Riga n.
Alberto Arbasino
Franco Cordelli
Il titanico Pilato

1. È come una cava abbandonata, almeno in Italia: dico, l’opera di Roger Caillois. Fu discepolo di Breton e prossimo di Bataille e Leiris – di questi ultimi due non meno geniale. Pure, lo dimentichiamo. C’è questa cava e ci sono i suoi piccoli e grandi testi – come pietre gettate dal caso l’una sull’altra: quelle pietre che furono la sua passione, fino a tramutare organismi che sono palpitanti e vivi in entità ad esse analoghe: testi che sembrano confusi o addirittura anonimi.
Si tratta di una prospettiva: niente di più o di meno. In questa cava, in modo del tutto speciale, Ponce Pilate, la sua unica narrazione per così dire oggettiva (Le fleuve Alphée è una specie di autobiografia) risulta invisibile. A volte, le stesse enciclopedie francesi questo testo neppure lo nominano. È un testo di settanta pagine, che costituiscono la summa di un pensiero o lo specimen araldico di un’opera.
Che cos’è Ponce Pilate? Non è un romanzo storico, né un romanzo di fantascienza. Tecnicamente, lo si potrebbe definire un’ucronia: cosa sarebbe successo se Gesù Cristo non fosse stato crocefisso? Ma da un punto di vista letterario è il più lungo racconto che Borges abbia mai scritto; o, per uscire dal paradosso, un racconto borgesiano (Caillois, disse Borges, mi ha inventato), il racconto di un Borges che ha fatto l’esperienza dell’avanguardia e l’ha rifiutata.
In termini meno radicali, è un conte philosophique, assolutamente classico, sulla falsariga di Zadig o di un testo di Diderot. Ma se Caillois aveva traversato e rifiutato l’avanguardia (come attesta il suo libro capitale, Babel) non l’aveva dimenticata: è solo la superstizione elevata all’ennesima potenza che gli impedisce di scrivere, per l’ottavo capitolo, il numero otto. Preferisce chiudere con un Epilogo.
 
2. Prima di parlare di Ponce Pilate voglio segnalarne alcuni brevi passaggi, tutti nel primo e nel secondo capitolo, che possono riferirsi ai giorni nostri o, forse, a molti altri giorni simili a quelli di cui Caillois parla.
“I fastidi più gravi gli erano venuti da tali conflitti con il fanatismo della popolazione. Nella questione delle insegne aveva alla fine ceduto. In quella dell’acquedotto aveva tenuto duro, ma c’erano stati morti e feriti”: ci porta subito nel cuore della questione laica e francese per eccellenza, che è oggi la questione del velo.
“Cesare, porgendo ascolto alle lagnanze della popolazione sottoposta, anziché sostenere il suo rappresentante, gli aveva ordinato di far sparire dalle mura, con il suo nome, il segno della potenza romana”: ci porta nel cuore della politica europea — che gioca, con la guerra, a nascondino, svelando la propria falsa più che cattiva coscienza.
“Non era, da parte sua, disprezzo di Romano per gli orientali o di conquistatore per gli occupati, ma rivolta di filosofo contro la credulità umana”: non è che il rovescio delle convention elettorali e personalistiche, che dagli Stati Uniti si sono trasferite in tutto il mondo occidentale.
“Se Roma portava la civiltà e la pace, era indegno di lei inchinarsi per opportunismo dinanzi alla stupida usanza. In tal caso, meglio sarebbe stato essere rimasti entro la cerchia dei sette colli e non aver mai conquistato né l’Italia né il mondo”: non è che il ritratto della politica americana degli ultimi trent’anni.
“Meglio un’ingiustizia di un disordine”: è per i lettori di oggi, Genova nel 2001 — o tante altre realtà politiche del nuovo secolo.
“La salvezza di tutti giustifica il sacrificio d’un singolo. Ma perché dare, in qualche modo, veste ufficiale all’iniquità, perché elevarla al grado di saggezza, al prestigio dell’ideale?”: è per me un richiamo immediato all’ideologia dominante che, appunto, consiste non tanto in ciò che propone quanto nel fatto di rivendicare ciò che propone, di cioè “dare veste ufficiale all’iniquità”.

3. Del resto, il problema dell’iniquità è ciò che muove Caillois. Fu lui stesso a dichiararlo nel 1963, in occasione dell’uscita in Italia del suo racconto pubblicato in Francia due anni prima: Ponce Pilate “è una meditazione su una contraddizione: quella che ci mostra come la vigliaccheria di un funzionario sia stata necessaria alla Redenzione del genere umano. Qui fu l’intuizione iniziale. Dopo mi sembrò necessario che Pilato prendesse una decisione ben sapendo che cosa faceva. Ho, allora, inventato il personaggio di Marduk, il visionario a Pilato lo sviluppo del cristianesimo e, quasi nei minimi che spiega ola portata delle sue conseguenze storiche. Ma Pilato resiste di fronte a questo quadro impressionante”.

4. Quale fu la risposta di Caillois alla contraddizione da lui osservata? L’immagine che il testo intitolato Ponce Pilate ci trasmette è quella di un autore che vorrei definire un umanista, come fosse un umanista XVI secolo in pieno XX secolo. Mille impulsi, mille giochi, mille pietre, mille libri. Tra i tanti, nell’oceano dei saperi, c’è anche il sapere estetico — che Ponce Pilate appunto rivela.
Il sapere estetico è il sapere ateo per eccellenza, il sapere che radicalmente rifiuta ciò che trascende — fino al compimento cronico. Dopo il colloquio con Marduk, che è Borges, che è Callosi, perché il sofista Pilato libera Gesù? La cultura non gli dà la forza morale per vedere la sua debolezza. Ma essa gli dà la forza della verità — che è quella dell’orgoglio: niente psicologia, o nessuna moralità nella psicologia artefatta e condizionata. Non vi è che l’uomo artefice del suo destino. Lo sarà Gesù. Lo è, nel momento supremo, Caillois in quell’intervista del ‘63: “Pilato vuole che l’uomo debba la propria grandezza soltanto a se stesso; egli giudica che la salvezza degli uomini non debba avere come condizione la vigliaccheria di un uomo: sarebbe, ai suoi occhi, un secondo e più grave peccato originale”.
 
5. C’è un lapsus, una caduta – di gusto o, appunto, di psicologia. Dico la psicologia dello scrittore, che a un certo punto si spaventa del proprio stesso illuministico rigore. E quando Caillois ci dice che Pilato “era irritato e si sentiva preso in trappola. D’altra parte, tra il serio e il faceto, si lagnava che preoccupazioni così deteriori non avessero almeno il pregio di distrarlo dai suoi disturbi di stomaco”. (Che, tra parentesi, è una tipica caduta di gusto della tradizione francese anti-illuminista: il piacere del fango di Baudelaire, di Huysmans, di Léon Bloy, di Simenon, di Céline).

6. Cruciale è il capitolo dedicato a Giuda — cruciale nel cammino della conoscenza. Come prescindere, in esso, dalla conoscenza dello strumento con cui procediamo? Giuda sa qual è il destino di cui si fa artefice o, appunto, strumento (letterario). Ma c’è, in questo suo sapere, il principio di una critica (in Giuda inconsapevole, consapevole nel suo dio, Caillois) al romanzo come narrazione di una storia equivalente ad un destino? L’esperienza avanguardistica, ovvero la traccia che ne è rimasta in Caillois, pone in questione questo tipo di certezza: al romanzo si contrappone il metaromanzo; alla misura si contrappone la dismisura; la dismisura è, paradosso supremo, prima l’arma del visionario Marduk contro il consapevole, acquiescente Giuda; poi l’arma del titanico Pilato; l’illuminista, cioè l’illuminato, cioè il sapiente funzionario romano. Disse Caillois che alla scelta di Pilato si riallacciano molteplici problemi: “il determinismo storico, la libertà umana, i suoi limiti, la responsabilità permanente di ogni uomo in ogni sua decisione, le risorse concorrenti della fede e della ragione, del fanatismo e della tolleranza”.

7. Prima glossa. Caillois fu un grande manipolatore di pietre e, strano adirsi, della loro evaporazione massima, i sogni. A pagina 23 dell’edizione italiana di Ponce Pilate (la traduzione è di Luciano De Maria) l’autore parla di un “prestito dei sogni”. Ma a pagina 21 aveva detto che “i sogni sono ambigui e difficili da interpretare, che emozioni vaghe si mescolano in modo sconcertante alle immagini incoerenti che li compongono e che conviene guardarsi dal voler dare un chiaro significato ad un’ansia provocata da sotterranei sinuosi, da pesci dipinti e da fantasmi di soldati”. Più o meno, per mostrare come Ponce Pilate sia uno specchio araldico, ciò che aveva detto cinque anni prima in L’incertitude qui vient des réves, il più antifreudiano dei suoi libri.

8. Seconda glossa. Qual è il succo del rifiuto dell’avanguardia che Caillois elaborò alla fine degli anni Trenta, lui non ancora trentenne? Non tanto predisporsi a manifestare la propria inclinazione alle scienze, alla filosofia e all’arte, quanto il proprio rigetto di ogni estetismo, cioè di ogni degradazione dell’estetico: “Molti, allora, cercano nell’arte o in qualche raffinatezza esteriore dei sostituti destinati ad ingannarli. Sperano di trovare in questi l’equivalente della purezza o della perfezione, dell’assoluto che li aveva da principio ammaliati in un campo più segreto ed esigente”.
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