Riga n.
Alberto Arbasino
Elio Grazioli
Corrispondenza Grazioli - Martegani


Grazioli a Amedeo Martegani

11 dicembre 1994
Caro Amedeo,
scriverti non mi è facile. Tu e le tue opere – ma limitiamoci ad esse, per uscire dalle complicazioni psicologiche – creano in me una sorta di turbamento che da tempo cerco di analizzare. Ciò che penso è che esse ritorcano contro di me, come, credo (chiedo?), contro chiunque, proprio la situazione di analisi: esse analizzano chi vi si accosta per analizzarle. Così comunque capita a me: ogni affermazione che tento su di esse mi appare tanto inessenziale e sospesa da farmi poi pensare piuttosto al mio venir meno rispetto ad esse.
Per la stessa ragione le trovo importanti e assolutamente diverse da ciò che vedo in giro. Ma perché? Appunto. Perché le vedo così? E una questione mia o c’è un riscontro reale? A me pare che qualcosa ci debba essere, che questo tuo «tirare» la pittura sopra le immagini, o le immagini e fin gli oggetti stessi (a proposito del tavolo dell’88 che sei tornato ad esporre proprio in questi giorni), del tuo trafficare in genere sulle tecniche per rendere l’immagine al tempo stesso leggibile e già altro (sei arrivato, l’ultima volta che ci siamo visti, a parlare, se non ho frainteso, persino di «narrazione»; forse per evitare, io credo, la parola «metafora», che è insufficiente e sviante).
Questi fiori che fai da un po’, e quelli di cui mi hai parlato per un progetto speciale (a te parlarne se vuoi), sono strani. Mi è venuto da pensare che in fondo tu vuoi che si veda nell’artista qualcuno che si fa bello, che adempie alla sua bellezza, come un fiore, ad una sua bellezza, cioè ad una bellezza sua, individuale. Il compito di ciascuno.
Non ho mai dimenticato quando mi facesti vedere le fotografie scattate a Ceylon, quel frontone di dèi coloratissimi, in particolare, di cui mi dicevi che sono, per te, ognuno diverso dall’altro, individui (nel senso più compiuto, se il dio è pur qualcosa di supremo) uno accanto e insieme all’altro. Anche per i fiori mi vien da pensare che per te sia così. E insieme, come dicevi, sé stessi e altro, lo spunto di un’altra immagine o racconto, o...
L’altra cosa poi che ho sempre apprezzato molto in te è questa volontà, contraddittoria anche, che importa?, di non apparire diverso, di non fare una parte, come si suoi dire, di non distinguerti «originalità», mani sporche da pittore o formalismi da modernista, vero?
Insomma, è, la tua, una lezione difficile, la più difficile, credo. Per questo la stimo sopra ogni altra forse. Essa forma anche lo spettatore, ne forma la ricezione, perché richiesta, va da sé, adeguata. Anche lo spettatore – non più «spettatore» – dovrà voler essere «normalmente» «meraviglioso».
Ecco, io ci ho provato. I conti mi sono tornati, ma, non rimproverarmelo, solo apparentemente, lo so.
Scrivimi, e mandami, tu qualcosa ora. Un saluto.
Elio

Amedeo Martegani a Grazioli

Milano, 15 dicembre 1994
Caro Elio,
sono felice del modo leggero che hai scelto di avviare questo dialogo narcisistico e ipocondriaco; accuse, trame e teorie degli anni passati mi sembrano dimenticate e finalmente ci si accontenta di leggersi negli occhi o guardarsi le mani. Come spesso succede in questi campi, la dissociazione è il primo sintomo di un lavoro sincero, la costruzione di due, tre, cinque personaggi è una necessità per coprirsi le spalle e poter lavorare in pace, come fanno gli scacchisti nei tornei, giocando aperture e gambetti diversi per ogni scacchiera.
Che c’entra?
Mi è piaciuto molto, anzi mi è sembrato un miracolo, leggere che pensi che «in fondo tu vuoi che si veda nell’artista, qualcuno che si fa bello, che adempie [...] ad una sua bellezza». Forse finalmente qualcuno vorrà smettere di guardare ogni singola partita e preferirà osservare come ci si muove tra i tavoli? Sarebbe troppo bello. Quel giorno sarei veramente libero. Mille volte ti ho fatto trapelare questo tormentone, mille volte ho ripetuto, non per cinismo o masochismo demente che delle opere proprio non m’importa, non riesco ad affezionarmi, a rifinirle, a considerarle inalienabili e pure. Di ciascuna mi libererei volentieri se fosse in cambio di quella libertà di girare tra i tavoli, di credermi imprendibile, inaccessibile, impunito.
Quadri, disegni, oggetti, fotografie, sono tutte zavorre che si lanciano volentieri a terra per liberarsi, sentirsi più leggeri, più mobili, ed intanto sono segni d’esistenza, di vita, di riflessione precomatosa, esercizi di simulazione. Giocare su più piani libera, sposta l’attenzione, divarica lo sguardo, complica il personaggio fino a farne perdere il movente, seppellendolo fra tante trame, mobili e variabili. Effettivamente «in uno di quei rari istanti che gli alcolisti chiamano “momento di lucidità”», mi chiedo che cosa si possa volere da me, o meglio, che cosa si pensa che potrei offrire?
Angela Vettese, poco prima di te, ha scritto a proposito di queste zavorre: «…Ma quelle nate da un’intuizione felice sanno tenere compagnia [...] perché s’impari a stare al mondo solamente sperimentando per caso ciò che ci rende felici, incontrando e cercando di ritrovare momenti che, come zollette date ai cavalli, ci educano a fare quello che facciamo». Certo, la presunzione è tale che non mi permette più nemmeno di distinguere quello che può servire a farmi libero da quello che invece mi costringe ad un continuo meretricio, un quotidiano mercanteggiare tra leggi assurde che d’istinto credo inapplicabili, ingiuste, avulse dal mio vero scopo, che non è mai l’azione in sé, ma chissà quale progetto globale se non, forse, l’immunità dai vincoli sociali.
Mi parli anche di volontà, come se qualcuno potesse farne a meno in un ambiente generoso e disponibile come qualunque altro: ma si tratta di volontà di azione, di spazio, di respirazione e solo in fondo di conservazione. Per questo non ammiro il travestimento, il ruolo, la moina, l’originalità; amo la normalità, l’acqua cheta, la gatta morta, lo sguardo esangue, la mano tiepida ed insieme un perverso non arrendersi ad ogni luogo comune che fa dell’evidenza un segnale e della semplicità una debolezza o un laissez-faire.
Voglio, da anni, agire indisturbato, sapere, conoscere, ispezionare, sorvegliare e colpire quel che più, al momento, mi piace: qualcun altro lo vuole, Io vede? Un complice, questo è quello che mi serve.
Cercherò qualcosa da mandarti, per incominciare.
A presto.
Amedeo
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