Marco Ercolani
Il rumore di fondo
Il rumore di fondo
Lezione di Vladimir Nabokov all'Università di Cornell (1955)
È una questione di dettagli. Se, al centro di una storia drammatica, improvvisamente vedi il dorso di una foglia cadere dal ramo di un faggio, perché l’autore te la descrive con la stessa intensità con cui ha appena descritto un’agnizione fra padre e figlio, dimenticheresti non solo le banali psicologie ma anche i volti stessi dei personaggi. O se, mentre l’eroe piange la morte dell’amata, sul terrazzo della sua casa sventolasse un lenzuolo e mandasse un’ombra che, dal fondo della strada, fosse visibile come il profilo di un falco selvatico, la descrizione di questo uccello apparso nel traffico brulicante di una metropoli riempirebbe pagine su pagine di particolari lontanissimi dall’intreccio della storia. Sempre più ininfluenti e sempre più necessari. Perché così deve accadere. Il solo scopo dello scrittore, alla fine, è sviare il senso comune e mandarlo in frantumi con qualche particolare sinistro imbarazzante, portentoso e splendido, qualche neo o sciarada che non c’entra per niente col senso della storia ma traccia, nell’aria di quelle parole, una scia che non si consuma, che non si decifra.
La scrittura crea fantasmi. È qualcosa che non ci aspettiamo, come se di colpo l’orizzonte scarlatto di un mare burrascoso irrompesse nella catena monocroma delle nostre immagini e ne spezzasse gli anelli d’acciaio. Flaubert ne sapeva qualcosa: fingendo di descriverci Madame Bovary, accumulava su ogni oggetto, strato dopo strato, scatole di parole, che sembravano ora cassetti stracolmi ora bare di vetro ora nastri sgargianti, e alla fine non sapevi più di cosa si stesse parlando. E questo il nostro compito, almeno quello che intravediamo finora con la nostra inferma intelligenza: cancellare gli oggetti nel fulgore delle loro stesse descrizioni, rendendoli simili a miraggi in un deserto di sabbia inondata da un sole tanto bianco da oscurare l’orizzonte; abbacinarli sotto colate di parole, finché quei fiumi di lava si svelino presenze sospettose, perturbanti, sgradevoli, dietro le quali è lecito supporre un segreto. Ma non sempre il segreto c’è: e neppure le grandi idee. D’altronde, a cosa servono? A ben poco. Basta lo stile. E, insieme allo stile, l’assenza di punti di vista comuni. Questo sì. Nessuna communauté. La scrittura è uno sgradevole cimitero di idee condivise, di descrizioni perversamente uguali, di stati d’animo che si assomigliano, e tutti ci annoiano a morte: pare di assistere a quei cortei carnevaleschi dove l’immutabile cornice del rito si distingue solo per il fracasso maggiore delle trombe o la lucentezza più squillante dei colori. Ma la scrittura è ben altro. Passa nella schiena dritta e rapida, come un brivido. Ci colpisce lì, non al cervello, ma in tutta la colonna vertebrale, come il soffio primigenio della paura: e allora non c’è più niente da fare. Bisogna essere intransigenti. E se non si sente quel gelo fra le scapole, bisogna cacciar via tutto, rifare la strada, vedere il punto dove ci siamo arenati: e quel punto è, quasi sempre, l’abominevole prevedibilità di una frase, di un aggettivo, di un significato.
Non è piacevole, il discorso, ma necessario. Più per me che per voi. Vedete, io ho perso un’occasione: nei miei romanzi non ho saputo, con la giusta determinazione, mandare in fumo tutta l’architettura della narrazione, questa casa enorme e ingombrante, fatta di corridoi, scale, finestre, porte, pianerottoli e stanze su stanze, migliaia di stanze; non ho dato abbastanza spazio ai piccoli nascondigli, alle botole, ai trabocchetti, a quei dettagli che fanno, di un edificio impareggiabile e solidissimo, una casa in imminente rovina, un tempio senza fedeli, in stato di allarme. Ho perso proprio l’occasione: mi sono smarrito in brillanti osservazioni di stile senza essere, nel Grande Quadro di Corte, quella volpe zoppa, quel gatto storpio, quella moneta fuori uso, quell’inutile anamorfosi nel tappeto, tale da rendere il quadro giustamente inimitabile e perversamente deforme. Non ho avuto abbastanza coraggio da affollare l’architettura dei miei libri di tali e tanti dettagli da rendere porose tutte le pareti, da condurle, piano piano, allo sgretolamento. Non sono stato abbastanza attento, cadendo come fa ogni scrittore dall’ultimo piano del suo personale grattacielo, da tenere il pennarello ben stretto in mano tracciando sul muro dell’edificio, un secondo prima di sfracellarmi, un qualche bel graffito umoristico, magari il muso di un coniglio o il dorso di un coleottero.
Quello che non ci aspettiamo è il lavoro di base, il rumore di fondo, la minuziosa ricerca, ad esempio, di come l’aria di campagna, quel giorno di luglio, è apparsa agli occhi di Davide Copperfield, anche se lui non ha voluto parlarne; o di quale animale ha taciuto Utterson, mentre ci descriveva l’apparizione di Hyde, gatto randagio o cane bastardo che lo seguiva nelle sue peregrinazioni notturne e guaiva ogni volta che quel disgraziato malmenava un passante col bastone; o i pensieri sempre taciuti da Kafka, su come fosse stato sereno, addirittura felice, mentre scriveva le ultime pagine della Metamorfosi; o ancora, di che tessuto era fatta la tela che Penelope continuava a tessere, da dove veniva, se da terre lontane o vicine, chi erano i viaggiatori e i commercianti che per primi lo avevano portato a Itaca, e in che modo, con quali viaggi, se sventurati o propizi. Insomma, io parlo di tutto un lavoro sull’ordito della scena, di un faticoso scucirla punto per punto, mantenendo l’immagine ancora visibile, là, in superficie; ma dietro, nel retro, quella stessa immagine è solo la polvere e la cenere della sua fine imminente — fine che in realtà è già avvenuta e le parole, con la loro gradevole apparenza e la loro affabile complicità, ce lo confermano. Non è facile abolire le regole del senso comune, e forse è anche inutile: gli uomini, che credano pure alle immagini del mondo o al significato delle parole. Questo non mi disturba più di tanto. Basta che le parole sappiano, descrivendo, di doversi allontanare dall’oggetto di cui parlano: e non siano mai quello che sono, ma diventino subito il commento favoloso che rende friabili i marmi, sabbiose le cattedrali, e perfettamente inutile il pensiero, il destino, la sontuosa ambizione dell’uomo. Ricordiamolo sempre: la forza di un romanzo non sta nella solidità della sua trama ma nell’apparente robustezza del filo che lo tesse, un filo così teso e forte da non far sospettare che, lì sotto, il tarlo della parola è già al lavoro e compie il suo diabolico lavoro di distruzione della tela, una distruzione lentissima, vigile, minuziosa, controllata, che noi, scrivendo, gli consentiamo di buon grado: pur desiderando che l’apparenza fugga via, lasciandoci soli con la visione del ragno nero e sinistro che domina la casa scomparsa, vegliamo il simulacro di quella casa — vogliamo che resti ancora, come la facciata di un edificio che dobbiamo percorrere in tutto il suo vuoto, come l’inganno necessario al sogno perché rimanga proprio il nostro sogno...
È una questione di dettagli. Se, al centro di una storia drammatica, improvvisamente vedi il dorso di una foglia cadere dal ramo di un faggio, perché l’autore te la descrive con la stessa intensità con cui ha appena descritto un’agnizione fra padre e figlio, dimenticheresti non solo le banali psicologie ma anche i volti stessi dei personaggi. O se, mentre l’eroe piange la morte dell’amata, sul terrazzo della sua casa sventolasse un lenzuolo e mandasse un’ombra che, dal fondo della strada, fosse visibile come il profilo di un falco selvatico, la descrizione di questo uccello apparso nel traffico brulicante di una metropoli riempirebbe pagine su pagine di particolari lontanissimi dall’intreccio della storia. Sempre più ininfluenti e sempre più necessari. Perché così deve accadere. Il solo scopo dello scrittore, alla fine, è sviare il senso comune e mandarlo in frantumi con qualche particolare sinistro imbarazzante, portentoso e splendido, qualche neo o sciarada che non c’entra per niente col senso della storia ma traccia, nell’aria di quelle parole, una scia che non si consuma, che non si decifra.
La scrittura crea fantasmi. È qualcosa che non ci aspettiamo, come se di colpo l’orizzonte scarlatto di un mare burrascoso irrompesse nella catena monocroma delle nostre immagini e ne spezzasse gli anelli d’acciaio. Flaubert ne sapeva qualcosa: fingendo di descriverci Madame Bovary, accumulava su ogni oggetto, strato dopo strato, scatole di parole, che sembravano ora cassetti stracolmi ora bare di vetro ora nastri sgargianti, e alla fine non sapevi più di cosa si stesse parlando. E questo il nostro compito, almeno quello che intravediamo finora con la nostra inferma intelligenza: cancellare gli oggetti nel fulgore delle loro stesse descrizioni, rendendoli simili a miraggi in un deserto di sabbia inondata da un sole tanto bianco da oscurare l’orizzonte; abbacinarli sotto colate di parole, finché quei fiumi di lava si svelino presenze sospettose, perturbanti, sgradevoli, dietro le quali è lecito supporre un segreto. Ma non sempre il segreto c’è: e neppure le grandi idee. D’altronde, a cosa servono? A ben poco. Basta lo stile. E, insieme allo stile, l’assenza di punti di vista comuni. Questo sì. Nessuna communauté. La scrittura è uno sgradevole cimitero di idee condivise, di descrizioni perversamente uguali, di stati d’animo che si assomigliano, e tutti ci annoiano a morte: pare di assistere a quei cortei carnevaleschi dove l’immutabile cornice del rito si distingue solo per il fracasso maggiore delle trombe o la lucentezza più squillante dei colori. Ma la scrittura è ben altro. Passa nella schiena dritta e rapida, come un brivido. Ci colpisce lì, non al cervello, ma in tutta la colonna vertebrale, come il soffio primigenio della paura: e allora non c’è più niente da fare. Bisogna essere intransigenti. E se non si sente quel gelo fra le scapole, bisogna cacciar via tutto, rifare la strada, vedere il punto dove ci siamo arenati: e quel punto è, quasi sempre, l’abominevole prevedibilità di una frase, di un aggettivo, di un significato.
Non è piacevole, il discorso, ma necessario. Più per me che per voi. Vedete, io ho perso un’occasione: nei miei romanzi non ho saputo, con la giusta determinazione, mandare in fumo tutta l’architettura della narrazione, questa casa enorme e ingombrante, fatta di corridoi, scale, finestre, porte, pianerottoli e stanze su stanze, migliaia di stanze; non ho dato abbastanza spazio ai piccoli nascondigli, alle botole, ai trabocchetti, a quei dettagli che fanno, di un edificio impareggiabile e solidissimo, una casa in imminente rovina, un tempio senza fedeli, in stato di allarme. Ho perso proprio l’occasione: mi sono smarrito in brillanti osservazioni di stile senza essere, nel Grande Quadro di Corte, quella volpe zoppa, quel gatto storpio, quella moneta fuori uso, quell’inutile anamorfosi nel tappeto, tale da rendere il quadro giustamente inimitabile e perversamente deforme. Non ho avuto abbastanza coraggio da affollare l’architettura dei miei libri di tali e tanti dettagli da rendere porose tutte le pareti, da condurle, piano piano, allo sgretolamento. Non sono stato abbastanza attento, cadendo come fa ogni scrittore dall’ultimo piano del suo personale grattacielo, da tenere il pennarello ben stretto in mano tracciando sul muro dell’edificio, un secondo prima di sfracellarmi, un qualche bel graffito umoristico, magari il muso di un coniglio o il dorso di un coleottero.
Quello che non ci aspettiamo è il lavoro di base, il rumore di fondo, la minuziosa ricerca, ad esempio, di come l’aria di campagna, quel giorno di luglio, è apparsa agli occhi di Davide Copperfield, anche se lui non ha voluto parlarne; o di quale animale ha taciuto Utterson, mentre ci descriveva l’apparizione di Hyde, gatto randagio o cane bastardo che lo seguiva nelle sue peregrinazioni notturne e guaiva ogni volta che quel disgraziato malmenava un passante col bastone; o i pensieri sempre taciuti da Kafka, su come fosse stato sereno, addirittura felice, mentre scriveva le ultime pagine della Metamorfosi; o ancora, di che tessuto era fatta la tela che Penelope continuava a tessere, da dove veniva, se da terre lontane o vicine, chi erano i viaggiatori e i commercianti che per primi lo avevano portato a Itaca, e in che modo, con quali viaggi, se sventurati o propizi. Insomma, io parlo di tutto un lavoro sull’ordito della scena, di un faticoso scucirla punto per punto, mantenendo l’immagine ancora visibile, là, in superficie; ma dietro, nel retro, quella stessa immagine è solo la polvere e la cenere della sua fine imminente — fine che in realtà è già avvenuta e le parole, con la loro gradevole apparenza e la loro affabile complicità, ce lo confermano. Non è facile abolire le regole del senso comune, e forse è anche inutile: gli uomini, che credano pure alle immagini del mondo o al significato delle parole. Questo non mi disturba più di tanto. Basta che le parole sappiano, descrivendo, di doversi allontanare dall’oggetto di cui parlano: e non siano mai quello che sono, ma diventino subito il commento favoloso che rende friabili i marmi, sabbiose le cattedrali, e perfettamente inutile il pensiero, il destino, la sontuosa ambizione dell’uomo. Ricordiamolo sempre: la forza di un romanzo non sta nella solidità della sua trama ma nell’apparente robustezza del filo che lo tesse, un filo così teso e forte da non far sospettare che, lì sotto, il tarlo della parola è già al lavoro e compie il suo diabolico lavoro di distruzione della tela, una distruzione lentissima, vigile, minuziosa, controllata, che noi, scrivendo, gli consentiamo di buon grado: pur desiderando che l’apparenza fugga via, lasciandoci soli con la visione del ragno nero e sinistro che domina la casa scomparsa, vegliamo il simulacro di quella casa — vogliamo che resti ancora, come la facciata di un edificio che dobbiamo percorrere in tutto il suo vuoto, come l’inganno necessario al sogno perché rimanga proprio il nostro sogno...