Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Belpoliti e Elio Grazioli
Intervista a Paolini

Pare che il più delle volte la critica d’arte non riesca da un lato ad uscire dalle sue categorie, delineazioni, denominazioni, concetti guida, dai binari tracciati per comodità; dall’altro tuttavia gli artisti pare che non riescano a loro volta a farsi intendere meglio, a dire o mostrare con più carisma ciò che cercano, o trovano. Lei cosa ne pensa?

Ogni epoca, direi, può vantare i suoi pregi e deve ammettere i suoi difetti. Questa che noi viviamo non fa eccezione alla regola: tutto sembra continuamente rimesso in gioco, ripetuto e rinnovato, rivisto e corretto ma senza alzare troppo lo sguardo al di sopra di un orizzonte che rischia di diventare un limite ravvicinato e soffocante. L’estensione del numero e della qualità delle voci provoca poi una certa saturazione, che non è neppure un pieno e dichiarato rumore ma un fastidioso e insistente brusio. Si tratta di capire se questa nostra «epoca» si esaurisca in un secolo, in un decennio... o in un minuto.
Non si sa mai...


La sua opera è stata usata nelle più svariate occasioni come presupposto o anticipazione di una quantità diversa di movimenti artistici, dal concettualismo di varia definizione, ai Nuovi Nuovi di Barilli, all’Ipermanierismo di Tomassoni, al decostruzionismo di varia natura e altro ancora. Che cosa significa questo? Per lei è soltanto un di specchi?

Credo, nella prospettiva degli anni, di essermi sempre e soltanto trovato a interrogarmi sulle «verità» (la credibilità o almeno la leggibilità) di un quadro o di una scultura, sulle coordinate di spazio e di tempo che ce ne consentono l’osservazione: insomma, sulla loro visibilità. Se questo è, come è, un gioco di specchi, non si vede perché non dovesse riflettersi a sua volta in altre ulteriori direzioni, in un caleidoscopio di varie e differenti angolazioni.


Che cosa pensa del ruolo della cultura in arte? E dove sta, la cultura, nel cosiddetto sistema o mondo dell’arte? Che ruolo ha l’arte (contemporanea) nella cultura (contemporanea)? Non le sembra, cioè, che pochi uomini di cultura oggi si occupino o siano perlomeno interessati all’arte contemporanea?

Prima di chiederci dove stia, dovremmo forse appurare che cosa sia ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare cultura. Voglio sperare, ad ogni modo, che qualche cosa si nasconda da qualche parte, magari proprio dove crediamo sia più difficile avvistarla. Di fronte al dilagare diffuso e incontrastato della sottocultura, francamente non so se e di che cosa valga la pena di prendere le difese.


Come pensa che sia cambiato il suo progetto estetico come se lo poneva agli inizi della sua attività, o nel punto che lei ritiene per sé più significativo, più «programmatico», e il punto a cui si sente oggi?

In termini di bilancio, forse un po’ troppo rigidi e schematici, ho conosciuto una graduale trasformazione, senza peraltro arrivare, credo, a veri e propri ripensamenti o contraddizioni. Da un’iniziale assolutezza dell’enunciato, da formulazioni con pretese «oggettive» sono pervenuto a un più attento ascolto delle occasioni più «soggettive». Credo cioè di continuare a procedere tuttora sulla stessa linea, sulle stesse «diagonali» di allora, pur concedendomi qualche benefica e salutare indulgenza... A queste stesse domande, tanto per fare un esempio, mi pare di rispondere in modo semplice e diretto, diverso dal tono vagamente oracolare che avrei adottato anni addietro.
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