dialettica come metodo di verità) e la responsabilità letteraria, che è risposta a una esigenza che prende forma solo nella letteratura e attraverso la letteratura.
Tale discordanza non può essere definita a priori. E un punto di partenza; esiste come problema. Problema tutt’altro che frivolo, da assumere invece con difficoltà. Problema tanto più arduo quanto più, ognuno dei termini discordanti, ci coinvolge assolutamente e la loro discordanza, in un certo senso, ci coinvolge altrettanto.
6) Esistono tuttavia dati risolutivi: approfondirli è uno dei compiti della rivista.
III
Rivista senza divisione fra parte critica e parte antologica, poiché il sapere critico generale deve apparirvi essenziale quanto i bei testi o i testi di lettura e questi ultimi possono svolgervi implicitamente un ruolo critico (ma mai d’illustrazione) e viceversa.
Il corso intellettuale delle cose
Credo all’importanza di una cronaca o rubrica stabilita collettivamente da ogni redazione con l’aiuto degli elementi forniti dalle redazioni straniere, capace di dare un’idea del corso intellettuale delle cose. Questa cronaca, implicita oc esplicita, molto liberamente, voglio dire in forma varia, risponderà a qualsiasi disegno: innanzitutto dovrà rappresentare una certa informazione critica letteraria con una rassegna globale dei libri apparsi, privilegiando, in Francia, i libri italiani, tedeschi, inglesi e riducendo la parte francese che dovrà inserirsi nell’insieme a titolo comparativo (poiché i settimanali o altre riviste l’hanno già fatta conoscere). Questa cronaca deve anche, e forse soprattutto, mettere in risalto questo o quell’avvenimento intellettuale, sia di ordine filosofico o poetico, sia di ordine sociologico (movimento dell’editoria, articoli di rivista, ecc.)
Naturalmente anche le altre arti rientrano in tale cronaca. Tuttavia penso che per la musica, la pittura ecc., sia più importante avere, di tanto in tanto, uno studio approfondito su questo o quel problema, in rapporto o non, con l’attualità.
Dovrebbero esserci inoltre note critiche ai libri francesi e stranieri che riterremo giusto considerare a parte, sottraendoli al Cours des choses. Nella “cronaca”, le opere partecipano del movimento, del divenire. In quest’altra parte, esse non sono nulla più che se stesse.
Il corso del mondo
In una cronaca analoga ma, sicuramente, di forma diversa, tuttavia anch’essa variata, si situano testi brevi d’interesse critico, capaci di provocare un dialogo, come “ragionamenti” sul divenire politico o il movimento generale del mondo, Ad esempio, oggi, riflessioni di scrittori sull’avventura Gagarin, sul suo significato sull’impiego della parola “patria” da parte di Krusciov, la prima parola cosmica, ecc.
IV
Memorandum sul Cours des choses
E necessario riassumere in modo preciso, per sottoporle ai nostri amici stranieri, le proposte sulle quali ci siamo messi d’accordo, che riguardano il senso e la struttura del Cours des choses. Bisogna insistere di nuovo su due punti:
a) Il senso della rivista è il tentativo di offrire una possibilità nuova: quella che permetterà allo scrittore di dire il “mondo” e tutto ciò che accade nel mondo, ma in quanto scrittore e nella prospettiva che gli è propria, con la responsabilità che gli deriva dalla sua verità di scrittore. Dunque, una forma di responsabilità del tutto diversa (benché non meno essenziale) da quella che ha segnato brutalmente i rapporti tra la letteratura e la vita pubblica a partire dal 1945, conosciuta sotto il nome semplicistico “d’impegno sartriano”. Ne risulta che la rivista non potrà interessarsi alla realtà politica come tale, direttamente, ma sempre in modo indiretto. Questa ricerca dell’”indiretto” è uno dei suoi grandi compiti, purché la critica “indiretta”, per vie traverse, non significhi critica unicamente allusiva o ellittica, ma critica più radicale, che va fino al senso nascosto, alla “radice” (esempio: l’affare dello “Spiegel” non ci interessa per la crisi governativa che ha provocato e nemmeno per gli interventi dell’autorità politica nell’ambito giudiziario, ma per tutti i significati che sottende: mito del segreto militare; necessità ed esigenza di dire tutto senza tenere conto di alcuna opportunità; affermazione di un’autorità e di una responsabilità degli scrittori ecc.)
b) Il senso della rubrica Cours des choses deve svelarsi e manifestarsi attraverso la sua struttura e la sua forma:
1. Questa rubrica dovrà svolgersi lungo l’intero numero, che comincerà e finirà con essa. Poiché verrà interrotta ogni volta che interverranno testi di altra forma, bisogna poterla identificare con un tratto speciale. Proponiamo che ogni suo testo sia numerato, così la continuità discontinua della rubrica, considerata come “serie”, risulterà affermata dalla sequenza dei numeri.
2. Si tratterà, in questa rubrica, di cercare una forma breve (nel senso che si dà a tale termine nella musica d’oggi). Vogliamo dire che ciascun testo non solo sarà corto (da una mezza pagina a tre o quattro pagine), ma costituirà come un frammento, che non esaurisce necessariamente tutto il suo senso in se stesso, ma si apre su un senso più generale ancora a venire, o meglio, accoglie l’istanza di una discontinuità essenziale. In questa “forma breve”, tentativo molto arduo, ognuno, lo ripetiamo, tratterà quel che gli interessa fra quanto accade (e ugualmente non accade): questioni poetiche, filosofiche, politiche, provocate dall’attualità intellettuale, scientifica, generale, proposte in modo ancora invisibile o al contrario spettacolare, che derivano dai libri o dalla vita di tutti i giorni.
3. La struttura della rubrica dovrebbe essere tale da poter ammettere, oltre ai testi di commento (dei “frammenti”), altri testi stampati con caratteri diversi che formano come una sorta di relais: a) citazioni (ad esempio “Aby Warburg”: Der liebe Gott steckt im Detail. Oppure: Par mille et mille circuits et sans gagner d’un pas, toujours revenir au méme point (Teeteto); b) specie di aforismi (aforismi di pensiero, piuttosto che di stile); c) soprattutto “informazioni” redatte molto sobriamente, destinate non ad assumere un valore d’informazione, ma un valore di significato: una specie di efemeride costituita da alcuni avvenimenti rari, che scandirebbero il Cours des choses e che ci assumeremo la responsabilità di scegliere, con una scelta necessariamente parziale, cioè significativa (esempio: l’affare “Spiegel” è un avvenimento, ma le recenti elezioni francesi non sono un avvenimento. I fatti di censura da attuare in Francia contro alcuni libri concernono tale scelta; non, beninteso, i premi letterari). Ogni redazione dovrebbe così approntare una serie di “brevi informazioni”, su cui discuteremo e ci metteremo d’accordo durante i nostri incontri. Qui c’è qualcosa d’importante, poiché si tratterà, a nostro rischio e pericolo, di mettere in luce, di fronte alla storia ufficiale e apparente, gli elementi di una storia più vera e più segreta, e di utilizzare l’avvenimento nella sua brutalità e nudità come commento stesso: brutalità che accrescerà il rigore (lievemente tendenzioso) della forma che gli daremo. A questa focalizzazione bisognerebbe che i nostri corrispondenti, nei paesi dell’Est e nei paesi anglosassoni e ispanici, accettino di cooperare attentamente.
V
Corso delle cose
Sulla traduzione
1) Il traduttore sarà, in un certo senso, il vero scrittore della rivista. E rispetto a questa che il problema della traduzione deve essere posto fin dai primi numeri. Il traduttore rischia di essere un semplice riunificatore. I linguaggi non sono mai contemporanei: come conservare in una traduzione questa differenza di livello storico? Lo stesso vale per il problema dei dialetti: la lingua letteraria tedesca e :n particolare, la lingua poetica, è spesso una lingua dialettale; il problema della traduzione dei dialetti mi pare non sia mai stato convenientemente risolto. (Così, credo che la lingua italiana non sia unificata come la lingua francese). Leiris, Bonnefoy: per loro le cattive traduzioni francesi di Shakespeare, in panato, sono legate a un’opposizione metafisica implicita.
2) La traduzione come forma originale dell’attività letteraria. Il traduttore è il signore segreto della differenza delle lingue, non per abolire tale differenza, ma per utilizzarla, alfine di risvegliare, nella propria, attraverso i cambiamenti che vi apporta, la presenza di ciò che vi è di differente nell’originale. Il traduttore, uomo nostalgico, che sente nella sua lingua, come mancanza, tutto ciò che l’opera originale gli promette sotto forma di possibili affermazioni: possedendo, per esempio, il francese, in un modo privativo e tuttavia ricco di questa privazione.
3) L’esempio di Hölderlin: l’uomo affascinato dalla potenza del tradurre. Le traduzioni dell’Antigone e dell’Edipo, opere al limite della follia, guidate dal proposito non tanto di trasporre il testo greco in tedesco, né di ricondurre la lingua tedesca alle fonti greche, ma di unificare le due potenze (Oriente, Occidente) nella semplicità di una lingua totale e pura. Tradurre, in fin dei conti, è follia (Forse Laplanche...).
La rivista sarà fatta di frammenti, non di articoli (il saggio alla ricerca di una forma). Si può dire, semplificando, che esistono quattro specie di frammenti: 1) Il frammento che è unicamente il momento dialettico di un insieme più vasto - 2) La forma aforistica, concentrata, oscuramente violenta che, come frammento, è già completa in sé. L’aforisma è etimologicamente l’orizzonte. Un orizzonte che delimita e non apre. - 3) Il frammento legato alla mobilità della ricerca, al pensiero erratico che si compie per affermazioni separate e che esige la separazione (Nietzsche). - 4) Infine una letteratura di frammento che si colloca fuori del tutto, o perché presuppone che il tutto sia già realizzato (ogni letteratura è una letteratura da fine dei tempi), o perché, accanto a forme di linguaggio dove si costruisce e si parla il tutto - parola del sapere, del lavoro e della salvezza - presentisce una tutt’altra parola che liberi il pensiero dall’essere solo un pensiero in vista dell’unità: detto in altri termini, che esiga una discontinuità essenziale. In questo senso ogni letteratura, sia essa breve o infinita, è frammento, a condizione che designi uno spazio di linguaggio in cui ogni momento avrà il senso e la funzione di rendere indeterminati tutti gli altri, oppure (è l’altra faccia) in cui è in gioco un’affermazione irriducibile a qualsiasi processo unificante.
(Naturalmente la questione del “frammento” può essere considerata in tutt’altro modo, ma credo sia essenziale, soprattutto per questo progetto. È sempre la questione della rivista come forma, come ricerca della sua propria forma).
Questa è una riflessione sui nostri progetti: parliamo sempre di temi, di questioni, ma siamo sicuri che il “mondo” sia tematizzabile? Vi è forse un atematismo profondo che scopriamo, ad esempio, quando rifiutiamo di parlare di qualcuno che ci è vicino, di trasformarlo in tema, in oggetto di riflessioni, accettando solo di parlargli. Di qui la ferma avversione che si può provare a diventare cacciatore di questioni, intrico di questioni e, più ancora, a costringere altri scrittori a vedere il mondo unicamente come un soggetto di questioni per la rivista. C’è in tutto ciò sicuramente una violenza, forse un’esigenza che ciascuno può sopportare per sé, ma che non può ridurre a metodo comodo e costrittivo.
Altre riflessioni: le “questioni” che interessano la rivista differiscono: a) per i soggetti o i temi b) per il trattamento di tali temi c) per il modo in cui i testi si organizzeranno in un insieme d) ma anche per la forma o l’essenza delle questioni. Che cosa bisogna intendere per questa differenza di forma o di essenza? Ci sono, ad esempio, questioni che hanno la loro origine in un fatto insignificante, mal percepito, da cui si ricava un significato importante (passaggio dall’implicito all’esplicito), che rischia di schiacciare il fatto stesso. Così, mi pare che il quotidiano abbia come tratto essenziale quello di non lasciarsi afferrare, di sfuggire; appartiene all’insignificanza, è senza avvenimento, senza soggetto. Qui è la sua profondità. Il quotidiano, in tal senso, forse rifiuta anche la tematizzazione. Altre questioni: quelle che si propongono già come elaborate ed elaborate come importanti (la destalinizzazione); che ne faremo noi? Rifiuteremo d’interessarci a esse in quanto tali? Cercheremo di trattarle solo indirettamente? di afferrarle solo di sbieco, per vie traverse, o meglio ancora, cassandole? Partiti presi da analizzare. Vi sono infine quelle questioni limite, quelle che non si pongono, che sono sempre riservate e si tradiscono appena: esse diventano oggetto di una problematica speciale.
Qui si elabora, come in segreto, un modo nuovo di porre domande, quasi ci fosse un domandare in cui, interrogando, si domandi più di quanto si possa domandare, più di quanto lo sopporti il potere di domandare, più delle domande esistenti. Eccesso dell’interrogazione sul potere d’interrogare. Forse solo la riflessione solitaria, attraverso quel che si esprime nella letteratura come opera, può accogliere e custodire in sé una simile esigenza d’interrogare: quella che si compie, precisamente, quando non vi sono più questioni.
- La conquista dello spazio: riflessioni sul “luogo”. Ciò che si è sentito come decisivo, per un istante, quando l’uomo è diventato l’uomo dello spazio, è il fatto di aver rotto con il luogo: esisteva un uomo, in principio, al di fuori di ogni orizzonte e nell’assoluto di uno spazio quasi omogeneo. Questa libertà acquisita (sia pure in modo ancora illusorio) nei confronti del luogo, questa sorta di alleggerimento della sostanza-uomo ottenuta per distacco dal luogo, prolungava e per un momento compiva il processo attraverso il quale la tecnica sconvolge le civiltà sedentarie, distrugge i particolarismi umani, fa uscire l’uomo dall’utopia dell’infanzia (se questa cerca il ritorno al luogo). Ma non appena Gagarin aveva apparentemente lasciato il luogo, ecco che Krusciov lo salutava a nome della terra, sua “patria». Così, l’uomo di stato vede nel cosmonauta non colui che mette in questione il luogo, ma colui che lo consacra del proprio prestigio.
1) Il rapporto col Fuori non è stato modificato radicalmente; lo è stato solo fenomenologicamente. La parola come unica relazione con l’antico luogo: il cosmonauta deve parlare e parlare di continuo. Certo, la tecnica è pericolosa, ma meno pericolosa dei “geni del luogo”. Forse c’è qualcosa da dire contro il paganesimo dove si rifugia volentieri l’anticristianesimo-paganesimo heideggeriano, paganesimo poetico del radicamento. La verità è nomade.
- Boulez e Mallarmé. Pli selon pli. Conferenza di Boulez a Donaueschingen in cui mostra le incompatibilità della poesia-musica. E a partire da queste incompatibilità che è possibile un incontro. E Boulez pensa di trovarlo nelle strutture verbali, ritmiche, architettoniche e nelle loro equivalenze musicali. Tutta la difficoltà è nel termine equivalenze. Ciò rinvia al problema di Wittgenstein: ogni linguaggio ha una struttura riguardo alla quale, in questo stesso linguaggio, non si può dire nulla, ma di cui si può trattare in un altro linguaggio che, a sua volta, ha una struttura di cui ci si può occupare solo in un altro linguaggio...
2) Nuovo trattamento del testo nella musica contemporanea.
3) Si pone così la questione difficilissima dei rapporti della letteratura “moderna” con le arti “moderne”. Ci sono tra loro rapporti meno superficiali di quelli che permettono alla cultura di situare in una stessa ottica Einstein, Picasso, Joyce, Schönberg?
- Il mito dello scienziato. Teilhard de Chardin, quando elabora le sue sintesi azzardate, non manca di dire, del resto ingenuamente più che con presunzione: non abbandono il terreno dell’osservazione scientifica; è da scienziato che parlo. J. Charon che riafferma la concezione di Chardin, secondo cui non vi sono corpuscoli senza psiche, presenta quest’ipotesi dello psichismo universale (già affermato da Nietzsche) come una scoperta scientifica. Quando uno scienziato cessa di essere scienziato? Ad esempio, i modelli d’universo, le teor1e unitarie, com’è possibile chiamarli scientifici?
- Questioni che possono essere tratte da libri: La Pensée sauvage, il libro di R. Pernoud sulla borghesia, il libro d’Ellul sulla propaganda, il libro di [Gilbert Durand] sulle strutture antropologiche dell’immaginario, quello di Fanon sulla violenza.
- Nel romanzo, il punto di vista di Dio sostituito bellamente dal punto di vista poliziesco: è la polizia che vede e sa tutto (Chesterton, Orwell, Corrado Alvaro, Graham Green, i romanzi del nouveau roman, Ollier, Robbe-Grillet, Uwe Johnson). E che l’enigma tende a essere concepito, oggi, non più come quello del tribunale della coscienza, ma come un enigma pubblico. Quando tutto è rivelato, qualcosa si sottrae ancora.
- La possibilità di una distruzione totale ha portato un cambiamento di senso alla nozione di violenza? Qual è il senso rivoluzionario della violenza, nella prospettiva in cui rischia sempre di tramutarsi in distruzione radicale? Questa domanda è alla base della destalinizzazione?
- Studiare la destalinizzazione dal punto di vista del linguaggio. Quali cambiamenti nel linguaggio politico ha introdotto? Alcuni termini nuovi, il culto della personalità, la coesistenza pacifica, il linguaggio più concreto di Krusciov, ma il linguaggio ufficiale si è modificato?
- Il ruolo della radio in Germania, cioè le possibilità e le tentazioni che offre allo scrittore tedesco; situazione che non si trova né in Francia né probabilmente in Italia, Inghilterra, America?
- Il declino, nella sua persistenza, del mito del milite ignoto. Il milite ignoto era l’antieroe, lo sconosciuto, l’oscuro spettro che restava nella memoria dei popoli come obliato. Il memoriale del non ricordo, l’apoteosi del senza nome.
Riflessioni sull’idea e la forma di ciò che vien chiamato rivista. Parecchie note 1) un breve studio storico; forse avremmo qualcosa da imparare sull’evolversi di questa forma di pubblicazione nei diversi paesi di cultura; 2) la rivista surrealista che fu una delle creazioni autentiche di questo movimento; 3) critica di ogni rivista. Pubblicazione collettiva, ma senza struttura collettiva reale, o meglio rivista dogmatica, strumento di dimostrazione e di lotta, l’organo di un partito o di una scuola, ma non un modo di ricerca. La periodicità, condizione puramente arbitraria: come reintrodurre il “dis-operare”, la non-curanza del tempo in una pubblicazione periodica? In che modo, testi letterari irriducibili a qualsiasi insieme, a qualsiasi unità, possono situarsi in questo progetto d’insieme che è una rivista? (ecc.).
- Testi critici: la situazione di Block nel pensiero tedesco attuale. Un testo inedito di Bloch.
- La settorialità culturale in Francia, in Italia.
-La struttura dell’editoria francese...
(Traduzione dal francese di Adriano Marchetti)
I. La gravità del progetto. Siamo tutti consapevoli che ci avviciniamo a un momento estremo, a quello che chiamerei una mutazione dell’epoca. Ciò non allude solo a particolari possibilità di sconvolgimento (in Francia, un regime sotto la continua minaccia d’essere sommerso da forze che egli stesso ha suscitato; nel mondo, la questione di Berlino e molte altre); ma, molto più gravemente, significa che tutti i problemi sono d’ordine internazionale e che i minimi problemi internazionali diventano insolubili perché servono soltanto a generare e a ingenerare uno stato di tensione tale, che il ritorno all’idea tradizionale di pace è ormai radicalmente escluso e perfino una guerra - una buona guerra classica - potrebbe sembrare un allentamento di questo stato di tensione (di qui la tentazione della guerra).
In questo momento estremo, pensare a una nuova rivista solo più interessante o migliore delle altre, sarebbe ridicolo. Bisogna assolutamente che un simile progetto si raccolga senza posa sulla sua gravità: quella di cercare di rispondere a questo enigma grave che rappresenta il passaggio da un tempo a un altro.
II. Questa riduzione all’essenziale deve affermarsi in riferimento a un certo numero di principi:
1) Il progetto è essenzialmente collettivo, essendo a livello internazionale. Ciò significa: non che si cerchi un pensiero comune a tutti - tutti i partecipanti - ma che, mettendo in comune i nostri sforzi, le nostre domande e le nostre risorse, soprattutto attraverso un superamento interiore dei nostri pensieri individuali, si possa dar vita a nuove possibilità. Ne deriva che la direzione deve essere, senza restrizioni, collegiale, che ciascuno deve parteciparvi appieno, non solo dando il suo accordo, ma lavorando davvero, offrendo le proprie idee, il proprio tempo e orientando la propria riflessione, d’ora in poi, verso il compimento del progetto. Se non siamo del tutto decisi a tale sforzo collettivo, meglio non intraprendere nulla. D’altra parte, è possibile che una direzione collegiale non sia realizzabile praticamente. Può darsi. Allora rinunceremo, ma dobbiamo verificarlo attraverso l’esperienza e, se sarà un’utopia, accettare di fallire utopicamente.
2) Questa rivista non sarà una rivista, cioè un’espressione panoramica delle attività culturali, letterarie e politiche del nostro tempo. Ci sono pochissime cose che in essa devono interessarci; in altri termini, non dobbiamo dare l’impressione d’essere interessati e curiosi di tutto. O ancora, non dobbiamo interessarci che al tutto, là dove il tutto è in gioco, e ritrovare sempre questo interesse e questa passione del tutto. Inoltre, dobbiamo chiederci se l’interesse essenziale non vada esteso anche a ciò che è al di fuori di tutto.
3) Questa rivista non sarà una rivista di cultura: ad esempio, l’interesse che abbiamo per la letteratura non è un interesse di cultura; quando scriviamo, non lo facciamo per arricchire la cultura generale. Quel che conta per noi è una ricerca di verità, o meglio un’esigenza forse di giustizia, per la quale l’affermazione letteraria è essenziale, proprio in virtù della centralità del suo interesse per il linguaggio, del suo rapporto esclusivo col linguaggio.
4) Nella pratica, tutto questo si realizzerà privilegiando la cronaca centrale, attorno a cui il resto della rivista deve organizzarsi - dando importanza al tono della rivista, al suo linguaggio, alla sua forma - con l’esclusione di tutto quel che è secondario (note di lettura, ecc.).
II
1) Una rivista può essere l’espressione di una dottrina già costituita o di un gruppo già esistente (surrealismo). Può servire a dare forma a tendenze ancora vaghe ma latenti; può infine essere un’opera creatrice collettiva di superamento delle esigenze orientate che, in virtù dell’esistenza stessa della rivista, spinge ciascun collaboratore un po’ al di là del suo stesso cammino e forse anche in un cammino un po’ diverso da quello che, essendo solo, avrebbe seguito. Ognuno diventa responsabile di affermazioni di cui non è l’autore, di una ricerca che, non è solo la sua, risponde di un sapere che, da sé, all’inizio non sapeva. Questo è il senso della rivista come possibilità collettiva. E uno statuto intermedio tra autore e lettore. Di qui la necessità di un grande lavoro di elaborazione in comune, e poiché l’unanimità non è possibile né auspicabile, la necessità di perseguire, nella rivista stessa, la discussione e il dialogo.
2) Per l’attuale progetto di rivista questa necessità s’impone ancor di più. Dev’essere una rivista internazionale in modo essenziale: non solo multinazionale, né universale nel senso di un’universalità astratta, che assuma solo un’identità vaga e vuota dei problemi, ma metta in comune i problemi letterari, filosofici, politici e sociali che emergono in ogni lingua e in ogni contesto nazionale. Il che presuppone la rinuncia di ciascuno a un diritto esclusivo di proprietà e di valutazione dei propri problemi, il riconoscimento dell’appartenenza di questi anche agli altri e l’accettazione di configurarli in una prospettiva comune.
Dunque, non solo rivista di scambio, ma spazio d’interrogazione, di discussione e di dialogo.
3) Devono esserci alcuni principi di partenza che tutti riconoscono:
Riguardo all’orizzonte politico: da un lato, si tratta di rimettere tutto in questione, nella misura in cui accettiamo d’interrogarci fondamentalmente sul nostro tempo; in cui cerchiamo di restituire tutta la sua forza e la sua dignità al termine questione e di mettere in causa anche il valore della questione. Dall’altro, non si tratta di rimettere tutto in questione in modo semplicemente scettico e leggero, o col pretesto che la storia non ci ha offerto verifiche sicure, acquisizioni definitive. Ad esempio: qualunque sia la nostra scelta personale rispetto al marxismo, resta il fatto che abbiamo il marxismo alle spalle e ci appoggiamo a esso, foss’anche per contestarlo. La necessità di pensare, a un certo momento, tutti i problemi come se fossero di natura unicamente politica poi, e al tempo stesso, non come soltanto politici, ma implicanti un’esigenza globale che non può più dirsi solo politica, tale necessità deriva dal marxismo e c’induce ad affermare il marxismo come dialettica, senza tuttavia condannarci a ripetere la dialettica marxista.
4) Esigenza della letteratura e delle arti: la letteratura e le arti possono benissimo essere sottomesse a una critica di tipo marxista (ad esempio); ciò è ammissibile, anzi necessario, a condizione che tale critica dica cose nuove e non rimugini triti luoghi comuni. Ma dobbiamo anche riconoscere che la letteratura, almeno ancora oggi, costituisce non solo un’esperienza particolare, ma un’esperienza fondamentale, che mette tutto in causa, compreso se stessa e la dialettica. Se è vero infatti che la dialettica può e deve appropriarsi della letteratura e sottometterla al suo movimento, é vero al contempo che il modo di affermazione letterario sfugge alla dialettica poiché non le appartiene.
La letteratura rappresenta un potere di tipo particolare che forse non deriva dalla possibilità (la sola possibilità ha già qualcosa in comune con la dialettica): l’arte è contestazione infinita, contestazione di se stessa e delle altre forme di potere - e ciò non nella semplice anarchia, ma nella libera ricerca del potere originale che l’arte e la letteratura rappresentano (potere senza potere).
Molto sommariamente e schematicamente si può configurare la letteratura
- come affermazione delle opere: il movimento verso l’opera è essenzialmente enigmatico;
- come ricerca di se stessa, esperienza che non deve essere sottomessa a nessuna restrizione o sorveglianza dogmatica in quanto, la sua, è una contestazione di natura creatrice, giacché essa stessa si contesta con la sola forza della creazione;
- come ricerca della ricerca stessa, nella quale forse parla qualcos’altro rispetto alla sola letteratura. (La letteratura, perfino la cosiddetta pura, è più della letteratura; perché? cos’è questo più? perché la letteratura non si compie attraverso la necessaria illusione d’essere più di se stessa, come affermazione di una “verità” extra-letteraria?)
5) Pare ne risulti un’irriducibile differenza, e perfino una discordanza, tra la responsabilità politica (una responsabilità globale e insieme concreta, che accetta il marxismo come natura e la dialettica come metodo di verità) e la responsabilità letteraria, che è risposta a una esigenza che prende forma solo nella letteratura e attraverso la letteratura.
Tale discordanza non può essere definita a priori. E un punto di partenza; esiste come problema. Problema tutt’altro che frivolo, da assumere invece con difficoltà. Problema tanto più arduo quanto più, ognuno dei termini discordanti, ci coinvolge assolutamente e la loro discordanza, in un certo senso, ci coinvolge altrettanto.
6) Esistono tuttavia dati risolutivi: approfondirli è uno dei compiti della rivista.
III
Rivista senza divisione fra parte critica e parte antologica, poiché il sapere critico generale deve apparirvi essenziale quanto i bei testi o i testi di lettura e questi ultimi possono svolgervi implicitamente un ruolo critico (ma mai d’illustrazione) e viceversa.
Il corso intellettuale delle cose
Credo all’importanza di una cronaca o rubrica stabilita collettivamente da ogni redazione con l’aiuto degli elementi forniti dalle redazioni straniere, capace di dare un’idea del corso intellettuale delle cose. Questa cronaca, implicita oc esplicita, molto liberamente, voglio dire in forma varia, risponderà a qualsiasi disegno: innanzitutto dovrà rappresentare una certa informazione critica letteraria con una rassegna globale dei libri apparsi, privilegiando, in Francia, i libri italiani, tedeschi, inglesi e riducendo la parte francese che dovrà inserirsi nell’insieme a titolo comparativo (poiché i settimanali o altre riviste l’hanno già fatta conoscere). Questa cronaca deve anche, e forse soprattutto, mettere in risalto questo o quell’avvenimento intellettuale, sia di ordine filosofico o poetico, sia di ordine sociologico (movimento dell’editoria, articoli di rivista, ecc.)
Naturalmente anche le altre arti rientrano in tale cronaca. Tuttavia penso che per la musica, la pittura ecc., sia più importante avere, di tanto in tanto, uno studio approfondito su questo o quel problema, in rapporto o non, con l’attualità.
Dovrebbero esserci inoltre note critiche ai libri francesi e stranieri che riterremo giusto considerare a parte, sottraendoli al Cours des choses. Nella “cronaca”, le opere partecipano del movimento, del divenire. In quest’altra parte, esse non sono nulla più che se stesse.
Il corso del mondo
In una cronaca analoga ma, sicuramente, di forma diversa, tuttavia anch’essa variata, si situano testi brevi d’interesse critico, capaci di provocare un dialogo, come “ragionamenti” sul divenire politico o il movimento generale del mondo, Ad esempio, oggi, riflessioni di scrittori sull’avventura Gagarin, sul suo significato sull’impiego della parola “patria” da parte di Krusciov, la prima parola cosmica, ecc.
IV
Memorandum sul Cours des choses
E necessario riassumere in modo preciso, per sottoporle ai nostri amici stranieri, le proposte sulle quali ci siamo messi d’accordo, che riguardano il senso e la struttura del Cours des choses. Bisogna insistere di nuovo su due punti:
a) Il senso della rivista è il tentativo di offrire una possibilità nuova: quella che permetterà allo scrittore di dire il “mondo” e tutto ciò che accade nel mondo, ma in quanto scrittore e nella prospettiva che gli è propria, con la responsabilità che gli deriva dalla sua verità di scrittore. Dunque, una forma di responsabilità del tutto diversa (benché non meno essenziale) da quella che ha segnato brutalmente i rapporti tra la letteratura e la vita pubblica a partire dal 1945, conosciuta sotto il nome semplicistico “d’impegno sartriano”. Ne risulta che la rivista non potrà interessarsi alla realtà politica come tale, direttamente, ma sempre in modo indiretto. Questa ricerca dell’”indiretto” è uno dei suoi grandi compiti, purché la critica “indiretta”, per vie traverse, non significhi critica unicamente allusiva o ellittica, ma critica più radicale, che va fino al senso nascosto, alla “radice” (esempio: l’affare dello “Spiegel” non ci interessa per la crisi governativa che ha provocato e nemmeno per gli interventi dell’autorità politica nell’ambito giudiziario, ma per tutti i significati che sottende: mito del segreto militare; necessità ed esigenza di dire tutto senza tenere conto di alcuna opportunità; affermazione di un’autorità e di una responsabilità degli scrittori ecc.)
b) Il senso della rubrica Cours des choses deve svelarsi e manifestarsi attraverso la sua struttura e la sua forma:
1. Questa rubrica dovrà svolgersi lungo l’intero numero, che comincerà e finirà con essa. Poiché verrà interrotta ogni volta che interverranno testi di altra forma, bisogna poterla identificare con un tratto speciale. Proponiamo che ogni suo testo sia numerato, così la continuità discontinua della rubrica, considerata come “serie”, risulterà affermata dalla sequenza dei numeri.
2. Si tratterà, in questa rubrica, di cercare una forma breve (nel senso che si dà a tale termine nella musica d’oggi). Vogliamo dire che ciascun testo non solo sarà corto (da una mezza pagina a tre o quattro pagine), ma costituirà come un frammento, che non esaurisce necessariamente tutto il suo senso in se stesso, ma si apre su un senso più generale ancora a venire, o meglio, accoglie l’istanza di una discontinuità essenziale. In questa “forma breve”, tentativo molto arduo, ognuno, lo ripetiamo, tratterà quel che gli interessa fra quanto accade (e ugualmente non accade): questioni poetiche, filosofiche, politiche, provocate dall’attualità intellettuale, scientifica, generale, proposte in modo ancora invisibile o al contrario spettacolare, che derivano dai libri o dalla vita di tutti i giorni.
3. La struttura della rubrica dovrebbe essere tale da poter ammettere, oltre ai testi di commento (dei “frammenti”), altri testi stampati con caratteri diversi che formano come una sorta di relais: a) citazioni (ad esempio “Aby Warburg”: Der liebe Gott steckt im Detail. Oppure: Par mille et mille circuits et sans gagner d’un pas, toujours revenir au méme point (Teeteto); b) specie di aforismi (aforismi di pensiero, piuttosto che di stile); c) soprattutto “informazioni” redatte molto sobriamente, destinate non ad assumere un valore d’informazione, ma un valore di significato: una specie di efemeride costituita da alcuni avvenimenti rari, che scandirebbero il Cours des choses e che ci assumeremo la responsabilità di scegliere, con una scelta necessariamente parziale, cioè significativa (esempio: l’affare “Spiegel” è un avvenimento, ma le recenti elezioni francesi non sono un avvenimento. I fatti di censura da attuare in Francia contro alcuni libri concernono tale scelta; non, beninteso, i premi letterari). Ogni redazione dovrebbe così approntare una serie di “brevi informazioni”, su cui discuteremo e ci metteremo d’accordo durante i nostri incontri. Qui c’è qualcosa d’importante, poiché si tratterà, a nostro rischio e pericolo, di mettere in luce, di fronte alla storia ufficiale e apparente, gli elementi di una storia più vera e più segreta, e di utilizzare l’avvenimento nella sua brutalità e nudità come commento stesso: brutalità che accrescerà il rigore (lievemente tendenzioso) della forma che gli daremo. A questa focalizzazione bisognerebbe che i nostri corrispondenti, nei paesi dell’Est e nei paesi anglosassoni e ispanici, accettino di cooperare attentamente.
V
Corso delle cose
Sulla traduzione
1) Il traduttore sarà, in un certo senso, il vero scrittore della rivista. E rispetto a questa che il problema della traduzione deve essere posto fin dai primi numeri. Il traduttore rischia di essere un semplice riunificatore. I linguaggi non sono mai contemporanei: come conservare in una traduzione questa differenza di livello storico? Lo stesso vale per il problema dei dialetti: la lingua letteraria tedesca e :n particolare, la lingua poetica, è spesso una lingua dialettale; il problema della traduzione dei dialetti mi pare non sia mai stato convenientemente risolto. (Così, credo che la lingua italiana non sia unificata come la lingua francese). Leiris, Bonnefoy: per loro le cattive traduzioni francesi di Shakespeare, in panato, sono legate a un’opposizione metafisica implicita.
2) La traduzione come forma originale dell’attività letteraria. Il traduttore è il signore segreto della differenza delle lingue, non per abolire tale differenza, ma per utilizzarla, alfine di risvegliare, nella propria, attraverso i cambiamenti che vi apporta, la presenza di ciò che vi è di differente nell’originale. Il traduttore, uomo nostalgico, che sente nella sua lingua, come mancanza, tutto ciò che l’opera originale gli promette sotto forma di possibili affermazioni: possedendo, per esempio, il francese, in un modo privativo e tuttavia ricco di questa privazione.
3) L’esempio di Hölderlin: l’uomo affascinato dalla potenza del tradurre. Le traduzioni dell’Antigone e dell’Edipo, opere al limite della follia, guidate dal proposito non tanto di trasporre il testo greco in tedesco, né di ricondurre la lingua tedesca alle fonti greche, ma di unificare le due potenze (Oriente, Occidente) nella semplicità di una lingua totale e pura. Tradurre, in fin dei conti, è follia (Forse Laplanche...).
La rivista sarà fatta di frammenti, non di articoli (il saggio alla ricerca di una forma). Si può dire, semplificando, che esistono quattro specie di frammenti: 1) Il frammento che è unicamente il momento dialettico di un insieme più vasto - 2) La forma aforistica, concentrata, oscuramente violenta che, come frammento, è già completa in sé. L’aforisma è etimologicamente l’orizzonte. Un orizzonte che delimita e non apre. - 3) Il frammento legato alla mobilità della ricerca, al pensiero erratico che si compie per affermazioni separate e che esige la separazione (Nietzsche). - 4) Infine una letteratura di frammento che si colloca fuori del tutto, o perché presuppone che il tutto sia già realizzato (ogni letteratura è una letteratura da fine dei tempi), o perché, accanto a forme di linguaggio dove si costruisce e si parla il tutto - parola del sapere, del lavoro e della salvezza - presentisce una tutt’altra parola che liberi il pensiero dall’essere solo un pensiero in vista dell’unità: detto in altri termini, che esiga una discontinuità essenziale. In questo senso ogni letteratura, sia essa breve o infinita, è frammento, a condizione che designi uno spazio di linguaggio in cui ogni momento avrà il senso e la funzione di rendere indeterminati tutti gli altri, oppure (è l’altra faccia) in cui è in gioco un’affermazione irriducibile a qualsiasi processo unificante.
(Naturalmente la questione del “frammento” può essere considerata in tutt’altro modo, ma credo sia essenziale, soprattutto per questo progetto. È sempre la questione della rivista come forma, come ricerca della sua propria forma).
Questa è una riflessione sui nostri progetti: parliamo sempre di temi, di questioni, ma siamo sicuri che il “mondo” sia tematizzabile? Vi è forse un atematismo profondo che scopriamo, ad esempio, quando rifiutiamo di parlare di qualcuno che ci è vicino, di trasformarlo in tema, in oggetto di riflessioni, accettando solo di parlargli. Di qui la ferma avversione che si può provare a diventare cacciatore di questioni, intrico di questioni e, più ancora, a costringere altri scrittori a vedere il mondo unicamente come un soggetto di questioni per la rivista. C’è in tutto ciò sicuramente una violenza, forse un’esigenza che ciascuno può sopportare per sé, ma che non può ridurre a metodo comodo e costrittivo.
Altre riflessioni: le “questioni” che interessano la rivista differiscono: a) per i soggetti o i temi b) per il trattamento di tali temi c) per il modo in cui i testi si organizzeranno in un insieme d) ma anche per la forma o l’essenza delle questioni. Che cosa bisogna intendere per questa differenza di forma o di essenza? Ci sono, ad esempio, questioni che hanno la loro origine in un fatto insignificante, mal percepito, da cui si ricava un significato importante (passaggio dall’implicito all’esplicito), che rischia di schiacciare il fatto stesso. Così, mi pare che il quotidiano abbia come tratto essenziale quello di non lasciarsi afferrare, di sfuggire; appartiene all’insignificanza, è senza avvenimento, senza soggetto. Qui è la sua profondità. Il quotidiano, in tal senso, forse rifiuta anche la tematizzazione. Altre questioni: quelle che si propongono già come elaborate ed elaborate come importanti (la destalinizzazione); che ne faremo noi? Rifiuteremo d’interessarci a esse in quanto tali? Cercheremo di trattarle solo indirettamente? di afferrarle solo di sbieco, per vie traverse, o meglio ancora, cassandole? Partiti presi da analizzare. Vi sono infine quelle questioni limite, quelle che non si pongono, che sono sempre riservate e si tradiscono appena: esse diventano oggetto di una problematica speciale.
Qui si elabora, come in segreto, un modo nuovo di porre domande, quasi ci fosse un domandare in cui, interrogando, si domandi più di quanto si possa domandare, più di quanto lo sopporti il potere di domandare, più delle domande esistenti. Eccesso dell’interrogazione sul potere d’interrogare. Forse solo la riflessione solitaria, attraverso quel che si esprime nella letteratura come opera, può accogliere e custodire in sé una simile esigenza d’interrogare: quella che si compie, precisamente, quando non vi sono più questioni.
- La conquista dello spazio: riflessioni sul “luogo”. Ciò che si è sentito come decisivo, per un istante, quando l’uomo è diventato l’uomo dello spazio, è il fatto di aver rotto con il luogo: esisteva un uomo, in principio, al di fuori di ogni orizzonte e nell’assoluto di uno spazio quasi omogeneo. Questa libertà acquisita (sia pure in modo ancora illusorio) nei confronti del luogo, questa sorta di alleggerimento della sostanza-uomo ottenuta per distacco dal luogo, prolungava e per un momento compiva il processo attraverso il quale la tecnica sconvolge le civiltà sedentarie, distrugge i particolarismi umani, fa uscire l’uomo dall’utopia dell’infanzia (se questa cerca il ritorno al luogo). Ma non appena Gagarin aveva apparentemente lasciato il luogo, ecco che Krusciov lo salutava a nome della terra, sua “patria». Così, l’uomo di stato vede nel cosmonauta non colui che mette in questione il luogo, ma colui che lo consacra del proprio prestigio.
1) Il rapporto col Fuori non è stato modificato radicalmente; lo è stato solo fenomenologicamente. La parola come unica relazione con l’antico luogo: il cosmonauta deve parlare e parlare di continuo. Certo, la tecnica è pericolosa, ma meno pericolosa dei “geni del luogo”. Forse c’è qualcosa da dire contro il paganesimo dove si rifugia volentieri l’anticristianesimo-paganesimo heideggeriano, paganesimo poetico del radicamento. La verità è nomade.
- Boulez e Mallarmé. Pli selon pli. Conferenza di Boulez a Donaueschingen in cui mostra le incompatibilità della poesia-musica. E a partire da queste incompatibilità che è possibile un incontro. E Boulez pensa di trovarlo nelle strutture verbali, ritmiche, architettoniche e nelle loro equivalenze musicali. Tutta la difficoltà è nel termine equivalenze. Ciò rinvia al problema di Wittgenstein: ogni linguaggio ha una struttura riguardo alla quale, in questo stesso linguaggio, non si può dire nulla, ma di cui si può trattare in un altro linguaggio che, a sua volta, ha una struttura di cui ci si può occupare solo in un altro linguaggio...
2) Nuovo trattamento del testo nella musica contemporanea.
3) Si pone così la questione difficilissima dei rapporti della letteratura “moderna” con le arti “moderne”. Ci sono tra loro rapporti meno superficiali di quelli che permettono alla cultura di situare in una stessa ottica Einstein, Picasso, Joyce, Schönberg?
- Il mito dello scienziato. Teilhard de Chardin, quando elabora le sue sintesi azzardate, non manca di dire, del resto ingenuamente più che con presunzione: non abbandono il terreno dell’osservazione scientifica; è da scienziato che parlo. J. Charon che riafferma la concezione di Chardin, secondo cui non vi sono corpuscoli senza psiche, presenta quest’ipotesi dello psichismo universale (già affermato da Nietzsche) come una scoperta scientifica. Quando uno scienziato cessa di essere scienziato? Ad esempio, i modelli d’universo, le teor1e unitarie, com’è possibile chiamarli scientifici?
- Questioni che possono essere tratte da libri: La Pensée sauvage, il libro di R. Pernoud sulla borghesia, il libro d’Ellul sulla propaganda, il libro di [Gilbert Durand] sulle strutture antropologiche dell’immaginario, quello di Fanon sulla violenza.
- Nel romanzo, il punto di vista di Dio sostituito bellamente dal punto di vista poliziesco: è la polizia che vede e sa tutto (Chesterton, Orwell, Corrado Alvaro, Graham Green, i romanzi del nouveau roman, Ollier, Robbe-Grillet, Uwe Johnson). E che l’enigma tende a essere concepito, oggi, non più come quello del tribunale della coscienza, ma come un enigma pubblico. Quando tutto è rivelato, qualcosa si sottrae ancora.
- La possibilità di una distruzione totale ha portato un cambiamento di senso alla nozione di violenza? Qual è il senso rivoluzionario della violenza, nella prospettiva in cui rischia sempre di tramutarsi in distruzione radicale? Questa domanda è alla base della destalinizzazione?
- Studiare la destalinizzazione dal punto di vista del linguaggio. Quali cambiamenti nel linguaggio politico ha introdotto? Alcuni termini nuovi, il culto della personalità, la coesistenza pacifica, il linguaggio più concreto di Krusciov, ma il linguaggio ufficiale si è modificato?
- Il ruolo della radio in Germania, cioè le possibilità e le tentazioni che offre allo scrittore tedesco; situazione che non si trova né in Francia né probabilmente in Italia, Inghilterra, America?
- Il declino, nella sua persistenza, del mito del milite ignoto. Il milite ignoto era l’antieroe, lo sconosciuto, l’oscuro spettro che restava nella memoria dei popoli come obliato. Il memoriale del non ricordo, l’apoteosi del senza nome.
Riflessioni sull’idea e la forma di ciò che vien chiamato rivista. Parecchie note 1) un breve studio storico; forse avremmo qualcosa da imparare sull’evolversi di questa forma di pubblicazione nei diversi paesi di cultura; 2) la rivista surrealista che fu una delle creazioni autentiche di questo movimento; 3) critica di ogni rivista. Pubblicazione collettiva, ma senza struttura collettiva reale, o meglio rivista dogmatica, strumento di dimostrazione e di lotta, l’organo di un partito o di una scuola, ma non un modo di ricerca. La periodicità, condizione puramente arbitraria: come reintrodurre il “dis-operare”, la non-curanza del tempo in una pubblicazione periodica? In che modo, testi letterari irriducibili a qualsiasi insieme, a qualsiasi unità, possono situarsi in questo progetto d’insieme che è una rivista? (ecc.).
- Testi critici: la situazione di Block nel pensiero tedesco attuale. Un testo inedito di Bloch.
- La settorialità culturale in Francia, in Italia.
-La struttura dell’editoria francese...
(Traduzione dal francese di Adriano Marchetti)