Riga n.
Alberto Arbasino
Piero Camporesi
Conversazione con Miriem Bouzaher. Viaggia la nave.

Se dovessi caratterizzare la sua opera, direi che lei fa dell’antropologia storico-letteraria. È d’accordo con questa definizione?

Se proprio tiene a catalogarmi, vada per l’antropologia. In realtà ho diverse facce, almeno tre. Sono diventato ricercatore partendo come storico della letteratura italiana, oggi si direbbe come italianista. Poi, poco a poco, mi sono allontanato dall’ambito letterario per approdare a certi lidi ignoti, preferendo arcipelaghi più lontani agli oceani troppo frequentati. Perché? Non saprei dire, ma credo che capiti a tutti quelli che hanno la vocazione della ricerca e scoprono in se stessi profondità ignorate, strati sommersi che affiorano, di mano in mano che la nave procede.

Qual è stata uno dei primi “lidi” a cui è approdato?

È stata la “casalinghitudine”, per usare un neologismo appena creato in Italia, un termine che ingloba tutto ciò che riguarda la casa, il senso dell’interno: ho lavorato a un libro di cucina per le famiglie, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi (1820-1911), un testo saporito sotto molti riguardi, che mi ha fatto voglia di occuparmi seriamente di antropologia culinaria. L’ho iniziato nel 1968, è stato pubblicato nel 1970, ed è per me un libro fondamentale nella misura in cui quest’opera che può sembrare minore, marginale, mi ha aiutato a comprendere quali sono i veri problemi umani, cioè quelli che riguardano essenzialmente la sfera dell’esistenza, perché, evidentemente, ce ne sono anche altri. Poi naturalmente sono passato al simbolismo dell’esistenza. Ma prima di arrivarvi ho solcato le strade poco epiche delle cose della casa, come l’amministrazione del focolare, l’arte di mangiar bene, e di conseguenza l’economia, l’agricoltura, il commercio, la sociologia, poi la mitologia e il simbolismo culinario. Vede bene che la cucina porta ad allargare smisuratamente l’orizzonte delle cose: bisogna leggere i fatti alimentari come un alfabeto non scritto, simbolico, che ha una consistenza che va oltre i limiti ristretti del piatto.

Il che la porta al misticismo della cucina o dell’anticucina che analizza in L’officina dei sensi?

Naturalmente. Studiando il rapporto dell’uomo con il cibo, lo si coglie nelle sue molteplici dimensioni, spaziali e temporali. Prima sono partito dalla norma, dal tempo quotidiano che nella società antica era estremamente segmentato: il ciclo ebdomadario, con un posto tutto particolare per la domenica, giorno di gala culinaria in cui si sacrificava un pollastro, sopravvivenza del rituale dell’offerta cruenta alla divinità. Poi mi sono interessato ai diversi momenti che scandivano le stagioni; quello della bisboccia, dell’eccesso – il Carnevale – e il suo contrario, il tempo del ritorno all’ordine – la Quaresima. Ho quindi studiato la ritualità di questo tempo mitico che è il Carnevale, la poetica dell’abbondanza, l’etica della trasgressione della norma, per passare in seguito al digiuno e al misticismo delle grandi astinenze. Inoltre, per i miei studi sull’Inferno, ho preso in esame i Sermoni della Quaresima, che pochi ricercatori avevano mai esplorato. In L’Inferno e i fantasmi dell’ostia ho dedicato un capitolo all’Inferno dei buffoni, che è una cucina in cui i diavoli sono dei cuochi, le marmitte ribollono, si canta, si ride, si beve, con gioia. In alcune versioni più classiche della geenna i diavoli cucinano i dannati e offrono a Lucifero degli spiedi umani, schiene arrostite di peccatori che non soddisfano mai le papille reali: o troppo cotte o troppo poco, con una salsa sbagliata, ecc. È in Giacomino da Verona, per esempio, che si trovano questi esempi di humour nero culinario. Poi ho studiato anche lo strano rapporto che esiste tra gli strumenti di cucina, di anatomia e di tortura. Alcune ricette assomigliavano a istruzioni per l’uso destinate agli anatomisti o ai boia: prendete, fate a pezzetti, tagliate, sviscerate, togliete la pelle, ecc. Questo è meno evidente oggi, nell’epoca del precotto, ma prima il cuoco aveva strane arie da aspirante carnefice! Quando le dicevo che la cucina allarga smisuratamente l’orizzonte delle cose! Per tornare alla scansione del tempo, direi che nella nostra epoca questo schema è andato in pezzi... Siamo in una società dell’eccesso normalizzato. La norma è eccessiva o l’eccesso è normale. E poiché la gente ha più tempo libero, il Carnevale comincia il venerdì sera per finire la domenica sera! È diventata una pratica ebdomadaria...

Nella prefazione a L’Inferno e i fantasmi dell’ostia scrive: “Un Inferno per un popolo mangiatore di sandwich sarebbe francamente uno spreco...” Vuol dire che non ci meritiamo più l’Inferno, o che ci siamo già?

Ma il mondo moderno non è assolutamente un Inferno! Viviamo una congiuntura meravigliosa, almeno in Occidente. È un periodo di pace, le aspettative di vita sono aumentate, tutti o quasi mangiano secondo la loro fame... Mi verrebbe da dire: “Approfittiamo di questi meravigliosi decenni di autentico paradiso terrestre!”

Devo confessare un certo scetticismo mentre l’ascolto...

Ma ha torto! In una prospettiva storica possiamo rimpiangere il passato e abbiamo certamente solidi motivi esistenziali per farlo. Detto questo, bisogna obbiettivamente riconoscere che se è esistita un’età felice nella società occidentale – una società che va dagli Urali alle Montagne Rocciose, per restare a una geografia montuosa – sono ben questi ultimi decenni dopo la Seconda guerra mondiale. Un periodo di prosperità. Di tranquillità... una vera età dell’oro! E tuttavia mi sono permesso di formulare un dubbio: si tratta di una vera felicità...?

Ah, eccoci dunque...

Lei sa bene che la felicità autentica nasce dalla cessazione del dolore, della pena. L’idea non è nuova. Quando una felicità è diluita nel tempo, non la si sente più, ci si abitua... Per questo non ci rendiamo conto di vivere in un’epoca storica eccellente... che potrebbe essere l’ultimo grande periodo prima della fine. Lascio agli astrologi il gioco delle profezie, ma mi sembra che siamo sull’orlo di un abisso: per prendere un’altra immagine, direi che assomigliamo a uno di quei famosi piroscafi che offrivano balli, feste e giochi spensierati ai loro passeggeri qualche minuto prima di naufragare.

Lei parla di prosperità e di tranquillità... ma alla fine, per restare all’Italia, è appena uscita dagli “anni di piombo”...

Qualche turbolenza negli anni settanta... D’accordo, hanno assassinato Aldo Moro, ma quando si pensa che Bruto ha assassinato Cesare... Mi sembra che ci sia una certa differenza! La storia ha subito i colpi di pugnale di Bruto, questo è stato un evento traumatizzante, mentre le turbolenze degli anni settanta non hanno lasciato una traccia duratura. Sono fatti dolorosi, singolari, strani, abominevoli, abietti perfino, ma se li si guarda con l’occhio dell’oggettività storica non hanno spostato di un millimetro l’asse della storia. In realtà, la cosa più terribile del terrorismo consiste nella sua suprema inutilità.

L’affare Moro analizzato alla luce della tragedia di Cesare: secondo lei il presente deve necessariamente essere rivisitato alla luce del passato?

Effettivamente mi sembra capitale ricostruire i modelli del passato per confrontarli con quelli del presente. Il fascino, il mistero, l’ambiguità della storia hanno a che fare con questo gioco terribile di un dialogo che i viventi tentano di stabilire con i morti. Un fascino macabro e mortuario, certo, perché dobbiamo misurarci con ciò che è diventato cenere, putrefazione, polvere. Questo fascino nasce evidentemente da ciò che sappiamo, confusamente ma profondamente, che in un lasso di tempo ragionevole li raggiungeremo: “Fummo come voi siete, un giorno sarete come noi...” cantano gli scheletri del Carnevale di Firenze ai viventi. È la danza macabra della vita che ci spinge a tuffarci nel cuore della storia, in quelli che si è convenuto di chiamare i “problemi” storici, che del resto penso nascano da problemi esistenziali. Non esistono problemi storici che non siano problemi esistenziali, nel senso in cui i problemi dell’individuo sono moltiplicati per cento, per centomila, per cento milioni, benché in effetti si tratti di un problema di grandi tribù, di un problema esistenziale collettivo, inscritto nella lunga durata. In fondo, parlare di pane, di cucina, di fame, di carne, significa parlare dei grandi temi della vita all’interno del tempo. Il pane è rimasto fondamentalmente quello che era da secoli. La lunga durata degli oggetti consuma tutte le ideologie e tutte le passioni. Per quel che riguarda l’aggressività, la gelosia, il senso dell’io, del possesso, le forme elementari della vita, l’uomo non è evoluto granché. È questa strana incapacità della storia di modificarlo profondamente che mi porta a pensare che l’oggetto principale della storia non sono tanto i cambiamenti della politica o della “scena”, ma piuttosto i bisogni elementari dell’uomo e della società.

È per questo che l’opera  a cui sta lavorando si intitola I balsami di Venere, uno studio sull’attività sessuale nei secoli XVI e XVII?

Certo! Non siamo tutti figli del sesso? Che cosa può essere sentito più collettivamente della genitalità, che coinvolge tutta la tribù? Gli strumenti della riproduzione, non è un argomento capitale? Parlerò dunque del surriscaldamento eccessivo dei testicoli! Si sa che è molto pericoloso! Scherzi a parte, il mio libro non è così semplice. Di fatto si ritorna all’eterna dialettica tra la vita e la morte. I medici e i filosofi antichi erano molto interessati da questa pratica a rischio, da questa attività ciclonica, traumatizzante, che va in qualche modo contro natura, poiché questa emissione violenta di “sangue bianco” equivaleva alla perdita di un volume di sangue moltiplicato per quaranta. Una piccola apocalisse insomma. D’altro canto, attraverso le raccolte di rimedi scritte dalle donne del Rinascimento ho cercato di ricostruire il grado di desiderio di vita e di piacere dal lato femminile. Il passato rivisitato attraverso il presente, e dunque una proiezione del presente. Ho, in effetti, la sensazione che oggi assistiamo a una sorta di declino dell’Eros, del desiderio naturale; sia detto con molta circospezione, beninteso, perché come si può quantificarlo...? È molto rischioso andare a gettare l’occhio nel letto del vicino! No, di fatto ho voluto vedere come la vita era vissuta sotto forme non capitalizzate. Il seme e la vitalità non lo erano nel XVI e nel XVII secolo, vi era una sovrabbondanza, un eccesso, un’effusione continua che mi sembrano oggi scomparsi. Viviamo in un’amministrazione del desiderio così freddolosamente prudente, la caduta del desiderio è così intensa che mi sono divertito a mostrare come l’età dei Centauri è passata e noi non siamo, al paragone, che pallide imitazioni lunari.

Ma non è perché il sesso è diventato un’attività a rischio, a causa dell’Aids in particolare?

Sa, noi abbiamo l’Aids, loro avevano la sifilide, che era estremamente diffusa, una vera epidemia devastatrice. Imperversava ovunque, con una frequenza molto più alta nella classi alte e negli intellettuali. Da parte mia, ho piuttosto l’impressione che l’attività a rischio, ai giorni nostri, non sia più tanto il sesso quanto l’alimentazione! Sono gli eccessi alimentari. La cucina è diventata un’arte in sé, non è più un’arte applicata. Il canale che portava dalla tavola al letto – perché questa era la finalità prima del cibo – è rotto. Un tempo si ingurgitavano quasi 10.000 calorie al giorno, ma c’erano le attività fisiche, non fosse che l’andare a cavallo. Con la nostra sedentarietà attuale come vuole eliminare gli effetti perniciosi di un’alimentazione sovrabbondante, di questa bisboccia quotidiana doppiata da una golosità di massa.

Ma poco fa parlava di età dell’oro. Quello che descrive vi assomiglia ben poco!

Un’età dell’oro genera nausea, abitudine, dipendenza da un benessere di cui si gode male. In fondo il benessere è la grande droga del nostro tempo e i drogati, che in Italia muoiono con una frequenza sempre più elevata, sono i protestatari che rifiutano questa simulazione dell’età dell’oro. I loro cadaveri, sempre più numerosi nei giardini pubblici o nelle toilette dei bar, danzano la danza macabra del nostro tempo, tragici fantocci, memento mori del mito dell’abbondanza, patetici segnali per il resto dell’umanità che si culla nel piacere e vuole dimenticare il trauma della morte.

Mi scusi se insisto, ma tutto questo assomiglia stranamente a un’età dell’oro infernale!

Esattamente! Questo può sembrare contraddittorio, ma l’oltretomba e la terra si sono ricongiunti e si confondono: secondo la logica dei contrasti e l’ossimoro della vita, noi che viviamo nell’età dell’oro, viviamo contemporaneamente nell’Inferno. È il prezzo da pagare per la felicità. Felicità e inquinamento, benessere e contaminazione! Guardi, la botanica contiene, nelle sue classificazioni, questo tipo di contraddizione sconcertante: le piante più velenose, più allucinogene, come l’elleboro o il giusquiamo, appartengono alla stessa famiglia della patata e del pomodoro. L’ossimoro perfino in botanica! Perché no, dopo tutto?

Se dovesse andare nell’Inferno di Dante, quale cerchio sceglierebbe?

Ma io non ci voglio proprio andare! Non me lo merito! Prima di tutto non ci credo, anche se capisco che si possa provare una profonda nostalgia dell’Inferno. Una nostalgia rampante, non razionalizzata, a livello di massa. In fondo il successo dell’attuale Pontefice è dovuto a un primordiale bisogno di giustizia e di ordine. Di un ordine che, non potendo essere raggiunto qui in terra, presuppone un aldilà dove lo si possa ottenere. Insomma un equilibrio tra i meriti e le pene. La logica di un aldilà è necessaria alla logica di una vita. L’Inferno era, io credo, un formidabile fondamento dell’etica.

Se capisco bene, l’Inferno non è più quello di una volta!

In un certo senso, ed è la ragione per cui esiste questa nostalgia a livello collettivo. Abbiamo ucciso l’Inferno e lo rimpiangiamo, come si può rimpiangere il padre che, tuttavia, si è ucciso. Insomma, questa casa di cui parlo in L’Inferno e i fantasmi dell’ostia è ormai vuoto! I teologi, tipi come Von Balthazar, hanno teorizzato questa idea: l’Inferno esiste, ma è vuoto. È, una volta di più, una terribile contraddizione, e la teologia deve soffrirne enormemente. A pensarci bene, il cristianesimo porta in sé le premesse della distruzione dell’Inferno. Quando il Dio misericordioso abbraccia tutte le anime, comprese quelle dei peccatori, pone le premesse della distruzione. Nel cristianesimo edulcorato dei nostri tempi, diciamo il cristianesimo postconciliare, in cui predomina la figura non più del Padre che castiga ma quella del Grande Fratello Universale, l’Inferno non può più esistere, perché è impensabile che questo Fratello, questo amico che ci tende la mano possa allo stesso tempo spedirci all’Inferno, e meno ancora godere di mandarvici. Perché Dio gioiva delle pene dei dannanti. La figura del Deus Ridens sarebbe intollerabile ai nostri giorni, sarebbe uno schema perdente; per questo la Chiesa l’ha abbandonato. Non può negare l’Inferno, allora dice: esiste, ma è vuoto. Giovanni Paolo II ha affermato ultimamente che il dolore come castigo non è un sentimento cristiano. Questo cristianesimo postconciliare ha liquidato l’Inferno. E io credo che molti si sentono privati di questo Padre estremamente severo che era il Dio del cristianesimo di sant’Agostino o di Tertulliano per esempio. Questa società molle, tutta votata al benessere, rimpiange in fondo un mondo più rigoroso in cui i padri giudicano, rimpiange dunque anche la possibilità dell’esistenza di un sistema che va oltre la visione mediocre, ottusa, di una vita che punta tutto sui beni di consumo. Così, che ci sia questa rimozione, questa destituzione dell’Inferno, significa che esiste parallelamente un profondo bisogno e dunque una nostalgia dell’Inferno.

Non si consuma più l’amore, non si consuma più la morte, tutto questo perché si è presi dalla frenesia del consumo materiale: vuole dire che abbiamo perso qualsiasi tipo di spiritualità?

Non mi azzarderei a parlare di spiritualità, non essendo uno storico dei problemi dell’anima, e soprattutto nel quadro un po’ superficiale di un’intervista. No, nelle mie opere mi attengo alla fenomenologia dell’essere, voglio fermarmi alla definizione della realtà, non cerco di elaborarne un’interpretazione. Se, in un secondo momento, nasce un’interpretazione, tanto meglio. Da parte mia, mi sento abbastanza lontano dagli storici che si pongono fin dall’inizio come analisti, che vogliono andare subito “al cuore delle cose”, anche se non dubito che questo possa dare talvolta eccellenti risultati. Io credo molto alla descrizione. È un po’ come in letteratura: per scrivere bene, bisogna prima sapere descrivere bene.

Torneremo su questo tema, il tema dello sguardo, ricorrente in L’officina dei sensi. Il desiderio di andare a vedere sotto la superficie della pelle che ha spinto gli anatomisti a sezionare i cadaveri...

...E che ha condotto Galileo ad anatomizzare il cielo. Certamente la scienza nuova nasce con il telescopio e il microscopio, con le possibilità visive. Quando i sensi animali vengono meno, sono i sensi nobili, la vista in particolare, a prenderne il posto: descrizione e misura, dunque qualificazione delle cose, che significa uno sguardo non più mitico ma scientifico, la fine dell’animismo magico del Medioevo. Galileo è stato l’uomo della luce, della fisica della luce; è lui che ha cominciato a vederla nella sua dimensione più giusta. Senza parlare di tutte le altre scoperte...

Il XVII secolo come secolo di fondazione?

Assolutamente. È un secolo fantastico. Avrei voluto essere un uomo del Seicento. Le più profonde meditazioni sono nate in quest’epoca. Da Bacone a Galileo, da Pascal a Cartesio, passando per Newton e Leibniz, tutte le cose più potenti e più grandi sono state prodotte in questo secolo delle droghe, degli aromi, delle sostanze, degli elementi. Un secolo rigoglioso che, proprio per questo, ha generato le cose più inaudite. La biologia, l’anatomia vegetale, l’embriologia, l’astronomia, la scienza de minimis et de maximis, c’è tutto. Se c’è stato un periodo che dobbiamo salutare è proprio questo. In Francia lo chiamate il Secolo d’Oro. Il Barocco, un’età inquietante, ribollente, che fonda l’uomo moderno. Mi piacerebbe essere un oscuro scienziato del XVII secolo, l’assistente di Francesco Redi, o un anatomista della Scuola inglese, un preparatore di cadaveri, un artista dell’imbalsamazione. Essere nel cuore delle sostanze, vivere nelle sostanze. Sono innamorato degli elementi, delle sostanze che hanno uno spessore, che si possono toccare, annusare, sentire, misurare, che esistono nello spazio e nel tempo, che lasciano una traccia. Sa, per me, in quanto storico, la condizione ideale sarebbe quella di leggere un libro molto antico in un cimitero illustre!

I libri antichi sono una delle sue passioni, penso. Come le è nata?

Mi sono innamorato dei vecchi libri a tredici o quattordici anni, quando per la prima volta ho sentito l’odore di certe edizioni del XVI secolo. La carta aveva un profumo particolare; oggi non ha più odore, o se ne ha uno è leggermente nauseante. Ma quello che mi colpì allora, fisicamente, fu l’odore del tempo, del passato. Sentii il profumo dei secoli e mi innamorai dei libri! Fu un approccio molto improprio, non attraverso la lettura del libro, ma attraverso il suo odore.

Si ricorda il titolo del libro?

Certo! Erano Le vite di Plutarco, un’edizione veneziana della metà del XVI secolo... Questo odore di Plutarco mi fu fatale! Questo amore fu irresistibile e ancora oggi ho bisogno di questo odore, di lavorare sopra e in mezzo ai libri antichi. Tra l’edizione moderna e quella antica di un classico, sceglierei sempre la seconda. Non so, credo che sia questo odore a innescare in me certi meccanismi intellettuali. In fondo sono un intellettuale molto impuro; per mettermi in movimento ho bisogno di passare per dei percorsi illeciti. Questo non significa comunque che sia uno storico che naviga a vista!

Ebbene, appunto, come lavora?

Le ho parlato poco fa dell’importanza fondamentale dello sguardo, della descrizione. Oltre a questo credo che siano i dettagli ad essere essenziali. Bisogna cercare infaticabilmente nuove fonti, stabilire con cura le correlazioni tra queste fonti, verificarle scrupolosamente, insomma applicare la tecnica della formica, una formica diligente, infaticabile. E se, a un certo punto ci si accorge che questo insieme di dettagli costituisce un edificio, è magnifico. Ma sempre partire umilmente dal dettaglio. È un lavoro da benedettino, o da artigiano all’antica. Ma, beninteso, i miei libri sono anche la proiezione di ossessioni personali. Una ricerca che intraprendo diventa presto ossessiva. Quando lavoravo sui vagabondi, per esempio, andavo sui luoghi dove si potevano ancora trovare dei barboni, cercavo l’universo dei mendicanti del Medioevo, la notte sentivo la loro voce, ero ossessionato dalla loro litania, dalle formule che usavano per chiedere la carità, in particolare i falsi vagabondi. Sono cose che vivo intensamente, in modo un po’ morboso forse, dall’interno. Poi, questa ricerca ossessiva, la esprimo in forme molto personali che escono forse dai sentieri battuti dalla storiografia ufficiale. Se vuole, sono frammenti di storiografia espressionista.

Dunque i suoi libri lasciano una traccia nel suo corpo?

In un certo senso, sì. Se si vuole una pagina efficace, esistono due possibilità: o si raggiunge un altissimo grado di astrazione intellettuale, o si scrive una pagina di ricostruzione e di deformazione storica della realtà. Non penso che il passato possa sia ricostruito al cento per cento. C’è dunque un margine di ricostruzione, di deformazione personale, tanto più grande quanto più lo storico è originale. Più si avvicina all’arte, alla sfera artistica, più esce dalla meccanicità della routine storiografica. La mia esigenza letteraria viene senza dubbio anche dal fatto, come le dicevo all’inizio della nostra conversazione, che ho cominciato come storico della letteratura italiana. Letteratura e storia, uno strano incontro...

Veniamo al suo stile. Come lettrice trovo spesso una sorta di truculenza gioiosa, un terribile giubilo, qualunque sia il soggetto abbordato, la morte, la putrefazione, l’Inferno, la fame, il formaggio o l’anatomia... È d’accordo se parlo di brillante allegria macabra?

Non so. È la sua lettura e gliene lascio la responsabilità. Detto questo, questa espressione mi seduce abbastanza. Ma non crede che questa allegria che lei evoca abbia a che fare con il trionfo della vitalità sulla morte? Ora, è questa potente vitalità ritrovata che infonde un’allegria alle cose più disperanti. Senza dubbio bisogna vedervi anche uno sforzo di umanizzare, di alleggerire, di compensare il fatto che una storia porta sempre con sé lacrime e sangue. Perché alla fine fare storia non è in qualche modo fare la storia di tragedie? Se si facesse la storia di paesi edenici e reami felici, non si farebbe della storia, la si immaginerebbe, sarebbe della mitologia. Potrei anche dire che in quello che lei chiama “brillante allegria macabra” ci si ritrova la rappresentazione del maneggio della trasmutazione eterna delle forme. O, molto semplicemente, l’eterna dialettica dei contrari, il disgusto e il fascino per la vita. Di fatto credo che alcuni miei libri riflettano questo rapporto ambiguo di amore/odio per la vita. Come il piacere nasce dalla cessazione del dolore, così si può amare la vita solo se la odia e viceversa...

A cosa non potrebbe rinunciare?

Difficile rispondere a questa domanda! Al lavoro, mi sembra, perché mi offre la possibilità di approfondire la vita nel momento in cui la dimentico. La ricerca costituisce il nodo più stretto che mi lega all’esistenza, è anche una maledizione, ma una maledizione che mi protegge dagli oltraggi della vita. Detto questo, sarebbe troppo facile e inesatto dire che è una fuga dal presente. Credo di essere stato e di essere ancora un solido consumatore di quello che si conviene di chiamare presente.

Allora legare il passato al futuro come unico mezzo di vivere il presente?

Lei pensa al teorema di sant’Agostino, secondo cui il presente non esiste, è sia futuro sia passato: si è dunque sempre nel futuro pensando al passato e viceversa. Sì, ma il nostro corpo è nello spazio e nel tempo. Dunque deve ben esistere un presente, non fosse che un presente del nostro corpo. Ma è molto più complicato di così. La nostra corporalità ha bisogno di una situazione critica per sentire la sua temporalità. Ora, questo è smentito dall’atto d’amore. Non diciamo appunto che l’essere umano ricerca l’accoppiamento per dimenticare il presente, per uscirne, che sono parentesi che si aprono per abolire il tempo, per uscire dal tempo? Vede, tutto questo è estremamente complesso. Siamo mai riusciti a comprendere l’essenza del tempo?

Il tempo non è un filo conduttore di L’officina dei sensi?

Ha ragione, è in qualche modo un filo rosso segreto del libro. È una possibilità di lettura a cui non avevo veramente pensato: una storia del tempo vista per metafore o segnalazioni di presenze che conducono ad altro. Una fenomenologia, una epifania, una storia atipica, parziale, irriflessa del tempo. La carne vegetale, la carne umana, la carne coagulata del latte. Il formaggio non è l’immagine stessa del tempo fossilizzato, la sua morfologia, un campione dell’invisibile attraverso il visibile? In effetti si tratta di una storia del tempo fatta in contrattempo...

In questo libro lei studia altrettanto lungamente il tempo dell’ascesi, del misticismo. Non ha la sensazione che oggi, in Occidente, i mistici siano scomparsi per far posto agli illuminati di ogni tipo? Se sì, perché secondo lei?

Non so se si può affermare che non esistano più grandi mistici, ma si può dire che la letteratura mistica è, per il momento, estinta, defunta. Quanto a sapere perché, è un’altra questione. Al limite potrei cavarmela con una piroetta! Perché Dio è morto, perché non esiste, perché è uscito a comprare le sigarette... che ne so?! Più seriamente, mi sembra che le basi materiali del misticismo, tutta questa scena che un tempo portava all’ascesi, fanno difetto oggi... Il silenzio, la notte. La notte mi ha sempre affascinato. In L’Inferno e i fantasmi dell’ostia ho dedicato un capitolo al modo in cui erano vissuti i sogni, i fantasmi notturni nell’età moderna. La liturgia degli odori, la scansione delle ore del giorno, i segnali acustici del sacro, tutti questi stimoli che erano altrettanti trampolini per preparare dei viaggi in territorio mistico sono scomparsi, annegati nell’era della comunicazione di massa, del grande chiasso universale e dunque del grande malinteso universale. Il condizionamento è assoluto: il nostro occhio vede quello che gli si dice di guardare, si legge il giornale che bisogna leggere, si divorano i libri che bisogna aver letto per essere intelligenti, quelli di cui l’intelligenza di turno ci dice che sono “indimenticabili”, fino alle vacanze che devono essere intelligenti! Il misticismo, al contrario, costituiva un segno di profonda libertà, di affrancamento dell’uomo. Un essere sceglieva di fare un viaggio che sapeva sarebbe stato estremamente difficile, tortuoso, tormentato, ma questa scelta, la faceva in piena libertà, senza che nessuno gliela “consigliasse”. Oggi questa libertà ci è rifiutata. Solo i laboratori di ricerca offrono ancora una possibilità, perché sono prefissati, programmati, pagati. Immagina un laboratorio mistico sovvenzionato dal CNRS? Detto questo, esistono delle forme di sostituzione come la stregoneria o l’astrologia di massa. Sono solo dei sostituti, ma rispondono a una dimensione di cui l’uomo non può fare a meno, a cui non vuole rinunciare, voglio dire del mistero. Ora, anche il mistero è stato banalizzato, è caduto nel dominio pubblico. Prima la gente aveva un rapporto personale con il mistero, oggi lo prende da dove viene, cioè dai giornali, dalle riviste, dalla televisione dove officia l’astrologo di turno. Alla ricerca del mistero si è sostituito il consumo del mistero.

In quale linea si pone come storico?

Ma, io non appartengo a nessuna scuola, sono un isolato, un marginale della storia e questa posizione mi va molto bene. Lei parlava di antropologia storica e letteraria. Aggiungerei antropologia della cultura popolare, a cui ho voluto dare dignità. Soprattutto amo questa idea di essere un becchino che scava nella polvere dei secoli per dar vita ai morti.

Testo apparso in rivista francese non identificata dopo il 1978, proveniente dall’archivio privato di Piero Camporesi
Traduzione di Elio Grazioli.
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