Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Belpoliti
Tavolo di notte

Ero arrivato nel pomeriggio e avevo preso alloggio in uno dei soliti alberghetti del centro, una di quelle pensioncine con la moquette tutta lisa e sudicia, le scale strettissime e le camere minuscole, un letto e un tavolino appena.
Fortuna volle che mi fosse assegnata una finestra che si affacciava su un giardinetto. Avevo tirato il tavolo proprio contro il vetro e sollevata la tenda per poter guardare fuori mentre scrivevo. La valigia, piena di libri, me l’ero portata su da solo, perché, come m’informò il portiere con aria dispiaciuta, il fattorino era uscito proprio in quel momento.
La prima ora era volata via nel tentativo di ritrovare il filo dei miei pensieri, tra i libri e le carte, poi mi ero distratto a guardare i piccioni che venivano a becchettare delle briciole di pane su uno dei balconi di fronte, così si era fatta sera. Il filo della lampadina era troppo corto e avevo dovuto girare il tavolo verso il muro rinunciando al tramonto pervinca dietro le fronde degli alberi.
Lavoravo in quei giorni a un racconto e non mi riusciva di trovare un finale adatto allo svolgimento della trama, soprattutto a quel personaggio che la mia fantasia aveva messo al mondo durante un soggiorno in un piccolo paese della costa. Perciò ero venuto lì, nella grande città, con la speranza di concludere qualcosa. Mi ero portato dietro gli appunti per un breve saggio che volevo dedicare a uno scrittore e al suo tavolo, che era poi stato il vero motivo di quel viaggio.
Debbo dire che quella dei tavoli era una mania che spesso mi spingeva a visitare le case degli artisti – scrittori soprattutto, e morti da tempo – alla ricerca dei loro tavoli da lavoro. Ero stato, poco tempo prima, nella casa di un poeta a vede-re i tre scrittoi che era solito usare: uno per i versi, uno per le traduzioni e il terzo per la corrispondenza.
L’idea che si potesse – o dovesse – avere un tavolo per ogni lavoro che si andava componendo mi affascinava e così provavo a paragonare tutte quelle scrivanie alla mia borsa sdrucita in cui, da anni, riponevo i manoscritti, i fogli, i libri, i vocabolari che faticosamente mi tiravo dietro in ogni spostamento. Da anni non vivevo più in una casa tutta mia, ma ero ospite di piccole pensioni, alberghetti, ostelli, affittacamere, amici, e il mio tavolo preferito erano le gambe, su cui appoggiavo i libri e il bloc-notes. Nella bella stagione mi sedevo sulle panchine dei parchi o dei giardini e leggevo per ore. In autunno o in inverno, i miei rifugi pre-feriti erano le sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie o i buffet, quando c’erano, dato che sostavo più spesso in stazioni di campagna. Tra un caffè e l’altro scrivevo le mie riflessioni su quei tavoli d’autore e mi appuntavo altre idee per lavori successivi che spesso finivo per non scrivere mai.
Per questa ragione l’avevo conosciuto. Prima avevo letto un suo libro, appena uscito da un editore straniero, poi avevo seguito i suoi articoli su una rivista che trovavo nelle mie puntate all’estero. Alla fine gli avevo scritto. Ero attirato da quel misto di calore e freddezza che emanava dalla sua scrittura, tutta evocazioni e rinvii segreti, fatta apposta per mettere in imbarazzo i critici impettiti e attirare i lettori curiosi e pazienti con l’attenzione che poneva alle cose, agli oggetti e soprattutto agli spazi.
Per me, che vivevo all’aperto gran parte del tempo, che mi piaceva così tanto passeggiare per le vie di città sconosciute, per assaporare il genius loci dei picco-li villaggi o delle grandi metropoli, per me il suo lavoro possedeva un fascino particolare. Inoltre avevo letto di lui in un giornale, del suo tavolo da lavoro e di uno scritto che andava componendo riguardo agli oggetti che da anni si trovava-no sulla sua scrivania e lo seguivano fedelmente in ogni trasloco (questo mi attirava: il fatto che, tu lo voglia o no, ci sono cose che ti seguono sempre, dovunque tu vada, piccole cose, ninnoli, amuleti o semplici soprammobili, oggetti utili, matite, penne, gomme, che diventano, col passare del tempo, vere e proprie presenze, indispensabili compagni di sosta).
Ho contato che nel corso degli ultimi tre anni sono stati almeno un centinaio i tavoli, tavolini, scrittoi e le scrivanie su cui ho scritto, preso appunti, steso lette-re o promemoria, compresa un’asse da bucato, appoggiata tra la vasca e il bidè, in un piccolo alloggio dove avevo svernato due anni prima (solo in seguito lessi in una recensione che uno scrittore russo-americano aveva scritto su un piano del genere il suo primo libro in lingua inglese).
Perciò attesi con molta impazienza la sua risposta alla lunga missiva che gli avevo indirizzato dalla locanda di un paese di mare dove, subito dopo, avevo affittato una stanza presso una famiglia di pescatori. Rimasi in quella stretta lunga e gelida stanzetta per tre mesi, cercando di scrivere quel racconto e attendendo la sua lettera.
La mattina, dopo aver bevuto una tazza di caffelatte con il pane che la padrona mi preparava vicino al camino, andavo a passeggiare un paio d’ore lungo la marina e di solito incontravo il postino che in motorino percorreva la litoranea con il suo carico di lettere. Lo salutavo da lontano e lui mi faceva cenno con il capo riguardo alla lettera che attendevo. Se era no, scuoteva la testa con espressione burbera; se era sì — e solitamente si trattava di una lettera di mio fratello o al più di mia madre che mi mandava qualche biglietto di banca nuovo e profumato d’inchiostro per la mia permanenza — il postino piegava il capo come se volesse toccarsi il collo col mento, dandomi l’impressione di poter cadere da un momento all’altro dal sellino della motoretta.
La sera, alla locanda dove mi ero fermato al mio arrivo in quel paese, sedevo vicino a quel portalettere che per la barba lunga e bionda e il cappello d’ordinanza calcato in testa — non se lo toglieva mai, neppure quando si sedeva al mio tavolo — mi ricordava un altro celebre postino. Glielo avevo detto e lui, con un gesto della mano, aveva respinto il paragone, dicendomi che gli facevo troppo onore e che poi, quel suo collega abitava in un paese del Sud, molto più soleggiato e ridente di quel piovoso borgo della costa del Nord.
Attesi invano diversi mesi, poi decisi di andare a trovarlo direttamente a casa sua, per vedere con i miei occhi il suo celebre tavolo da lavoro. Durante il viaggio comperai un quotidiano, uno di quei due o tre quotidiani che si stampano nella Capitale e che da molto tempo non leggevo più. Nelle pagine dedicate alla cultura, trovai un lungo articolo su di lui da cui appresi che era morto da qual-che mese, proprio nei giorni in cui gli avevo scritto (aveva ricevuto la mia lettera? L’aveva letta? E ora dove si trovava? Sul suo tavolo, chiusa o aperta? Oppure attendeva invano nella cassetta delle lettere o sul tavolino dell’ingresso?).
La cosa mi spiacque moltissimo e fui sul punto di tornare indietro, d’interrompere il viaggio in treno, magari fermandomi in una di quelle cittadine che vedevo scorrere pigramente dietro i finestrini del mio scompartimento e che il treno annunciava con lunghe e sofferte frenate.
Non so più perché, ma decisi di proseguire. Pensai che quello doveva essere un viaggio di omaggio a un grande scrittore scomparso, a un amico che non avrei mai conosciuto ma a cui mi sentivo legato da misteriose affinità.
All’arrivo entrai in una libreria, la prima che vidi uscendo dalla metropolitana che mi aveva condotto nel mio quartiere preferito, e comprai tutti i volumi che trovai, con l’intenzione di rileggerli nei giorni seguenti.
Appena in camera, tirai fuori dalla borsa il taccuino dove in una delle mie camminate avevo annotato i pensieri che volevo ordinare solo dopo la visita alla sua casa, solo dopo aver osservato il suo tavolo e il panorama che si vedeva stan-do seduti sulla sua sedia.
A dire il vero — pensai mentre scorrevo quelle pagine piene della mia scrittura fitta e compatta — mesi prima non ero affatto sicuro che lui mi avrebbe mostrato il suo tavolo e adesso certamente non lo potevo più vedere. Anche questa — la faccenda del panorama che si scorgeva dalla finestra o portafinestra della sua stanza — era solo una mia fantasia, dal momento che parecchi scrittori, lo avevo constatato di persona, accostano il proprio scrittoio al muro, per non lasciarsi distrarre dal paesaggio, per concentrarsi meglio.
Anni prima, avevo letto che un altro famoso scrittore teneva le pareti della sua casa tinteggiate di bianco, assolutamente sgombre, affinché i suoi pensieri potessero girare senza incontrare ostacoli. L’osservazione mi era piaciuta, dal momento che faceva supporre che la mente di quello scrittore fosse come una camera bianca in cui le parole e le frasi giravano senza sosta, che lui avesse bisogno di muri bianchi come fogli per poter scrivere, e che, infine, quella stanza era il mondo. Tutto questo era esattamente l’opposto di quello che facevo io, che in-vece andavo girovagando tra paesaggi diversi nel presentimento che quello che avrei scritto, buono o cattivo che fosse, non importava affatto, fosse un po’ come dissolversi in quegli spazi, farsi scrivere dai luoghi stessi e dalle cose; invece che cercare il vuoto, agognavo il pieno per poter svuotare la mia testa, per passare dal mio affollato spazio interiore all’esteriorità della natura e del mondo.
Così era morto, e ora, sul tavolino dell’albergo, avevo impilato i suoi libri — quasi tutti i suoi libri — in attesa dell’ispirazione buona per mettermi a scrivere. Quei volumi li avevo già letti, nei mesi e negli anni precedenti, e per la maggior parte li avevo abbandonati nelle camere dove avevo abitato o sulle panchine do-ve mi ero seduto. Uno, dedicato a una storia di oggetti, l’avevo lasciato in un negozio di giocattoli, dove mi ero recato a comperare un regalo per il settimo compleanno di mio nipote, un tetraedro che si componeva e scomponeva dando vita a innumerevoli altre figure geometriche — me l’aveva mostrato il proprietario, un omino piccino, facendomi vedere come ottenere quelle configurazioni inusuali. Il negozio, situato nel quartiere medievale di una città del Sud, mi era piaciuto molto, forse per il fatto che assomigliava, con il suo disordine e con tutti quei giocattoli di legno, alla bottega di un vecchio falegname.
Comprai per me un Pinocchio che tenni per mesi sul tavolo di una casa d’affitto e che lasciai in eredità al successivo inquilino, un signore sconosciuto che veniva dal Giappone e che non ebbi il tempo di conoscere. In questo modo nascosi il libro sotto un meccano, appena in vista, e uscii contento.
Tutte queste cose mi venivano in mente mentre guardavo fuori dalla finestra della stanza d’albergo, intanto un paio di piccioni facevano la spola tra il cornicione di fronte e il balcone, dove una signora con un grande seno e un grembiule a righe bianche e blu aveva distribuito una manciata di briciole di pane. Gli uccelli volavano dall’alto, si posavano sulla ringhiera di ferro, poi scendevano in basso, sul davanzale, giravano la testa a destra e a sinistra beccando i pezzettini, poi volavano di sopra, e di nuovo scendevano.
Quando venne buio non avevo concluso nulla. Andai a dormire con l’intenzione di ricominciare al mattino presto e puntai la sveglietta portatile sollevando il tasto della suoneria. Ripetei un vecchio proverbio e mi addormentai.
Verso le tre e mezza mi svegliai di soprassalto. Avevo l’impressione che fosse passato pochissimo tempo da quando mi ero assopito, dieci, quindici minuti, e mi parve che la stanza fosse diventata di colpo più grande, tanto che la finestra si trovava ora a quattro o cinque metri dal letto. Inforcai gli occhiali nel tentativo di dissipare quella strana sensazione e mi accorsi che al tavolo era seduto qualcuno.
Col capo chino, stava scrivendo. La lampada era accesa e la pila dei libri e dei fogli era talmente alta da nasconderlo. Mi sollevai per guardare meglio. Aveva una strana capigliatura, tutta riccia, e intravidi, tra una pila di libri e l’altra, la sua barbetta, una specie di pizzetto appuntito. Anche il tavolo, il mio tavolo da lavoro, era diverso, più grande, molto più grande. Quella persona, perfettamente a suo agio, stava lavorando su quello scrittoio e fumava. Tirava, di quando in quando, lunghe boccate da una sigaretta appoggiata su un portacenere circolare che avevo riposto in bagno, vicino al lavabo. Alzava il capo verso il soffitto per qualche istante, poi si chinava di nuovo sui fogli.
Non sapevo cosa fare e soprattutto cosa dire. Mi battei con forza le dita della mano destra sulle guance per cercare di capire se fossi sveglio o se invece stessi sognando senza alcun risultato. Quell’immagine non spariva né io ero certo di quello che stava accadendo. Mi sdraiai di nuovo e per un po’ stetti lì, immobile, facendo passare il tempo. Quando guardavo, l’uomo era sempre piegato sullo scrittoio.
Finii per addormentarmi e sognai che stavo girovagando per le strade della città; salivo e scendevo dagli autobus, senza meta, finché passavo davanti a un caffè. Seduto a un tavolino c’era lui, l’uomo della stanza, lo scrittore. Stava guar-dando fuori, ma non mi vedeva. Di tanto in tanto abbassava il capo e prendeva qualche appunto. Passai oltre e imboccai una via molto larga che portava verso i giardini. Mi accorsi che l’uomo camminava al mio fianco, in silenzio. Ogni tanto faceva dei cenni d’intesa e m’indicava la cima degli alberi e il cielo, attraversato da lunghe nubi biancastre, fino a che arrivammo a un grande spiazzo coperto di ghiaia, circondato da alti edifici che riconobbi come quelli di una piazza famosa della città, con un obelisco piantato nel mezzo.
Ci sedemmo su una panchina e l’uomo ricominciò a scrivere su un taccuino che aveva estratto dalla tasca della giacca. Istintivamente, cercai il mio bloc-notes e i fogli del racconto che stavo scrivendo e che ero sicuro di avere con me, ma non li trovai.
Al mattino, al risveglio – cinque minuti prima che suonasse la sveglia – tutto era tornato come prima. Tutto, tranne un libretto che trovai sul tavolo, un libretto che non conoscevo e che s’intitolava: Note sui tavoli dove ho scritto ogni notte. Mi misi a leggerlo.
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