Riga n.
Alberto Arbasino
Lucio Klobas
Stile libero


NUOTO
C’è chi sostiene che il nuoto non è un’arte; e chi è del parere che il nuoto sia un’arte provvisoria; secondo altri, invece, è solo un banale trucco per restare a galla quando si cade nell’acqua. Non a caso i nuotatori vengono spesso sorpresi nell’acqua che camminano senza farsi notare e, per meglio mimetizzarsi nell’elemento naturale, indossano comunissimi soprabiti, camicie e cappelli flosci, assumendo un’aria disinvolta mentre chiacchierano fra loro pacatamente tra fastidiosi spruzzi e schizzi in faccia.
I nuotatori più esperti e solitari galleggiano come piccoli balenotteri tenuti in cattività in un angolo remoto della piscina, nella zona più tranquilla e meno profonda: potrebbero anche capovolgersi. Ma indubbiamente il massimo dell’abilità per i nuotatori perfezionisti consiste nel nuotare senza bagnarsi, ossia nel passare indenni sopra le acque muovendo braccia e gambe con ritmo vorticoso, senza peraltro dimenticare l’armonia dell’insieme. In pratica i nuotatori magri e filiformi riescono a passare negli interstizi asciutti dell’acqua, tra una goccia e l’altra, sfruttando magistralmente la notevole elasticità del loro corpo, nonché la relativa densità della massa liquida, notoriamente poco compatta, fluida. Insomma un po’ come nuotare sull’asciutto ma senza le difficoltà oggettive che un tal genere di movimento comporta, come abrasioni al basso ventre, alle gambe, al mento e così via.
Nuotare in verticale, invece, è senz’altro il sogno segreto della maggior parte dei nuotatori, specie dei campioni olimpici annoiati nel ripetere all’infinito, meccanicamente, sempre i medesimi movimenti. Ovviamente per raggiungere un simile obbiettivo, è indispensabile essere agili come scimmie, possedere la grinta del gatto e la leggerezza degli scoiattoli, ma senza tradire per questo le proprie origini marinare, fossero anche le più remote e insignificanti. Essenziale, a questo punto, trovare l’acqua verticale giusta e favorevole, escludendo ovvia-mente, per regolamento, la pioggia, le cascate di montagna, le grondaie, la doccia, e gli sgocciolamenti minori.
Non nascondo che l’acqua alta di Venezia, per questo scopo, sarebbe l’ideale. Tuttavia per consentire lo svolgimento corretto di una competizione, l’acqua verticale dovrebbe risultare molto più alta delle tradizionali mareggiate e ciò purtroppo non è possibile ottenere. Allora i nuotatori, consapevoli dell’impegno che li attende, si allenano per ora con la mente, limitandosi a cronometrare i tempi e a discutere collettivamente le tecniche migliori da adottare nella nuova e ardua specialità. Ipotizzano, in febbrili nottate passate in bianco, vasche verticali olimpioniche con spettatori sistemati verso l’alto, e speciali movimenti anfibi a metà tra l’elevazione spirituale e la spinta a molla decisiva. Progettano contorsioni, tracciano percorsi sicuri nell’acqua che non c’è, disegnano complesse tabelle di marcia per capire se i sogni si possono avverare.

CICLISMO
Il ciclista col viso sagomato dall’aria sfavorevole, gareggia in velocità con la propria bicicletta dandole filo da torcere. Altalenante sui pedali metallici, percorre in buona scioltezza l’interminabile profilo pelato della strada asfaltata, strappando risultati meritevoli di commenti a distanza e anche qualche isolato applauso che però viene confuso con il fruscio della corsa. Corre dentro una vorticosa nuvola di moscerini giovani che giocano fra loro sgambettandosi tra spintoni, pugni volanti e un vociare assordante che gli toglie prima la concentrazione e poi la voglia di proseguire solitario in una fuga che comincia a preoccuparlo un po’. E quasi completamente disteso sulla bicicletta, col didietro molto più alto della testa per meglio spaccare il vento in quattro parti quando decide di inseguirlo e di acciuffarlo sfruttando una lieve discesa assai favorevole.
Prima di rischiare tutto contro la consueta curva assassina, spegne la sigaretta con due dita, poi entra di prepotenza tra i beniamini della folla percorrendo – sempre in impeccabile fuga solitaria – la Milano-San Remo in pochi attimi e qualcosa, forse meno se non consideriamo la sosta forzata per un bisognino da nulla ai bordi della strada. Il vantaggio acquisito sul gruppo è enorme, sicché si permette di mangiare al ristorante specialità locali, andare al cinema una sera e magari frequentare qualche donnina sognante, disdegnando relazioni troppo impegnative che gli potrebbero compromettere la gara tra lunghi sospiri e lievi carezze.
Corre talmente veloce che è necessario che passi e ripassi due tre volte il tra-guardo perché i tifosi in delirio lo possano vedere di sfuggita (ma senza esserne certi) attribuendogli il provvisorio e inconcludente appellativo di campione di tutti i campioni di ogni tempo ed epoca.
La sua specialità è correre senza risparmiarsi, scattare all’improvviso quando i suoi colleghi occhialuti sonnecchiano o sono distratti dal panorama dolomitico, sorprendere in salita la sua stessa bicicletta la quale poi recupera con evidente affanno in discesa rischiando molto, forse troppo anche per una bicicletta robusta e preparata a sopportare scarti violentissimi, disumani.
Il ciclista finalmente ricongiunto alla sua recalcitrante bicicletta ha vita facile, supera in scioltezza tutti i traguardi del mondo, inclusi quelli nascosti dietro altri traguardi, che sono i più insidiosi; vince a mani alzate senza neppure tradire un’emozione, una qualsiasi da cui si capisca che ha vinto soffrendo un po’ negli ultimi chilometri. Vince per strade e stradine, per viottoli di campagna, vince tutto ciò che umanamente può vincere, veloce quanto una lepre, saettante come un ladro, più rapido d’ogni essere vivente nato e vissuto su questa terra, il che francamente non è poco, perciò vince l’impossibile e anche molto di più, senza mai accontentarsi.
Carico di vittorie e di universale gloria il ciclista, pallido e confuso, da ultimo viene informato con inutile crudeltà che la sua bicicletta correva più di lui e che non riusciva mai ad acchiapparla.

SCACCHI
I giocatori di scacchi si fronteggiano reggendo sopra le teste i rispettivi pen-sieri pensanti talmente aggrovigliati che sembrano i fili di una matassa informe. In quelle due nuvolette rabbiose di ragionamento allo stato puro c’è tutta la partita: le mosse, le contromosse e le controcontromosse delle controcontromosse, e così via in un crescendo di difficoltà fino all’esito finale: i due giocatori potrebbero benissimo andarsene a casa che la partita si svolgerebbe ugualmente senza riservare grosse sorprese. A meno che uno dei giocatori (quello che ostenta una calma tanto esasperante da sembrare voluta) non voglia stravincere, cioè non desideri umiliare psicologicamente l’avversario con un ragionamento semplicissimo quanto inatteso: muovo la torre, poi il re, poi l’alfiere e gli do scacco matto, il tutto in tre mosse appena, non più di due minuti di gioco effettivo, non se ne accorge nemmeno.
L’avversario battuto riflette immediatamente sulle sue disgrazie scacchistiche, ricostruisce con impressionante fedeltà la partita persa per capire dove ha sbagliato e perché: rifà centinaia di volte quelle tre mosse brucianti ritrovandole sempre perfette nella loro sconcertante semplicità meccanica, mosse classiche da manuale. Dopo di che, punto sul vivo, invoca la rivincita in una sede neutra-le, che di solito è l’Islanda per il suo clima favorevole tutto l’anno. Porta con sé un groviglio gigantesco di pensieri pensanti che contiene tutte le mosse e contromosse possibili, tutte le combinazioni tecnicamente ottenibili (comprese numerose varianti lecite e illecite), anche quelle che si fanno a volte, tanto per fare, a casaccio, nei tornei paesani. Considera ogni cosa, persino il tasso di umidità contenuto nell’aria, nonché l’incidenza della luce del sole sulla superficie della scacchiera (e viceversa): non gli sfugge nessun dettaglio, neppure la direzione del vento. Infatti perde subito.
S’intende, perde dopo strenua difesa strappando al nemico (cioè all’avversa-rio) persino un insignificante complimento di circostanza che lo ripaga in parte dell’ennesima figuraccia subita. Aveva previsto tutto ma non abbastanza. Non dimeno la sconfitta gli pare immeritata, soprattutto non lo convincono quelle tre mosse sibilanti come frustate che gli sono costate la partita: muove la torre, muove il re, muove l’alfiere e mi dà scacco matto, tre mosse appena, non più di due minuti di gioco effettivo. Una tragedia perfettamente riuscita.
Allora lo sconfitto decide, con un colpo di scena spettacolare, di introdursi di persona nella scacchiera pur di non lasciare nulla di intentato: ma l’alfiere lo infilza da parte a parte con un colpo di alabarda, la torre gli frana addosso rovinosamente, e il re lo condanna nuovamente a morte. Tutto esattamente come previsto.
Viene portato via dal campo di battaglia e sepolto in una tomba anonima a spese della comunità.
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