Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Belpoliti
La mia città

Quando penso alla mia città — e ci penso spesso, ora che abito altrove —, la prima cosa che mi viene in mente è una fotografia zenitale scattata da un aereo, dove si distingue la bella forma a esagono della città. E una fotografia famosa, almeno tra noi che siamo nati e vissuti in quella città, perché per lungo tempo è stata l’unica fotografia dall’alto disponibile, e come tale ha figurato in diverse pubblicazioni; ingrandita e incollata a un pannello è stata appesa per anni in un negozio di macchine fotografiche, dove mi recavo spesso, ma che adesso non c’è più.
La fotografia è stata scattata nel giugno del 1944 da un ricognitore della R.A.F. All’epoca non ero ancora nato, ma per molto tempo, guardandola, ho continuato a pensare che io ero là, da qualche parte, dentro la fotografia, anche se non potevo vedermi; e come me c’erano tutti gli abitanti della città, formiche invisibili in un formicaio delimitato da sei lati e attraversato al centro da una linea leggermente ondulata: la via Emilia.
Ora che abito in collina, in un luogo dove la Pianura Padana comincia a corrugarsi, in direzione del nord magnetico, per correre incontro alle montagne, mi accorgo che le immagini che preferisco sono quelle dall’alto. Spesso la sera, camminando lungo il bordo del poggio su cui vivo, mi capita di fermarmi a osservare le strisce gialle e arancio dei paesi e delle città, laggiù, in basso, e penso a quella fotografia. Nella mia memoria, la città, vista e ricordata, ha assunto la forma astratta, e pure concretissima, di un rombo luminoso sulle pagine di un atlante stellare. Contemplando l’immagine mentale di quella losanga, che fa capolino nel buio della mia mente, anche adesso posso dire: io sono là.
L’idea della losanga non è mia, ma di un amico che vive in una città vicina; è stato lui che me l’ha fatta notare sulla mappa appesa nella stazione ferroviaria, una sera che lo accompagnavo (ora che ci ripenso, non sono sicuro che quella mappa ci sia ancora, là dove l’ho vista, per anni). Non so se l’amico volesse farmi un dispetto paragonando la forma della mia città a una losanga, che è un motivo geometrico che si ripete uguale su pavimenti e maglioni, o se invece volesse indicarmi il segno di una inconfondibile regolarità; comunque sia, quell’immagine l’ho fatta mia e spesso, parlando della mia città a coloro che non la conoscono, la ripeto per spiegare che forma abbia. Certo, ripensandoci, sono sempre gli altri che ci suggeriscono le immagini giuste, noi dobbiamo solo essere agili per afferrarle al volo, come la losanga o la fotografia zenitale di quel ricognitore inglese, che ci consente di osservare da fuori quello che noi, da dentro, non riusciamo a distinguere.
Mi sono accorto che vivere lontani acuisce lo sguardo, e ogni volta che torno nella mia città misuro le differenze che vivendo là non vedrei per nulla; così mi accorgo se un muro è stato abbattuto o un intonaco rifatto. Da qualche anno ho il desiderio di raccogliere un album di immagini della città ma, dato che non fotografo, mi è difficile, perciò mando tutto a mente, nella camera oscura del mio cervello. Eppure, nonostante tutto, l’immagine più consona mi sembra sia quella del ricognitore inglese.
In casa di un mio amico, che è nato nella stessa città, ma che per motivi di lavoro vive lontano, è appesa una fotografia aerea della nostra città. Non è così azimutale come l’altra; l’inclinazione con cui è stata ripresa permette di percepire il volume dei palazzi e degli isolati, persino gli alberi dei giardini e dei viali hanno un cappello consistente, non sono macchioline indistinte, come nell’altro ritratto al microscopio, quello del ‘44. Ogni volta che ci vediamo — e ora ci vediamo più spesso nella sua nuova città — e parliamo di noi e di quello che facciamo, io mi siedo sul divano, proprio di fronte alla fotografia sotto vetro, e comincio a fissarla, come se dovessi ricavare da quella osservazione qualche nuova immagine della mia città. Ma ogni volta che mi alzo non ho aggiunto nulla di nuovo, forse perché quella fotografia assomiglia troppo all’immagine della realtà che già posseggo, o forse perché non è così perfetta come l’altra.
Adesso che vivo lontano dalla mia città, comincio a capire che la città ideale, che ciascuno immagina sogna fantastica, e persino progetta — almeno nella sua mente — è una città reale, è la città della memoria, quella che ho abitato o che, giorno dopo giorno, continuo ad abitare nella mia testa.
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