Gianni Celati
Il progetto «Alì Babà», trent’anni dopo
Il progetto «Alì Babà», trent’anni dopo
Brighton, novembre 1997
Carissimi
dei materiali che avete messo assieme per documentare il lavoro con Calvino, non mi ricordavo quasi niente. Mi fa impressione rivedermi com’ero, in queste lettere, che in fondo sono lettere tra amici che discutono sulle loro fissazioni. Ma eravamo davvero entusiasti, e c’era qualcosa in ballo che ci premeva molto - qualcosa che poi è sfociato nei libri ulteriori di Calvino, i quali adesso mi sembrano impensabili senza questo lungo dibattito con Guido Neri, Carlo Ginzburg, Enzo Melandri e me.
Nella lettera che Marco Belpoliti mi ha inviato dice che tutto questo lo interessa per poter raccontare «un’idea di letteratura e un progetto di società» che avevamo in testa a quei tempi. Nel nostro caso lascerei da parte il «progetto di società», ma noterei che i nostri discorsi partivano da un’esigenza molto sentita da tutti, e messa avanti da Calvino in particolare. Calvino diceva che alla letteratura «si può chiedere qualcosa di più», oltre al solito tran-tran dei libri di successo. Con ciò voleva dire che una letteratura chiusa nel suo ghetto di premi e di best-sellers, di cerimonie critiche e di pose letterarie, diventa priva d’immaginazione proprio perché non ha più nessun termine di confronto esterno.
In sostanza, mi sembra, la nostra idea di fondo era quella di far uscire la letteratura dal suo ghetto. Ma siccome quel «qualcosa in più» che si andava cercando fuori dal ghetto riguardava la sua funzione (la funzione della letteratura), allora si trattava di chiedersi a cosa servono i libri, i romanzi, le poesie, e scavare il terreno sotto i fondamenti che sono dati per scontati, e rimuginare su tutto, e infine viaggiare tra le astrazioni più vertiginose. Ecco l’impresa in cui ci siamo imbarcati avventurosamente, e adesso proverò a dire le sue tappe come me le ricordo.
Nell’estate del 1968, a Urbino c’era un convegno con molti nomi celebri. Io ero nei paraggi e ci sono andato per incontrare Calvino, che era tra gli invitati. Per tre giorni abbiamo parlato quasi ininterrottamente e lui era ancora eccitato da quello che aveva visto durante le giornate di maggio a Parigi. Ne parlava con straordinario entusiasmo; diceva che era andato in giro per le strade con un senso di liberazione; e mi raccontava che gli psicanalisti parigini durante quelle giornate avevano perso tutta la clientela; e infine mi spiegava la sua sensazione di essersi levato dei pesi di dosso, e che adesso si sentiva di «voltare pagina».
Poi l’ultimo giorno mi ha spiegato che l’editore Einaudi gli aveva proposto di riattivare la rivista diretta da Elio Vittorini e rimasta sospesa dopo la sua morte. Ma lui aveva in mente di fare una cosa molto diversa, con un gruppo di persone fuori dai giri ufficiali e orientate verso varie discipline. Per questo aveva pensato di avviare la cosa rivolgendosi a me, Guido Neri e altri. Io naturalmente ero emozionato e confuso dalla sua proposta; ma poi quell’estate sono andato a trovarlo a Cinquale, e ho cominciato a conoscerlo meglio.
Devo dire che a quei tempi Calvino mi sembrava molto giovane e non sentivo la differenza d’età. Questo dipendeva dal suo aspetto fisico, ma anche e soprattutto dal fatto che era sempre in caccia, sempre in ascolto, sempre attento a tutto quello che poteva mettergli in moto l’immaginazione. Credo che in quegli anni si sentisse molto meglio con gente più giovane di lui, e per quello facesse volentieri amicizia con persone come me. Un altro suo amico giovane era Carlo Ginzburg, a cui era legato da tempo, mentre a Urbino quella volta ha fatto amicizia con Paolo Fabbri e Paolo Valesio, più o meno della mia età.
Carlo Ginzburg era venuto ad abitare da poco a Bologna, e lo vedevo spesso. Aveva pubblicato il suo primo libro, i Benandanti, che mi ha sempre colpito per il suo estro narrativo. Era stato Calvino a presentarci, una volta che eravamo in Val d’Aosta, e dopo abbiamo fatto molte camminate assieme, molte discussioni, ma sopratutto molte litigate come due galletti in un pollaio, che sono durate fraternamente per anni e anni.
Guido Neri allora abitava a Roma, ed era il periodo in cui curava le prime edizioni italiane di Georges Bataille, e poi di Samuel Beckett, come consulente per la casa editrice Einaudi. Aveva otto o nove anni più di me e di Carlo, e un stile così poco tronfio e poco ideologico che allora era davvero una rarità. Anche Calvino era impressionato da quel suo modo di leggere e scrivere come se facesse un esercizio monacale. Era diverso da tutti gli uomini di cultura che m’era successo d’incontrare, e credo di aver imparato da lui moltissime cose sul lavoro di leggere e scrivere.
Il terzo che si è messo con noi in quell’impresa era Enzo Melandri. Allora aveva appena finito quella che è rimasta la sua summa filosofica, La linea e il circolo, libro che credo stupisca chiunque riesce ad inoltrarsi nei suoi labirinti. Melandri era soprattutto un logico, e siccome circa un anno prima io mi ero messo a studiare logica, spesso gli portavo i miei esercizi perché me li correggesse. Poi ho capito che gli interessava di più chiacchierare e giocare a carte, così è successo che non ho più studiato logica, ma in compenso quasi ogni sera giocavamo a carte. Per me, come per Carlo Ginzburg e Guido Neri, era una presenza molto importante: soprattutto per il suo stile di pensiero che tendeva a far retroagire le conclusioni sulle premesse, senza lasciare mai spazio ad asserzioni definitive.
Questi erano i partecipanti all’impresa progettata da Calvino. Poi c’erano altri a cui pensava di rivolgersi una volta stabilito un programma di lavoro: ad esempio programma Fabbri,
che a Urbino aveva fatto una bellissima analisi di Pinocchio; poi Paolo Valesio, che aveva scritto un saggio sul «folklore verbale» (gli spezzoni di linguaggio che ci vengono in bocca, pezzi di canzoni, proverbi, modi di dire) a partire dal delirio di Ofelia impazzita; poi ancora c’era Antonio Faeti, che stava studiando le illustrazioni di libri per ragazzi (che interessavano molto a Calvino) per quel suo libro che si sarebbe intitolato Guardare le figure; poi c’era Paolo Fossati, che secondo Calvino era l’unico critico d’arte che non parlava come un critico d’arte, cioè indipendente e con interessi poco corporativi; poi credo anche ci fosse Giorgio Manganelli che noi tutti ammiravamo per quel suo «Discorso sul comunicare con i morti», etc.
Insomma c’era una cerchia di persone che Calvino teneva d’occhio, e con cui si sentiva di condividere qualcosa. Doveva essere stata l’aria del maggio 1968 a suggerirgli l’idea d’una simile squadra, scartando tutti i nomi dei predicatori in voga.
Adesso però mi accorgo che tutti i discorsi sono partiti da un incontro tra me, Calvino e Guido Neri, a casa mia, a Bologna. Doveva essere la fine del ‘68, e Carlo Ginzburg ed Enzo Melandri non erano ancora stati coinvolti nelle nostre rimuginazioni. Abbiamo parlato per due giorni quasi senza smettere, io prendevo appunti, e dopo ho cercato di riformulare il senso dei nostri discorsi in quei protocolli che trovo tra i documenti da voi raccolti. Quello che mi colpisce è l’astruseria del linguaggio che usavo allora, e il disastroso intellettualismo di tutte le mie frasi.
A quei tempi sembrava che esistesse un baratro tra l’intellettualismo implacabile degli uomini di cultura e la banalità della vita ordinaria. Anzi, l’intellettualismo era basato sul disprezzo per l’ovvietà, sul ripudio di tutto ciò che appariva banale, e questo ripudio era appunto fondato su una certa capacità di disquisizione teorica. I cosiddetti intellettuali sembravano stranamente ignari del fatto di stare in piedi grazie ad abitudini banali, come tutti, essendo inoltre gente molto più noiosa della comune umanità. Anche Calvino era un accanito avversario dell’ovvietà, ma scansava i noiosi, e i voli teorici sembrava che li vedesse più che altro come una avventura immaginativa.
Io allora avevo una borsa di studio che mi portava a passare lunghi periodi a Londra, e facevo questi viaggi con una macchina traballante fermandomi a Parigi in casa di Calvino come in un porto di mare. Forse è stato durante queste soste che s’è avviata la riflessione sulla rivista, forse alla sera quando andavamo a Saint Germain des Près, in un caffé che piaceva a Calvino. Comunque allora a Parigi c’erano tanti libri arditi e complicati, oscuri e battaglieri, o soltanto farfuglioni ed esagitati, che uscivano quasi ogni giorno, e questi davano il senso di doversi confrontare con qualcosa di radicalmente nuovo sotto il sole.
L’intellettualismo forsennato di quegli anni si nutriva di tante tesi arruffate, sovversive, presuntuose, che però nell’insieme facevano pensare a un’avventura collettiva in terre inesplorate. C’era di tutto che veniva a galla alla rinfusa: Artaud e il teatro della crudeltà, Saussure e la linguistica, Lévi-Strauss e le società primitive, Lacan e la psicanalisi, Propp e la morfologia delle fiabe, Benjamin e le sue tesi sulla storia, Foucault e l’archeologia, Deleuze e la logica della differenza, Sade e le perversioni sessuali, Nietzsche e l’opposizione tra storia monumentale e storia antiquaria, Bachtin e il carnevale, il dialogismo, etc.
Questi libri mi sembravano irresistibili, quasi come il cinema, che allora era per me una droga quotidiana. Poi c’erano tutti i libri che scovavo a Londra, nella biblioteca del British Museum dove passavo le mie giornate, e nella libreria Foyles in Tottenham Court Road, che aveva al secondo piano una sala dedicata ai libri di antropologia. (In quel periodo ho letto i famosi antropologi di scuola inglese, Taylor, Frazer, Malinowski, Evans-Pritchard, Margaret Mead: li leggevo in fretta, senza capirci molto, ma con l’idea che fossero più appassionanti dei romanzieri.)
Con Calvino ci scrivevamo quasi ogni settimana sulle nostre ultime letture; oppure, se eravamo entrambi in Italia, lui mi telefonava da Torino ogni volta che arrivava da Parigi. Ed è stato il periodo di studi più tumultuosi e caotici della mia vita, perchè ci sorbivano quantità industriali di libri e articoli, ci suggerivamo sempre nuovi titoli da leggere, come in una ricerca dove non si vede mai il fondo.
Io leggevo molto, però un divoratore di libri svelto e insaziabile come Carlo Ginzburg non l’ho mai più incontrato. Guido Neri era più lento, più selettivo, e badava più al reparto francese. Enzo Melandri era un altro divoratore di libri, ma andava completamente per i fatti suoi, ed era impossibile tenergli dietro nei suoi studi sul calcolo analogico, che resta la sua invenzione. Un altro che seguiva queste ricerche era Lino Gabellone, che abitava a Montpellier ma capitava ogni tanto a Bologna, e col quale avevamo molti scambi epistolari sulle novità del mercato intellettuale.
Ricordo libri d’ogni genere che gettavamo nel calderone delle nostre proposte, letture in tre o quattro lingue più il greco antico che Melandri leggeva come niente fosse. Ricordo testi di antropologia, linguistica, psicanalisi, biologia, urbanistica, teorie utopiche, teorie scientifiche, teorie letterarie, teorie sull’arte, teorie della visione, teorie sociologiche, oppure gli sviluppi delle nuove filosofie. Tutti questi libri sembravano una caverna di Alì Babà, dove riuscendo a penetrare di soppiatto avremmo trovato patrimoni inestimabili che bastavano a renderci contenti per tutta la vita.
Avevo raccolto un pacco di lettere di Calvino, piene di confabulazioni sulle cose che leggevamo o su altri argomenti di scrittura. Dubbi, questioni, critiche, appunti su cose da scrivere, intuizioni che si perdevano per strada, progetti di rubriche o altre catalogazioni. Calvino aveva scambi d’opinioni anche con Carlo Ginzburg e Guido Neri, ma credo che fossi io ad attizzare di più il fuoco, semplicemente perché ero il più sbandato. La mancanza di una disciplina mi rendeva propenso a buttarmi a decifrare volumi di materie sconosciute, prendendo tutti i possibili abbagli senza neanche accorgermene.
Per tre o quattro estati sono andato a trovare Calvino al mare, prima a Cinquale, poi nella villa di Castiglione della Pescaia. Durante queste visite buttavamo giù piani di lavoro, scrivevamo agli altri per riassumere le nostre confabulazioni, ed io arrivavo sempre carico di idee come un piazzista che va a vendere la sua merce. Solo dopo ho capito che, se avevo sempre questo formicolio intellettuale nel cervello, era soltanto perché Calvino mi stava ad ascoltare con molta attenzione, e così mi metteva in vena di grandi esibizioni d’intelligenza.
Mi sono chiesto perché mi ascoltasse con tanta serietà. Un motivo era forse la sua convinzione di dover «voltare pagina», lasciandosi dietro una facilità di scrivere che lui chiamava «da scrittore domenicale». Voleva darsi dei vincoli, rendersi le cose più difficili. La massa di idee che fluivano sul mercato e che io rimestavo in grandi minestroni, gli aprivano vedute di maggior complicazione intellettuale. Questo più o meno mi sembra il motivo di tanti sforzi per trovare una piattaforma di lancio per quella rivista.
In un capitolo della Linea e il circolo, Melandri aveva considerato la Storia, la Storia Monumentale di cui si parla sempre, come un processo di rimozioni, di traumi nascosti e cicatrici dimenticate: un seppellimento di tutto quello che è perturbante, incerto e poco razionalizzabile nella vita. In questa prospettiva tutti gli scarti, tutte le cose perse per strada o eliminate dalla memoria storica, diventavano sintomi di un processo di rimozione, e suggerivano la necessità d’un lavoro di «restituzione del sommerso».
Nello stesso periodo, tra il 1969-70, Carlo Ginzburg si dedicava a una ricerca che poi è sfociata nel Formaggio e i vermi. Era una ricerca antiquaria del tutto indipendente dai discorsi di Melandri; ma il suo inseguimento di tracce sparse e sepolte d’una cultura subalterna, la sua paziente ricucitura di brandelli d’una «microstoria» tanto diffusa quanto dimenticata in nome della Storia Monumentale, mostravano un tipo di osservazione che poteva combaciare con l’idea annunciata da Melandri.
Questa attenzione alle tracce minime, attraverso cui si va cercando qualcosa di scomparso, come un archeologo che studi i residui d’un mondo sprofondato nella dimenticanza, veniva fuori anche da uno studio di Guido Neri su Claude Simon, pubblicato in appendice alla sua traduzione di Histoire. Era uno studio esemplare, che non si poteva leggere passando sopra ai dettagli, perché era proprio uno scavo di tracce fossili, come del resto era il libro di Claude Simon. E il libro di Claude Simon e lo studio di Guido Neri suggerivano l’idea che la letteratura potesse essere qualcosa del genere: uno sguardo che rivela la Storia Monumentale come un pulviscolo eterogeneo di tracce, di detriti travolti da una continua e inarrestabile mutazione, e su cui incombe sempre una dimenticanza come quella delle cose preistoriche.
Più legata alle idee di Melandri era un’altra ricerca di Lino Gabellone su certe attività dei surrealisti. Studiando alcuni strani oggetti esposti da Breton e soci, tabellone ritrovava ancora il senso delle tracce, dei detriti, dei residui portati alla luce dagli archeologi. Qui erano semplicemente oggetti trovati al mercato delle pulci, come nel caso di Breton, oppure oggetti qualsiasi della vita quotidiana, come nel caso di Duchamp, i quali mostravano l’effetto che sorge quando qualcosa è sottratto al suo contesto d’origine. E la stessa cosa valeva per i sogni, nucleo forte delle tesi surrealiste, che così apparivano in tutt’altro modo: non come formazioni dell’inconscio riportate alla luce del giorno, ma rimasugli narrativi di qualcosa che s’è perduto nella notte, tracce di un’origine irrecuperabile nel mare di tutte le nostre forme immaginative.
Intanto io avevo in mente altre cose, e soprattutto certi quadri della pop art che mi davano il senso di questo radicale spostamento di prospettiva - il pittore che si faceva esploratore di scarti e rimasugli della banalità quotidiana, come un archeologo che vede in cocci sbiaditi i segni di grandi sistemi di vita collettiva. Ho tanto amato alcune pitture di Rauschenberg proprio perché mi sembravano scarti messi m primo piano, manieristici scarti senza risvolti razionalizzanti. Tutto era lì in superficie, come residuo o detrito dell’ovvietà generale che ci accoglie nella vita quotidiana.
Questo è un riassunto dei miei pensieri di allora, su cui non ho più riflettuto da moltissimo tempo. Ma mi vengono in mente altre fonti d’ispirazione, per rievocare certi dialoghi con Melandri, Calvino e gli altri. Una di queste fonti d’ispirazione era lo studio di Walter Benjamin sul dramma barocco tedesco, dove la Storia non appare più come il dispiegarsi d’una linea che va sempre avanti, ma come un processo di rovine e di decadimenti, di cose sepolte nei detriti del tempo, di cui restano soltanto nuclei emblematici in forma di allegorie. Un’altra ispirazione veniva dagli studi sulle particelle nucleari, che debbono essere fatte ruotare ad altissima velocità in grandi circuiti per rivelare le loro caratteristiche, finché si frantumano e disfano, lasciandoci soltanto le tracce fotografiche delle loro scie nella corsa vertiginosa.
Tutto questo riguardava il tema delle tracce, delle cose sepolte, dei segni lasciati da qualcosa che è irrecuperabile. Allora non c’è più rappresentazione, c’è solo traccia delle cose, che rimane come scarto o residuo sintomatico, e neanche più come oggetto, ma evento della percezione. Ed era un modo di affrontare vecchie questioni, spostando l’attenzione di fondo - non più fissandosi sull’essenza della cosa o sul significato o sul cosiddetto messaggio, ma concentrandosi sul momento della registrazione, della percezione, e sui modi in cui qualcosa giunge a noi, nella sua differenza assoluta.
I segni e le parole ci giungono per vari tramiti, sempre come residui di altre descrizioni perse nel tempo, e la memoria forse è costituita da fossili del genere. Sono effetti che cerchiamo di decifrare nella massa dei detriti pulviscolari in cui gli eventi si dissolvono, lasciando dietro di sé soltanto ombre di ciò ch’era alla sorgente. E anche tutto questo che dico è un residuo di catene di pensieri che mi giravano in testa allora, altre ombre che adesso mi sembrano come quelle della caverna platonica in cui vivono sepolti gli uomini. Quanto alla caverna di Alì Babà, in cui dovevamo impossessarci dei patrimoni dell’intellettualismo europeo, a un certo punto mi è apparsa in un altro modo. Più che altro come un magazzino di scarti, di vecchi attrezzi inservibili, di avanzi dell’ovvietà quotidiana, di residuati intellettuali destinati a diventare presto banali oggetti di disaffezione, come una lattina della Cocacola gettata in un fosso.
Facendo un calcolo delle date, mi accorgo che gran parte delle nostre ricerche erano state pensate o scritte ancora prima dei nostri incontri. La traduzione e il saggio di Guido Neri erano usciti nel 1967; la Linea e il circolo di Melandri nel 1968; e Carlo Ginzburg nel 1968 era già occupato nelle sue ricerche antiquarie, per quel libro sul mugnaio fantasioso, che si intitolerà Il formaggio e i vermi. Mi sembra che anche Gabellone stesse già facendo le sue ricerche sugli oggetti surrealisti; mentre io a Londra avevo già finito un lungo studio con simili tendenze, diciamo «archeologiche», che poi è diventato Finzioni occidentali.
Allora, se tutto era già stato scritto, la direzione già trovata, di cosa dibattevamo? Forse soltanto sulle nostre divergenze d’umori, di voglie e di tentazioni. Le divergenze erano molte, ad esempio tra me e Carlo Ginzburg per questioni soprattutto caratteriali, perché lui era un serio studioso e io un saltimbanco confusionario.
Ricordo due o tre volte che Calvino è venuto a Bologna, perché doveva lavorare per una antologia scolastica pubblicata dalla Zanichelli. L’ultima volta deve essere stato nell’estate del 1971, se non mi sbaglio. Noi cinque (io, Calvino, Guido Neri, Enzo Melandri, Carlo Ginzburg) abbiamo passato tutta la giornata a parlare, e alla sera eravamo così stanchi che sembrava ci fossimo messi d’accordo su tutto. Dopo questa lunga chiacchierata, appena tornato a Parigi, Calvino ha scritto quel programma della rivista intitolato «Lo sguardo dell’archeologo» (poi pubblicato in Una pietra sopra).
Nel settembre 1971 sono partito per gli Stati Uniti, dove sono rimasto due anni. Ricordo che dagli Stati Uniti ho scritto a Calvino una lettera per criticare alcuni punti del suo programma, e in particolare il richiamo alla semiotica come un modo per mettere ordine nella confusione degli scarti. Quella è l’unica volta che Calvino ha avuto un gesto di stanchezza, per quanto ricordo; mi ha risposto che voleva sospendere il lavoro per la rivista e dedicarsi solo alle Città invisibili - libro cominciato due anni prima, in cui faceva rifluire molti pensieri nati per la rivista.
Durante la mia permanenza negli Stati Uniti i lavori per la rivista sono rimasti sospesi, e tutto ha preso un’altra forma. Anch’io sono cambiato molto in quel peri-odo. Ricordo l’effetto che ha avuto su di me un seminario con Michel Foucault, a Ithaca, e la frequentazione dello stesso Foucault; ricordo la sua incomparabile eloquenza, la sua meravigliosa intelligenza, traviate da una velenosità che spesso trovavo insopportabile, essendo una continua presa di distanza dalla vita ordinaria degli uomini. Dopo quel seminario ho deciso che non ne potevo più dei discorsi teorici, non credevo così ciecamente all’intelligenza - oppure, soltanto, non era la mia vocazione.
Durante uno dei miei ritorni dagli Stati Uniti, d’inverno, a Milano, io e Calvino siamo andati a parlare con Oreste del Buono. Adesso l’idea di Calvino era di tornare in pieno alla narrativa, cioè di non fare più una rivista culturale ma qualcosa in cui c’entrassero anche i fumetti: una cornice diversa per amalgamare dei pensieri troppo sfusi. Ricordo questo incontro a casa di Oreste del Buono, tutti d’accordo, poi la cosa è finita nel nulla. Credo che la nuova pubblicazione dovesse chiamarsi ALÌ BABA: la caverna dei tesori dell’intellettualismo era diventata una caverna favolistica, e tutto stava prendendo un altro stile.
Ormai cominciava l’epoca delle monete fluttuanti, delle filosofie fluttuanti, delle politiche scambiabili come monete, secondo un tasso di scambio non più garantito da nessuna riserva aurea. Non soltanto moltissime parole si erano svuotate a forza di usarle, (lotta, impegno, democrazia, partecipazione, emarginazione, movimento, lavoratori, socialismo), ma erano anche state travolte da entusiasmi più casuali e poco fondamentali. Appena il senso dell’ovvietà o banalità delle abitudini ha cominciato a farsi strada, molti di noi hanno visto meglio i loro modi d’adattamento al mondo esterno - hanno visto che tutto sta insieme per frammenti eterogenei e piccole frane, e che non c’è nessuna grande certezza, nessuna completezza esplicativa a cui potersi riferire.
Se le grandi costruzioni in ferro ottocentesche erano i segni d’una certezza scientifica senza debolezze - una certezza che si reggeva sull’ossessione dell’acciaio, del duro e del duraturo, dell’esperienza non deperibile, della cosa che rimane e non passa via - negli anni di lavoro assieme a Calvino mi sembra che abbiamo assistito al tramonto di queste ossessioni. Il modello teorico-scientifico, il modello dei modelli, adesso non ti aiutava più a vivere e forse neanche a pensare. La routine quotidiana, irrisoria e banale, la parzialità dei sintomi che ci legano ai luoghi, la casualità d’ogni espressione e d’ogni passione, la variabilità d’ogni soggetto umano, tutto ciò non riusciva più a diventare conoscenza, modello, insegnamento storico, per mancanza di un quadro di omogeneità e completezza. Così noi abbiamo imparato ad accettare la deperibilità e l’instabilità profonda di qualsiasi forma di sapere.
Nel 1978 io sono tornato negli Stati Uniti, e durante la mia assenza è andato perduto un baule che conteneva molte lettere di Calvino sui nostri scambi d’idee per la rivista. In fondo sono contento che la rivista non si sia mai realizzata: perché da una parte vuol dire che è stato un movimento in caduta libera, senza diventare una posizione da difendere per partito preso; dall’altra, tutto è rimasto sospeso in chiacchierate tra amici, e il fervore dell’amicizia si sente ancora nel tono di quei discorsi.
Adesso i miei amici sono quasi tutti morti. Guido Neri prima, Enzo Melandri poi, sono morti senza che nessuno scrivesse una sola riga sul loro eccezionale lavoro, sulla loro rara integrità. Quanto a Carlo Ginzburg, è andato avanti per la sua strada e forse c’entra poco con la storia che ho raccontato; però quel suo saggio intitolato Spie andrebbe letto assieme allo Sguardo dell’archeologo di Calvino, e all’ultimo mio protocollo intitolato Il bazar archeologico. Forse chi li legge a distanza può vederci delle scintille comuni, insieme alle differenze di stile e di pensiero.