Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Belpoliti
Corrispondenza Belpoliti - Ferretti



Belpoliti a Giovanni Lindo Ferretti

28 gennaio 1995
Caro Giovanni,
ogni volta che ascolto un vecchio disco dei CCCP, o i compact che tu e Massimo avete editato con la nuova sigla musicale dei CSI, mi tornano alla mente le giornate trascorse insieme a Villa Minozzo in veste di educatori, il ragazzo oligofrenico di cui ti occupavi all’USL e che ti accompagnava ovunque, le visite a casa tua a Cerreto Alpi, le camminate per i sentieri dell’Appennino, e poi, più indietro ancora, le aule fumose del liceo e le riunioni interminabili, la tua risata e la voce inconfondibile che adesso riascolto nell’altoparlante del registratore, i racconti del viaggio verso la Grecia e la Turchia, e soprattutto la casa di Fellegara, dove hai abitato per un certo periodo con Roberto, che per me è il luogo originario dei CCCP, quello in cui ho letto i primi testi che hai scritto e ascoltato le prime note del gruppo.
Tornare indietro nel tempo con la memoria, per me non è solo un modo di ricordare un’antica amicizia, una delle più vecchie che conservo, ma di ritrovare le radici di un percorso che considero tra i più significativi della nostra generazione.
So benissimo che questa etichetta – «generazione» – per molti aspetti è forviante, soprattutto se assunta come una chiave interpretativa, in quanto vi sono moltissimi fatti, incontri o avvenimenti che tendono a sfuggire al calendario e alle cronologie, per proiettarsi sia nel tempo futuro che in quello passato (ci mancherebbe altro che volessimo chiudere la nostra percezione del tempo in una direzione sola!); tuttavia, per chi non si dimentica del proprio passato, quello memorabile (luoghi, persone, letture, viaggi, musiche, film, ecc.), questo abusato termine ha un preciso significato: indicare l’aspetto generativo di sé. Certo, la nostra società culturalizzata e consumista coltiva il modernariato letteraria e artistico e sembra preoccupata solo di collocare i «propri prodotti» nella scala temporale, dentro la loro vetrinetta, per esaltarli come prodotti del «proprio tempo», salvo poi dimenticarsene in fretta e gettarli nella pattumiera (da dove qualcun altro li riciclerà, a tempo debito, e via di seguito).
Questo percorso, per alcuni aspetti comune, per altri del tutto divergente, ritorna sovente nei tuoi testi; l’ho ascoltato di nuovo in Palpitazione tenue, nel disco In quiete, dove ricordi alcune tappe significative della tua vita e ne dai una lettura esistenziale emozionante, con quell’andare e venire tra gli aspetti contrastanti del tuo carattere e le corrispondenti età della vita. L’emozione è quella che mi deriva dal riconoscerti in quello che dici – l’amicizia è anche questo, non è vero? – ma anche dal riconoscermi in quel finale «nodo alla gola» con cui si chiude il pezzo. Durante tutti questi anni, mentre andavi dietro a te stesso, mentre ti trasformavi, via via, in educatore psichiatrico, in viaggiatore, in poeta, in cantante, in musicista, alla continua ricerca di te stesso, mentre compivi repentini cambiamenti e ritrovavi, poco a poco, la parte antica di te, quella più intima e personale, in modo concorde il tuo percorso diventava «generazionale». L’importanza del tuo lavoro di cantante e scrittore di testi è proprio questa: parlare di molti attraverso il sé – che sei stato, che sei ora.
Tuttavia, se fosse solo per questo – per la tua «esemplarità» – non credo che ti avrei seguito, come amico e come ascoltatore, così a lungo; c’è infatti un altro aspetto che apprezzo e ammiro in te: la coerenza alle proprie contraddizioni. In A tratti, il primo testo di KO DE MONDO, il compact che tu e Massimo Zamboni avete inciso con la sigla dei CSI, canti: «non fare di me un idolo / lo brucerò / se diventerò un megafono mi incepperò / cosa fare o non fare non lo so / quando dove perché riguarda solo me / io so solo che tutto va e non va». Per me questa dichiarazione vale moltissimo sul piano morale: rifiutare di trasformarsi in un burattino nelle mani della società dello spettacolo (ricordo sempre quando mi raccontasti di quel famoso e allora osannato critico musicale che ti disse, molto cinicamente, davanti alla folla che faceva a pugni sotto il palco: se ci scappa il morto, diventerai famoso; e a cui rispondesti: se succede, smetto di cantare); considerare le proprie ragioni interiori come irriducibili rispetto a quelle del sistema generale (società, partito, chiesa, casta). Probabilmente è stata proprio questa coerenza incoerente a portare te e Massimo a sciogliere i CCCP, atto che contrastava con tutti gli interessi economici e le lusinghe esteriori del pubblico, dei mass media, della casa discografica.
Ascoltando In quiete ho avuto l’impressione che l’agitazione dei CCCP, i ritmi forsennati, le provocazioni culturali e visive, siano diventate lo sfondo su cui far affiorare la propria vera inquietudine, quella dell’anima; e che fosse necessario per te – per noi – attraversare il passato decennio scuotendo l’albero delle certezze per far cadere al suolo i frutti di una nuova e differente saggezza. La disumanità dei CCCP era il modo per non adeguarsi, per non cedere, mentre la nuova umanità dei CSI consiste nel riempire di contenuti il nostro deserto presente. Di questo, ancora una volta ti son grato. Così come delle parole che accompagnavano il disco che ha raccolto il meglio dei CCCP, Ecco i miei gioielli (la fotografia di Luigi Ghirri che c’è in copertina è il riassunto di tutto il vostro percorso: il muro di periferia su cui è scritto: CCCP e Fedeli alla linea – la linea che non c’è, cantavi allora –; dietro il profilo di una chiesa moderna, con quell’inverosimile campanile, nato dalla fantasia di un architetto ubriaco che ha fissato troppo a lungo i quadri di De Chirico; e l’azzurro del cielo emiliano, così sottile ed evanescente): «Da un po’ di tempo in qua ho cominciato a sentirmi dire che sono un professionista, che so fare il mio mestiere, che sono nel mio genere bravo... Chi mi dice questo, in realtà, è convinto di farmi un complimento, o di darmi quello che mi spetta. Non è un mio problema, perché io non ho mai pensato di fare come professione il cantante. Io faccio questo mestiere perché in questo momento della mia vita non avevo nient’altro da fare, e ho preferito fare questo...». E ancora: «Il mondo moderno è convinto che la massima libertà possibile sia uguale alla massima creatività possibile. Io sono assolutamente convinto del contrario. La massima creatività possibile viaggia entro regole le più rigide possibili. Tu non devi vivere in una situazione che ti aiuta a tirar fuori tutto il possibile di quello che hai dentro. Tu devi vivere in una situazione che ti obbliga a tirar fuori solo quello che assolutamente deve venir fuori».
Queste due affermazioni sono per me importanti, e insieme compendiano, non solo il tuo modo di sentire la vita e l’arte e i loro reciproci rapporti, ma l’unico modo oggi possibile di pensare la propria vita in rapporto ai fatti creativi. Le sottoscrivo entrambe. Mi fa piacere di ritrovare la prima affermazione in una lettera che Antonio Moresco, uno scrittore che stimo molto, mi ha scritto da poco; così come il tema della creatività, legata ai vincoli, ritorna nel numero di Riga dedicato a Perec e nei tanti discorsi fatti con Elio in questi ultimi anni. Anzi, credo che l’ultima frase, quella riferita a ciò che «assolutamente deve venir fuori», sia una delle chiavi con cui Elio guarda l’arte, un modo per me molto morale, l’unico.
Per concludere questa lunga lettera, vorrei riferirmi al pezzo che preferisco di In quiete, sia per il modo in cui lo canti, sia per le cose che dici: In viaggio. L’immagine del viaggio è ovviamente un’immagine molto abusata, ma tu sai riferirti con grande semplicità ed efficacia – forse perché ancora una volta parli di te – ai viaggiatori giusti, a quei «perdenti» che segnano il ritornello: «viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti / viaggiano i perdenti i più adatti ai mutamenti».
Rispondimi presto e mandami qualche testo a cui stai lavorando. Con affetto.
Tuo Marco


Giovanni Lindo Ferretti a Belpoliti

Castelnuono Monti, 22 marzo 1995
Caro Marco,
coltivare un’amicizia è po’ come coltivare un vecchio frutteto. In termini di profitto varrebbe la pena sradicarlo e ripiantarlo di nuovo, in dritte file, solo così può stare al passo con i tempi e i modi del redditizio.
Qualcuno però coltiva, amandoli, vecchi alberi che danno scarso raccolto e complesse soddisfazioni.
Da un mese rigiro tra le mie mani la tua lettera ed è arrivata dopo diversi messaggi telefonici a cui non ho risposto.
Un amorevole insistere.
Non so risponderti. Le cose che tu dici sono vere, non abbisognano di risposta, di ulteriori conclusioni.
Vivo un piacevole momento. Esattamente un anno fa mi trovavo in ospedale, un piccolo ospedale della provincia emiliana (qui dovrebbe iniziare un panegirico alla nostra piccola patria).
Stavo molto male e pensavo, a volte, che non ce l’avrei fatta a resistere. Uscito ai primi di maggio e con la necessità di una lunga ed equilibrata convalescenza ho pensato che dopo aver passato anni a cantare curami curami prendimi in cura da te forse era il caso di chiedere un riscontro palese. Così sono risalito sul palco dei CSI, ho registrato nei primi giorni di giugno in quiete – un disco da redivivo più che dal vivo – e ho ricominciato a cantare.
Vuoto di pensieri e con le forze sufficienti a stare in posizione verticale, poco altro.
La cura ha funzionato. Piano piano ho ripreso possesso del mio corpo che si è fortificato, sono ingrassato ad oggi sei chili.
Per mesi e mesi non sono riuscito a formulare un pensiero che fosse di qualità superiore al: «Ho fame, devo mangiare... ho bisogno di bere.. sono un po’/molto affaticato» .
Dormivo moltissimo e il sonno arrivava di colpo, non era necessario pensarlo.
Con Massimo e Daniela ridevamo spesso di questa mia incapacità di pensiero, che loro compensavano egregiamente.
Sto riprendendo ora possesso del mio corpo come entità totale mentre intorno a me ferve un incredibile fare: concerti, dischi, raccolte, fanzines, video.
Ho accettato, alla fine di gennaio, la proposta fattami per conto dell’UNICEF di tenere a Roma, alla Sapienza, una lezione, una pubblica riflessione sul declino (?) dell’Occidente; era una buona occasione per cominciare a mettere ordine nella testa, parlando del nostro mondo. Ho inaugurato poi a Padova un piccolo, incantevole spazio teatrale (una ex chiesa e anche qui sarebbe doverosa una riflessione specifica), per un’ora e mezza mi sono raccontato a me stesso e ad un pubblico stipato e silenzioso.
La parola viva mi è, al momento, più cara e congeniale della parola scritta, stampata. Pone meno problemi, concede più spazio alle inesattezze anzi le recupera nutrendosene, può rimanere sospesa, senza concludere e senza domandare, comunica all’orecchio una infinità di possibili sfumature che l’occhio non coglie stampate sul foglio, piatte. Almeno così mi pare, ora.
Sto cambiando l’ordine dei miei pensieri, Marco, voglio cambiarlo anche, perché quello utilizzato fino ad oggi non funziona più, non è neppure una consolante litania. Dall’esterno ciò che spinge furiosamente è la guerra civile degli jugoslavi, la decomposizione dell’Unione Sovietica, lo stato delle cose italiane.
Dall’interno sono sommovimenti profondi provocati dal mio riradicamento in famiglia, nel mio piccolo paese, che spingono verso nuovi equilibri. Né l’uno né l’altro trovano soddisfazione adeguata ma mi consentono di vivere. Al momento quindi canto, a volte ma molto meno, racconto di me e del mondo. Mi accontento io dovrai accontentarti anche tu.
Confido nella tua comprensione, nella tua benevolenza soprattutto. Con affetto.
Giovanni

Non sto lavorando a nessun testo, ho una gran voglia di registrare nuove canzoni e aspetto l’inizio di giugno per trasferirmi con tutto il Consorzio in qualche luogo dove pensieri trasformati in parole vivranno nelle emozioni di voci e suoni. Non scrivo testi in anticipo, l’unica preparazione che conosco e pratico è cercare di stare bene, il meglio possibile, poi cerco di cumulare suoni melodie parole concatenate, inizi o conclusioni o segmenti che forse troveranno posto nel costruirsi di una canzone.
Ti invio invece un piccolo scritto risalente ad alcuni anni fa, appena tornato a casa, da cui è nato il testo della canzone: del mondo.
E stato per me doveroso fare i conti col passato, un passato che non sa più parlare al presente, di cui a volte sento la necessità, a volte il peso fino all’ingiuria. Questo è un frammento di questo conto.
 

Del mondo

Un tempo il mondo era stato giovane e forte. Odorante di sangue. Gli uomini in continua lotta contro una enorme varietà di razze e tipi animali tra cui altri umani. Attorno ai propri animali e guerreggiando gli altri si organizzava la vita. Piccoli borghi di case torri grigie di pietre sovrapposte e ricoperte a piagne. Tre piani, a terra gli animali in mezzo gli umani in alto il cibo per tutti. Una porta in basso, in mezzo e in alto qualche buco, pertugio, idea di una finestra che sarebbe arrivata poi, più tardi. A terra cavalle, muli, asini, pecore e capre, vacche, maiali, riserva di calore e cibo ed energia dall’aspro odore forte. Nell’ammezzato qualche donna e i vecchi, pochi, ché la vita era dura e pretendeva molto. Padroni delle usanze e del sapere che serve e tramite col mondo. Le piante che uccidono, quelle che curano, che nutrono, che servono al lavoro e gli innesti, i tagli, i raccolti, le stagionature, gli attrezzi, le difese. Dei diversi animali, dell’allevamento e doma, del modo di ammazzarli e di cibarsene, delle diverse utilità e delle trasformazioni.
Come fare o non fare quando dove e perché e ricordando i gradi di sangue, le parentele, le relazioni, i dissidi, gli odi, le faide, i patti, i compromessi, i debiti, gli obblighi e ciò che spetta ai morti e poi il tener mente e tramandare, il sapere che sì tutto va per il giusto verso. Attorno i vecchi la famiglia: uomini donne bimbi, figli nipoti zii, lavoranti a stagione e servi e gente di passaggio e donne incinte e padri. Mucchio di braccia gambe facce e stomaci e pance, sfregamenti di carne e mani che controllano. Dimora della carne, riposo quotidiano, calore, sapore familiare, odore e sguardi che si incrociano e sfogo corporale e amore.
E cavità di donna che crea il mondo, veglia sul tempo, lo protegge lo ingloba. E membro d’uomo giovane che lo sostiene, è la sua forma in sasso, simulacro, pezzo intero che al centro della stalla, in basso, preme e sostiene il piano, lo spazio che determina è quello in cui viviamo. Colonna è un colpo d’occhio d’uomo, pen-siero divertito che progetta,, muratore ingegnere, che calda sensazione naturale erige. Comodo all’occhio invitante al pensare.

Succedono le età, i secoli uguali lunghi e lenti tra pestilenze, guerre, carestie, ma al riparo dal peggio in queste valli che non hanno niente da offrire a bramosie di conquista. Viaggiano in basso nel comodo gli eserciti e muovono alle città i conquistatori. Sia reso grazie al cielo. Qua sono scarsi i raccolti e farsi briganti, banditi, razziatori può essere, d’improvviso, per disgrazie, calamità naturale, per propria colpa anche, una necessità.
Le bestie, i greggi spesso, sono dimezzati e più, ma sono salve le razze.
Le pecore massesi, grigie piccole cornute e forti, dall’occhio sveglio, piene di latte e dalla lana ruvida e tenace adatta al panno bigio e resistente all’acqua.
Le pecore bergamasche, bianche e alte, zucche e dolci, da carne e dalla lana morbida e voluminosa, candida.
Le mucche garfagnine, basse e lunghe, dalle sottili gambe forti e dalle corna aguzze, mansuete ma decise., scure, con una vena di sangue battagliero.
Gli asini mori o grigi maculati, alti robusti, la croce sulla schiena, delizia dei bambini e dei vecchi il conforto.
Su tutto le cavalle, dalle criniere grosse e dritte tagliate alla greca, belle che parole per dirlo non ce n’è, care al cuore e felicità per gli occhi.
Almeno un mulo scelto, allevato da sé e tenuto bene che se tutto si ferma per impossibilità lui va, sa camminare in montagna.
Due cani paratori per tenere il branco, decisi e di carattere, obbedienti.
Due cani da difesa, o tre, toschi della Maremma, bianchi, potenti, spinti da gelosia di possesso, vigili attenti.
Succedono le età, meravigliose.
Sta ancora li, nella stalla che fa il garage adesso, da un pezzo oltrepassati mil-le anni. Non sostiene alcunché poggiata a un muro nato con lei ma sempre rap-pezzato, aggiustato che si gonfia e si espande. Sta ancora lì la colonna che ha sostenuto tutto in alto e in Iargo. Dritta e inviolata. Il centro della stalla, della vita.

è stato un Tempo, il Mondo
giovane e forte
odorante di Sangue fertile

rigoglioso di Lotte
Moltitudini
splendeva pretendeva molto

Famiglie Donne incinte
Sfregamenti
Facce Gambe Pance Braccia

Dimora della Carne
Riserva di Calore
Sapore familiare Odore

è Cavità di Donna che
crea il Mondo
veglia sul Tempo lo protegge

contiene Membro d’Uomo
che s’alza e spinge
insoddisfatto poi distrugge

il nostro Mondo è adesso
debole e vecchio
puzza il Sangue versato è Infetto

Povertà malanima
Malaventura
concedi Compassione ai figli tuoi

glorifichi la Vita
gloria sia
glorifichi la Vita
gloria è
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