Nico Orengo
Buenos Ayres
Buenos Ayres
Una delle ultime volte che ho incontrato Alberto Arbasino, era in Buenos Ayres. Veniva dal Colon in uno di quei grandi stanzoni dove tutto è carne alla brace. Ma seduto a tavola, non era già più lì, in quella traversa di Tucuman. Era già a Los Angeles, fra vecchio e nuovo Getty, ma con un pizzico di Scala.
Sempre così Arbasino. Un viaggiatore vorace, orizzontale. Un disgressivo per vocazione, talento, possibilità, impegno. Centripeto e centrifugo. Architetto e giurista di connessioni: un internet antelitteram, manuale e mentale.
Sempre in fuga dal dov’è per arrivare al dove sarà. Sembra in lotta con il movimento rotatorio di questo pianeta e di ogni suo contenuto. Conoscendone la storia, vorrebbe dirsi e dirci che già è raccontata, già da un bel pezzo è finita.
Ma non può, non riesce, perché il mondo, il nostro, è piatto e i sentieri, paralleli o no, infiniti.
Così esplora, continuamente, dicendo continuamente che in passato c’era di meglio, ma con la curiosità e la speranza, che un palcoscenico un po’ meno battuto, da qualche parte ci potrebbe essere. E intanto che non c’è, quel che c’è, se lui lo registra, vuoi dire che una certa consistenza, comunque, l’ha.
E se poi non dovesse, del tutto, averla, il fatto che ne abbia parlato, serve a dargli solidità, intanto un’impalcatura, una norma.
Goloso, quella sera, in quell’ingentilito ma rustico mattatoio, in una traversa di Tucuman, per turisti, Arbasino era alle prese con numerose costine. Le spolpava come un concerto, uno spettacolo teatrale, una mostra, un romanzo. Le spolpava e le destrutturava per dividere il sapore generale in sottosapori. Già viaggiava per la Pampa con Borges e Martin Fierro da un ombu all’altro, per sapere di quella carne vizi, virtù, corse e passato. Poteva rimbalzare su una chianina toscana o arrivare in Emilia dalle parti di Viligelmo o San Boseto.
C’era da stupirsi perché ogni volta è così. Come se curasse il timore di perdere qualcosa e non riuscire a tirar su tutti i gomitoli possibili, che se li sai fare sono infiniti. Ma ci vuole anche il tempo e la voglia di non mandare tutto a ramengo. Come spesso lui ha voglia di fare. E fa scrivendo letterine, anche ermetiche, appunti, avvisi, sollecitazioni. Ingenuamente, si fa per dire, perché usa ancora carta e penna, procede nel labirinto bianco, dove appunto, continua a tracciare sentieri. Disgressioni. Arbasino è un disgressivo. Ha grandi maestri di «varianti», ma lui rimane un disgressivo. Fratelli d’Italia, nelle sue molteplici redazioni, ne è la conferma. La carta è mobile, Arbasino più veloce. Quando parla è più veloce, ma non dà la possibilità di rileggerlo, di frenarlo. Così quando scrive sui giornali. Per fortuna che esistono ancora i libri, dove la pagina riporta al lettore la sua velocità ad un rallentamento più umano, per il lettore che non cerca continui sorpassi.
Sempre così Arbasino. Un viaggiatore vorace, orizzontale. Un disgressivo per vocazione, talento, possibilità, impegno. Centripeto e centrifugo. Architetto e giurista di connessioni: un internet antelitteram, manuale e mentale.
Sempre in fuga dal dov’è per arrivare al dove sarà. Sembra in lotta con il movimento rotatorio di questo pianeta e di ogni suo contenuto. Conoscendone la storia, vorrebbe dirsi e dirci che già è raccontata, già da un bel pezzo è finita.
Ma non può, non riesce, perché il mondo, il nostro, è piatto e i sentieri, paralleli o no, infiniti.
Così esplora, continuamente, dicendo continuamente che in passato c’era di meglio, ma con la curiosità e la speranza, che un palcoscenico un po’ meno battuto, da qualche parte ci potrebbe essere. E intanto che non c’è, quel che c’è, se lui lo registra, vuoi dire che una certa consistenza, comunque, l’ha.
E se poi non dovesse, del tutto, averla, il fatto che ne abbia parlato, serve a dargli solidità, intanto un’impalcatura, una norma.
Goloso, quella sera, in quell’ingentilito ma rustico mattatoio, in una traversa di Tucuman, per turisti, Arbasino era alle prese con numerose costine. Le spolpava come un concerto, uno spettacolo teatrale, una mostra, un romanzo. Le spolpava e le destrutturava per dividere il sapore generale in sottosapori. Già viaggiava per la Pampa con Borges e Martin Fierro da un ombu all’altro, per sapere di quella carne vizi, virtù, corse e passato. Poteva rimbalzare su una chianina toscana o arrivare in Emilia dalle parti di Viligelmo o San Boseto.
C’era da stupirsi perché ogni volta è così. Come se curasse il timore di perdere qualcosa e non riuscire a tirar su tutti i gomitoli possibili, che se li sai fare sono infiniti. Ma ci vuole anche il tempo e la voglia di non mandare tutto a ramengo. Come spesso lui ha voglia di fare. E fa scrivendo letterine, anche ermetiche, appunti, avvisi, sollecitazioni. Ingenuamente, si fa per dire, perché usa ancora carta e penna, procede nel labirinto bianco, dove appunto, continua a tracciare sentieri. Disgressioni. Arbasino è un disgressivo. Ha grandi maestri di «varianti», ma lui rimane un disgressivo. Fratelli d’Italia, nelle sue molteplici redazioni, ne è la conferma. La carta è mobile, Arbasino più veloce. Quando parla è più veloce, ma non dà la possibilità di rileggerlo, di frenarlo. Così quando scrive sui giornali. Per fortuna che esistono ancora i libri, dove la pagina riporta al lettore la sua velocità ad un rallentamento più umano, per il lettore che non cerca continui sorpassi.