Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Belpoliti e Elio Grazioli
Intervista a Arbasino

Innanzitutto vorremmo chiarire che quello che le chiediamo non sono giudizi o considerazioni di rette sulla situazione attuale (linee, tendenze, direzioni...) o su questioni teoriche generali, ma delle riflessioni a partire dalla sua situazione personale. Cominciamo dunque:

Il mondo da un lato sembra non cambiare mai ed essere sempre lo stesso e dall’altro cambia così velocemente che spesso disorienta o fa perdere il senso dell’aggiornamento. Lei come vive questo doppio registro?

L’esperienza culturale fornisce inevitabilmente una quantità di parametri e giroscopi utilizzabili. E in pochi decenni abbiamo visto sprofondare nella dimenticanza e nel ridicolo un’infinità di effimeri anche presuntuosi e prepotenti. Basta vivere in una struttura di referenti efficaci dai classici latini ai memorialisti e storici francesi ai saggisti inglesi a poeti come Leopardi e D’Annunzio e Gramsci usati come antropologi tenebrosi delle «costanti» e dei «ricorsi» nella natura degli italiani. E invece di far nostalgia, o pia illusione, controllare le differenze fra ieri e oggi con documenti obiettivi: fotografie, statistiche, uscite editoriali, pagine degli spettacoli sui giornali.


Lei è uno dei pochi - l’unico? - a tenere insieme qualità dell’attività letteraria con una vita che rinuncia in niente alla mondanità e alla frequentazione del mondo, uno insomma che dimostra bene che l’arte non necessariamente sta con isolamento e inattualità. Come ci può ribadire i caratteri di questo suo atteggiamento? E cosa pensa di chi sente invece la propria fragilità rispetto al mondo e pensa di doversi salvaguardare con un certo isolamento?

Mah. Non posso fare il letterato italiano tipico perché ho passato gli anni di formazione studiando diritto internazionale e andando alla Scala. Però in diverse epoche i letterati anche spetto al italiani si sono appassionati vivamente alle arti e alla musica e alle culture straniere, al di là dei propri comparti settoriali. Vado da decenni per musei e mostre e concerti e festival, spesso pieni di italiani; ma raramente vi incontro i nostri letterati (di qualunque generazione vecchia e nuova), anche dove basterebbe una telefonata agli uffici stampa per avere le facilitazioni gratuite. Quando poi vedo gli appartati e schivi che si dimenano a tutti i premi grossi o piccoli, mi dico che sarà un «carattere originale» molto nazionale da mettere in quei volumoni verdi Einaudi «anni Settanta». Quando leggo sulle pubblicazioni modiste che i più giovani devono aggiornarsi ogni settimana su decine di nuovi «complessi» di rave lappone o rap berbero, mi congratulo per tutta un’adolescenza quando tra Nerval e Mahler si vivevano mesi. E quando sento che per tanti italiani il massimo del piacere mondano è un compleanno di sottosegretario o caposervizio, con boiardi e balordi e presentatori e vallette e mignotte e regine di salotti, mi dico che essendo nato nel ‘30 ho fatto ancora in tempo (fra balli e feste) a scamparla abbastanza bella. Così come è andata bene (ma lì si tratta di fortuna) col sex: tante belle cose nei diversi paesi prima della droga e del crimine e dell’Aids. Ma «è andata così».


Lei ha una cultura veramente molto vasta, che siamo in molti a invidiarle - e che non ci pare siano in molti ad avere. Come ne misura la vastità? E come ne misura la «profondità»?

Dipende dalle curiosità in vari campi (cosa però che c’è sempre stata) e dalle ricerche di nessi: «only connect». La profondità non mi pare un gran che. Tutti abbiamo bisogno dell’antichista e del commercialista, del filologo e del cardiologo. Ma non sempre le specializzazioni universitarie sono così interessanti. Però questo si intende generalmente per profondità. Oppure, si intende il Pensiero, benché l’Italia non sia una gran produttrice di pensiero originale. L’ultimo fu Leopardi, no? In seguito, molta rielaborazione di pensiero tedesco e francese, con saggi fatti soprattutto di citazioni; e non molta reciprocità da parte dei pensatori esteri. Forse il pensiero filosofico si sviluppa soprattutto nelle culture dove funziona anche la musica sinfonica e da camera. E l’Italia ha sempre esportato ottimi sarti, architetti e cantanti, con successo costante, per secoli. Al contrario, la produzione nostrana di pensiero o whisky o jazz autarchico mi è spesso apparsa velleitaria e patetica.


Che cosa pensa della cultura accademica? E cosa pensa della poesia? Trova strano l’accostamento delle due domande?

Ho conosciuto e frequentato e amato Roberto Longhi e Cesare Brandi e Mario Praz. Erano certo accademici: però, grandi intellettuali creativi e liberi, dunque ostacolati e angariati dal milieu accademico medio. Si salvarono solo Giovanni Macchia e Gianfranco Contini, forse. Ma il povero Giacomo Debenedetti - che era Debenedetti! - ne perì. Dopo allora, fu saggio non aspettarsi molto di positivo. Metterci insieme la poesia? Equivale a un matrimonio surrealista fra un cavatappi e un’azalea? Sono stato un baby-fan di Montale, al ginnasio durante la guerra; e poi un lettore appassionato di Pasolini e Zanzotto e Penna. Però, capisco soprattutto la poesia di prosatori come Delfini, Volponi, Testori, Ottieri. E per il resto, capisco meglio Eliot, Auden, Gunn, oltre a Rilke e Hofmannsthal, e addirittura Valéry. (Come diceva Gadda: a chi mi domanda se mi muovo, rispondo «no, non mi muovo». Ma qui subentrano lo snobismo qualitativo e il sense of humour: sto lavorando bene a Salisburgo e a Ferrara, per favore non invitatemi nei paesini ansiosi).
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