Riga n.
Alberto Arbasino
Aldo Buzzi
L'architetto Steinberg

Due parole sull’architetto Saul Steinberg. Nel ‘33 Steinberg, dopo aver frequentato per un anno la facoltà di Filosofia di Bucarest, si recò alla stazione e salì sul treno per Milano. Nella valigia aveva una scatola di dolci di zucchero rosa verde e celeste e dei disegni. In treno fece qualche disegno. A Milano si iscrisse alla facoltà di Architettura e continuò a disegnare; perché Steinberg è nato per disegnare come Fred Astaire è nato per ballare. Nel ‘36, mi pare, uscì il suo primo disegno (larghezza una colonna) sul «Bertoldo». Era firmato Xavier; ma noi siamo andati subito a cercarlo nella sua camera alla Casa dello Studente. Steinberg fumava soddisfatto e quando ci vide comparire sorrise maliziosamente.
La vita cominciava a diventare piacevole per il nostro amico. Dormiva fino a tardi nella sua nuova stanza, al Bar del Grillo. Alle undici, a mezzogiorno bussavo alla sua porta e dormiva ancora. Il piccolo tavolo, bruciacchiato dalle sigarette, era coperto di disegni, il fumo appesantiva l’aria. Aprivo le persiane. Sotto, nel giardinetto, il cameriere scopava le piastrelle della pista di ballo. Ma Steinberg ci metteva un bel po’ a svegliarsi. – Perché mi svegli all’alba? – borbottava. Tossiva, accendeva una sigaretta, si infilava gli occhiali.
La guerra intanto veniva avanti e già molti se ne erano andati, altri si affaccendavano coi passaporti e i visti ai consolati e in questura. Steinberg è partito nel ‘41, proprio all’ultimo momento. Ha fatto perfino in tempo a diventare architetto.
L’ultimo tempo trascorso in Italia (San Vittore, coi carcerati che facevano le carte da gioco con la mollica di pane, il confino) è ormai per Steinberg un lontano ricordo, e come in tutti i ricordi il brutto sarà, in parte almeno, dileguato. Finalmente, proprio all’ultimo minuto, ricevuto l’ultimo visto, riuscì a salire sull’aereo per Lisbona.
Lisbona, Santo Domingo, Nuova York, la guerra nella marina americana. Cinque anni. Steinberg ha da raccontare per delle ore a noi rimasti quaggiù nella vecchia Europa. E arrivato con una splendida valigia di pelle rossa. Racconta e tira fuori da un sacco i regali, le sigarette, gli ultimi disegni. Anche sotto le armi non ha mai smesso di disegnare . Ha fatto progressi, cioè è diventato sempre più Steinberg.
Non è qui il posto per esaminare da un punto di vista generale l’opera di Steinberg: di Steinberg virtuoso della linea oppure (sarebbe la cosa più importante) di Steinberg disegnatore morale (l’humour è un campo troppo ristretto; più che di Thurber, Arno, Bemelmans, suoi presunti rivali americani, bisognerebbe parlare di Hogart, Grosz, Daumier). Voglio solo dire due parole sull’architetto Steinberg, cioè su Steinberg e l’architettura.
L’architettura (chi non lo vede?) gli è entrata nel sangue e riempie i suoi di-segni, vista da un occhio che oltre tutto è anche di tecnico. L’architettura: cioè la forza costruttiva del segno; la prospettiva, che Steinberg ha usato fino al limite del possibile. (Le tavole che va attualmente pubblicando su «Architectural Forum» sono una specie di Letarouilly steinberghiano dei monumenti dell’America d’oggi: il cinema, l’underground, il drug store, la casa d’abitazione tipo sezionata, con le cimici e i topi sorpresi dalla sezione nell’interno dei muri).
L’architettura: e cioè gli stili, le mode, le polemiche, le esagerazioni, le manie montessoriane di certi architetti... I misteri del moderno, del monumentale, del razionale, dell’organico. In questo senso le sue architetture sono precise nei minimi particolari.
Steinberg potrebbe essere un ottimo architetto, ma sono convinto che non farà mai l’architetto. Ha troppo orrore delle seccature. A scuola (allora i primi della classe disegnavano alla Le Corbusier; oggi forse useranno il lapis Conté per dare un tono wrightiano ai loro elaborati) i suoi progetti erano evidentemente disegnati da una mano felice e indipendente. Ma anche i professori avevano capito che Steinberg non avrebbe fatto l’architetto. Sorridevano pensando ai suoi leoni, ai monumenti, ai panorami. Era difficile esser severi con lui. Il giorno che portò a scuola le tavole col rilievo del palazzo Borromeo, il gotico motto Humilitas della famiglia Borromeo si era trasformato in Humiditas. Se ci pensate, non è un semplice scherzo.
 
In «Domus», n. 214, ottobre 1946.
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