Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Belpoliti
Il braccio e l'osso

Quando abbiamo cominciato a tracciare tutte quelle lettere, a tirar giù quei caratteri grafici che servono per leggere quel che si pensa, il mio braccio non era poi tanto lungo come adesso, anzi, direi ch’era persino cortino. Si stava lì tutto il giorno, io e mio cugino, a trascrivere quei suoni in segni alfabetici; lo facevamo come ci era stato insegnato. Se erano parole, giravamo, io il mio braccio, lui quell’osso solo che si ritrovava attaccato al corpo; se invece si trattava di enti o funzioni matematiche, s’andava alla ricerca delle prime lettere dell’alfabeto, quello latino per intenderci, delle a, delle b, delle c, delle d, e questo nel caso che si trattasse di trascrivere delle costanti determinate — ma questo noi, allora, non lo si sapeva, così ce lo dovevano dire dall’alto, scandendo bene le lettere —, oppure si ricorreva alle x, alle y, alle z e alle t, per quelle indeterminate.
Riguardo a tutte queste espressioni non si faceva, tutto sommato, tanta fatica, forse per via dell’allenamento, per l’esercizio a cui ci eravamo presto abituati. Erano invece le lettere greche - , , , … - a darci problemi. C’erano troppe curve, giravolte, piegamenti, c’erano troppi movimenti sinuosi, inarcamenti e passaggi obbligati da eseguire. Ricordo che mio cugino in quelle occasioni premeva il suo osso sul foglio e cominciava a ruotarlo in su e in giù con grande sforzo; sovente s’alzava da terra nel corso di quei puntamenti con tutte le gambe e sollevava persino il corpo a causa dello sforzo intenso. Al termine di quelle giornate, quando ci cambiavamo nei nostri spogliatoi, mi confidava di avere l’osso tutto rotto, gli doleva, e questo benché si trattasse di un osso duro, di un tronco consistente e sodo, tutto calloso sull’estremità, per via degli strofinamenti e delle frizioni (debbo dire che, sebbene non l’avessi mai toccato, l’osso pareva molto elastico, e con ogni probabilità senza quell’elasticità non avrebbe resistito a lungo). Tempi duri, quelli, anche se penso che quella durezza fosse commisurata alla nostra giovane età. Col senno di poi, mi pare d’aver capito che non poteva essere così; voglio dire che era quasi necessaria tutta quella fatica per poter raggiungere i risultati odierni. Insomma, l’eleganza e la docilità dei nostri movimenti attuali sono figlie di quello sforzo e della prostrazione di quella prima età. Rimpianti? Nemmeno per sogno: quel che è stato è stato. Punto e a capo. È bello ricordare, ma di tornare indietro non se ne parla affatto (e dire che c’è chi sostiene che si stava meglio quando si stava peggio, fesserie!). Ma torniamo ai nostri esordi, a quelle prime attività scrittorie. Ora, ripensandoci, non so neppure più perché avessero scelto proprio noi due. A quell’epoca credo vi fossero persone più abili, che si trovassero sul mercato scrivani, scritturali, copisti, amanuensi ben più preparati e capaci di noi. Ma, come si sa, spesso si finisce per fare tutta la vita la cosa che si crede di conoscere meno, per esercitare il mestiere in cui si pensa di essere meno abili, e accade quasi sempre così, per caso o per necessità. Il più delle volte è nel peggio che diamo il meglio di noi stessi.
Dico questo con cognizione di causa. Mio cugino, per esempio, era pressoché privo di radio e cubito; il suo braccio era costituito da un lungo omero che si protendeva dalla spalla fin giù, verso la mano, o meglio, al posto della mano c’era solo un lungo osso, che poi era lo stesso osso che partiva dall’articolazione della clavicola. Sull’estremità di quell’unico osso c’era una specie di punta, una terminazione sottile e callosa che sostituiva il carpo e il metacarpo e tutte le ossicine della mano. A vederlo, si capiva subito che era un vero portento; bastava infatti che facesse ruotare il suo braccio intorno al perno, là, all’attaccatura con la spalla, che subito apparivano sul foglio delle o talmente arrotondate che era un vero piacere guardarle: esatte, ma di un’esattezza molto umana, per nulla fredde come le o che traccia invece una macchina.
Questa era la sua specialità. Io, al contrario, avevo un braccio normale, con tutte le ossa e le ossicine al loro posto, ben ventinove dall’omero al pollice; ero dotato di tutto punto, solo che il mio arto era di lunghezza superiore alla media, molto più lungo di quello di tutti gli altri, e inoltre, di giorno in giorno cresceva, lentamente, ma in modo inarrestabile, tanto che cominciai presto a coricarmi tenendo il braccio fuori dalle lenzuola, in modo che sporgesse agevolmente dal letto — anche se poi, con l’andar del tempo, non bastò neppure questo.
A ripensarci, probabilmente fummo scelti grazie a queste nostre qualità; tuttavia se ci fossimo presentati da soli, se avessimo risposto all’annuncio singolarmente, non credo che ci avrebbero assunto.
Ma torniamo a quelle lettere di cui dicevo all’inizio. Da principio si scriveva prevalentemente in corsivo ed esigevano da noi soprattutto la velocità, sia che si trattasse di alfabeti che di cifre o simboli matematici; si andava molto di fretta, e credo che allora volessero sfruttare prevalentemente la nostra agilità invece che la perizia calligrafica. Contavano sull’elasticità e la scioltezza dei nostri movimenti. E noi andavamo spediti, tutti presi dal segno che tracciavamo, badando più alla forza che alla chiarezza dell’incisione, prestando più attenzione alla virilità del segno che alla sua decifrabilità. Volevamo che sapessero che eravamo giovani e forti e cercavamo d’impressionarli con la nostra spigliatezza e disinvoltura; desideravamo assolutamente conquistarci le loro lodi. Badate bene, noi due, prima d’allora, non si era certo due giovani sottomessi , servili e acquiescienti; tutt’altro, avevamo entrambi dato prova di un carattere ribelle e indomito. Il fatto è che le lettere, i bastoni e le cifre ci venivano fuori così bene e con tale facilità che, nonostante lo sforzo e la fatica, e a dispetto delle fitte che provocavano a mio cugino, cercavamo di non fermarci mai, di non staccare il braccio o l’osso dal foglio, di seguitare a tracciare linee e righe, di metter giù punti e note senza dare un attimo di tregua a quelli che dettavano, con cui avevamo intrapreso una sorta di silenziosa gara che sovente si concludeva con la nostra vittoria.
Eravamo talmente veloci che li mettevamo in difficoltà precedendoli, terminando una parola o una frase prima che loro l’avessero pronunciata tutta. Col tempo e con la memoria avevamo una specie di vocabolario in testa, sapevamo quando venivano le i o le u, quando piazzare un esponente o tirare una linea di frazione. Capitava, ad esempio, che dovessimo tracciare delle segnature sul bordo alto del foglio; allora noi, che conoscevamo a menadito l’alfabeto, correvamo a perdifiato, buttandoci a mettere giù persino le lettere capovolte, quando quelle dritte erano finite, spiazzando i dettatori, là in alto. Ricordo che la voce gli si spegneva in gola prima ancora che avessimo ruotato il braccio intorno alla a rovesciata, sentivamo che diventavano afoni per l’imbarazzo e la vergogna. Che risate ci facevamo, io e mio cugino!
In quelle giornate non era strano che prendessimo la mano ai dettatori, che li obbligassimo con la nostra agilità a pronunciare lettere piene o lettere tipo, a soffiarci nelle orecchie lettere ventose o lettere a fascio, che poi erano la nostra specialità assoluta. Ci divertivamo a confonder-li con gesti improvvisi – mio cugino girava di colpo il suo osso verso il basso e, facendo perno sull’estremità, saltava avanti e indietro lasciando un segno con le punte dei piedi, mentre io ruotavo in aria il mio lunghissimo braccio, fino a sfiorare i trespoli dei dettatori; o ancora seminavamo il panico con caratteri a stampa buttati giù in modo imperfetto. Allora sentivamo i controllori, quelli assisi più in alto dei dettatori, che borbottavano frasi incomprensibili, o i lettori, i più alti di tutti, che, al contrario, ridevano dell’imbarazzo dei loro sottoposti. Loro, oltre a possedere voci argentine e squillanti, conoscevano ogni lettera, carattere o cifra che fosse, sapevano decifrare perfettamente gli sgorbi prodotti dalle nostre evoluzioni, comprendevano gli svolazzi lasciati dal mio braccio e dall’osso del cugino e ci rincorrevano persino con la voce, quasi canticchiassero un motivetto, seguendo su invisibili spartiti i nostri groppi, i geroglifici e i labirinti di segni che lasciavamo dietro di noi. Noi, incoraggiati da quelle note, correvamo ancora più veloci, quasi fossimo due sfere che rotolano giù per una discesa, catturati dall’ebbrezza della velocità dello scrivere.
Ma queste corse erano interrotte bruscamente da altri che sedevano più in alto dei lettori, da voci che si trovavano in cima alla piramide che si ergeva alle nostre spalle (dico piramide, perché questa mi pare possa essere la forma geometrica di quell’edificio a scalinate e gradoni che si dovrebbe trovare dietro di noi; in verità, non l’abbiamo mai visto, né io né mio cugino, nessuno di noi ha mai potuto girarsi per ammirarlo, e così, di comune intesa, l’abbiamo battezzato «la piramide»).
Tutto questo, cioè quello che vi sto raccontando, durò solo due o tre decenni, così ci parve. Dico decenni, ma potrebbe benissimo essere molto di più, poiché non ho mai tenuto il conto del tempo che passava; certo, avremmo potuto tracciare qualche segno, così, per ricordare, ma chi aveva il tempo per scrivere cose proprie, presi come eravamo dal seguire la dettatura o assorbiti dall’esuberanza dei segni che scaturivano sotto le nostre estremità?
Durante questo periodo di tempo, ci cimentammo in tutti i tipi di lettere, senza disdegnare alcun alfabeto di sorta, senza rinunciare neppure all’uso degli ideogrammi o di altri segni metalinguistici: simboli chimici, cartelli stradali, segnali di soccorso e persino insegne di farmacie e di tabaccherie, quest’ultime con la loro bella T bianca su fondo nero. Compilammo un numero enorme di sillabari e compimmo anche incursioni nell’ambito del cirillico, così come ci veniva richiesto dai dettatori.
Tuttavia presto ci stancammo. Non saprei dire se il primo sia stato mio cugino, a cui si era, col tempo, anchilosato l’osso, o se invece a cominciare sono stato io, che ormai possedevo un braccio talmente lungo che mi era sempre più difficile lavorare. Fatto sta che una mattina dicemmo basta.
Eravamo nel bel mezzo di un nuovo alfabeto arabo, quando ci interrompemmo entrambi di colpo, quasi l’avessimo concordato prima o fossimo stati sincronizzati, come due sveglie. Ci
fermammo, e incrociammo l’osso e il braccio. All’inizio si misero a strepitare, urlavano di andare avanti, di riprendere il lavoro, di continuare quelle sinuosità interrotte; ci ingiunsero di distenderci nei gesti consueti, di modulare quei tratti seducenti ai loro occhi di dettatori e di lettori celesti.
No, dissi io, prendendo la parola per entrambi, adesso basta! Siamo stanchi di regolare i nostri gesti faticosissimi seguendo tipologie sinuose – e qui detti un colpetto all’osso del cugino che urlò dal dolore. Siamo stanchi di adattarci a queste variabilità incerte, di inseguire tutti quei tremolii, questi sussulti grafici. Siamo arcistufi delle oscillazioni, delle vibrazioni, delle scosse da imprimere per ottenere lettere o cifre persiane, greche e giudaiche. Non ne possiamo più degli intarsi e delle decorazioni diplomatiche, degli ornamenti, dei fregi, delle torsioni, dei contorni e delle fioriture delle lettere. D’ora in poi, conclusi, cercheremo solo la perfezione.
Appena ebbi pronunciato questa parola – perfezione – di colpo tacquero tutti, si zittirono i dettatori, i verificatori, i lettori, si placarono i troni, i principati e le potestà, e un silenzio di vetro calò dall’alto della piramide. Sentii che avevo colpito nel segno, che questo era proprio il segnale che tutti avevano atteso. E così, come se l’avessimo sempre saputo fare, senza neppure un cenno d’intesa, io e il mio dolorante cugino prendemmo a tracciare sul foglio linee rette e circonferenze. Io descrivevo con un piccolo movimento oscillatorio lunghi segni paralleli che continuavano, senza interruzione, all’infinito, mentre lui faceva ruotare il suo osso lasciando solchi concentrici. Senza toccarci, senza interferire l’uno con l’altro, i nostri due alfabeti, composti di una sola lettera ciascuno, sembravano esprimere la più completa consonanza.
Fu allora che sentimmo levarsi alle nostre spalle un coro di voci purissime, un suono armonioso e insieme esatto come i segni che andavamo tracciando sul mondo che ora si estendeva, come un foglio bianco, in ogni direzione, dinanzi a noi. Ora non avevamo più bisogno di voltar pagina.

«Solo avendo un braccio infinito si possono
tracciare linee rette perfette, solo avendo un osso solo si
possono tracciare circonferenze perfette».
N. Silvestrini

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