Riga n.
Alberto Arbasino
Franco Cordelli
La sua parte di desiderio

Mancini detestava se stesso ma diceva di detestare la soggettività. La filosofia e la politica lo avevano ridotto in quelle pietose condizioni di autoinganno. “Ma non so che cosa significa”, disse a un collega, volando tra Roma e Palermo. “Tutto è soggettività: anche la lotta alla soggettività”. Pure, aveva aggiunto, senza questa lotta non si può vivere. Prendi una lettera: esaminata il giorno dopo, suscita un disagio e, a volte, un ribrezzo: per la semplice ragione che l’autore risulta, ai nostri stessi occhi, un estraneo. “Credo”, ammise al ritorno, durante il breve e felice volo Palermo-Roma “che questo è un libro di oscuramenti, visioni, sorprese” (stava descrivendo un libro di foto e didascalie, che giaceva sulle sue ginocchia). Mi limito a dire, aveva confidato al collega, che in quanto più giovane si compiaceva di valutare per attendibili o meno le sue opinioni, mi limito a dire che è un libro di commenti. “In che senso?” chiese l’altro. “Come tutta la letteratura è un commento alla vita” rispose Mancini. “O come la critica è un commento della letteratura. Ma anche come un processo lo è del delitto che lo ha causato. Senza delitto, nessun processo; e, d’altra parte, se vi sarà un delitto cui non seguirà alcun processo, il mondo procederà azzoppato, privato di quella stessa vitalità che il delitto ha generato. Quale che sia il suo esito, il processo ristabilisce l’equilibrio del cosmo”.
Mancini, cittadino del Lussemburgo residente in Italia dal 1966, anno in cui si era iscritto al Centro sperimentale di Cinematografia, aveva da molto tempo dimenticato la sua ambizione e il suo retaggio. Il retaggio (italiano) scaturiva dall’associazione tra la politica e la violenza: all’Università di Roma, sotto i suoi occhi, gli studenti fascisti avevano picchiato o gettato dalle scale un coetaneo antifascista. Quel ragazzo, cadendo, aveva battuto la testa ed era morto. L’ambizione consisteva nel desiderio di diventare un regista cinematografico: ecco perché si era trasferito a Roma. “Nella linea azzurra che come fotografo vorrei aver tracciato (una linea di oscuramenti, visioni, sorprese) sarebbe bene” auspicò “deporre un punto di rosso. Non è proprio quel punto, del resto, il mio o, addirittura, il nostro obiettivo? In che cosa posso dire di credere se non in ciò che accade ora, in questo momento? Senza filosofia, e senza politica, cerco quel punto di rosso che renda più chiaro, vorrei dire più palpabile, l’azzurro”.
Ma il paradosso (tutto è paradosso) voleva che il suo punto di rosso scaturisse proprio da un processo: e, per meglio dire, proprio da un’immagine (un punto). Era l’immagine televisiva di una testimone che, deponendo a un processo, chiese che le telecamere la rispar-miassero: come in effetti accadde (era il luglio del 1998). Ma le telecamere, malvagiamente, astutamente, fecero in realtà finta di risparmiarla. Dall’alto e di lato mostrarono l’intero corpo (il regista non era abbastanza intelligente da inquadrare con calma i particolari: per es. i piedi, o meglio le scarpe; riteneva che significative fossero solo le mani); in primo pia-no, più volte, quelle mani, quei diafani polsi, l’orologio; con un’insistenza tutta speciale, quasi ossessiva, la bocca: la bocca dalle labbra che si intravedevano asciutte e quasi screpolate dal caldo, dalle parole che salivano, cercate in lontananza, dalla stessa testimone definite dolorose, dall’arsura dello sforzo compiuto e, un poco, oserei dire, dalla performance che si stava di fatto compiendo.
L’immagine delle labbra, ovvero della bocca e del mento, occupava per lunghi minuti l’intero schermo: era come se la telecamera agli spettatori consegnasse, su cui meditare, l’immagine di un mezzo viso. Ma gli spettatori, testimoni di testimonianze, su che cosa do-vevano meditare: sul mezzo viso che vedevano o su quello che non vedevano? In ogni caso, quella era l’immagine che all’improvviso apparve a Mancini come il suo punto di rosso: in modo paradossale, proprio da un processo, sprizzava, come una scintilla, il fatto; proprio da qualcosa di a lui del tutto estraneo, scaturiva, come l’acqua da una roccia alpina, ciò che più di tutto lo riguardava, ciò che in particolare riguardava il fotografo Mancini. Non solo: tutto discendeva, un punto che assomigliava a una totalità, o a un insieme, infine realizzato, non più da una immagine per così dire intera, ma da una mezza immagine, dalla metà di essa. Da una parte, c’era la verità del mondo (l’espressione era pomposa), c’era il processo, il commento: la verità altro non è che l’infinito, contraddittorio commento. Dall’altra, c’era Mancini, la sua insensibilità, la sua indifferenza di spettatore che poco a poco (o di colpo) si convertiva nel suo opposto, in uno spasimo, in un estremo di attenzione.
Di rovescio in rovescio, la natura dell’evento (della performance) si faceva luce. Che cos’era lo spasimo di attenzione se non uno smisurato desiderio di possesso, di penetrazione, di violazione: d’un corpo così lontano da essere immateriale e dunque prestigioso, sacro, inviolabile? La germinazione di questo desiderio, d’altra parte, allontanandolo, lo avvicinava: a che cosa se non all’oggetto del contendere, alla disputa in corso, al luogo del delitto (ov-vero al delitto) sul quale era accorsa, e ivi spasmodicamente impegnata, la testimone?
Fino a quel momento, il delitto gli era risultato opaco, non si era accostato. La studentessa uccisa una mattina di maggio del 1997 in un viale dell’università era rimasta una notizia di cronaca tra le altre. Il processo era cominciato, ne aveva letto i resoconti sui giornali, aveva visto in televisione le registrazioni delle sedute autunnali (quelle estive furono mandate in onda più tardi, a causa del successo della trasmissione). Mai il pensiero gli era andato al corpo morto della ragazza, la testa fracassata da uno stupido, o troppo intelligente proietti-le. Mai aveva sentito il corpo della vittima, il dolore dei parenti, lo smarrimento degli amici. Tutto ciò gli era, appunto, indifferente. Per che cosa, al pari di tutti i suoi contempora-nei, aveva provato interesse, un pallido interesse, ma pur sempre un briciolo di attenzione, se non per gli eventuali assassini, per la dinamica del delitto per il suo sempiterno oscuro movente, per il mistero? Come sempre, gli sfuggiva ciò che sapeva bene: che quello non era affatto un mistero, ma solo il segreto di qualcuno; e che il mistero, se proprio ci si voleva compiacere di simili espressioni, semmai era l’altro: il mancamento; non l’essere venuti, ma l’essere venuti meno. In altri termini, poiché di questo si trattava, nulla meno che questo, gli sfuggiva la realtà, di una morte e delle sue conseguenze: il commento alla morte di quella ragazza era il processo, ma anche lo erano le lacrime del padre, un uomo dal viso composto, severo, dignitoso (come scrivevano tutti i giornalisti presenti in aula), ma prima di tutto un uomo comune, un uomo come tutti gli altri, come noi, che non sappiamo che cosa ci accadrà nel momento del delitto: poiché così procede la vita, spietatamente bilan-ciando ciò che è comune e ciò che non lo è, che Mancini si ostinava a chiamare evento e che potremmo con ogni tranquillità chiamare delitto: tutto è un delitto, tutto ciò che accade di imprevisto, e ci ferisce e, quasi, dissangua. Dunque, il padre della studentessa uccisa pian-geva. La testimone, a carico dell’accusa, procedeva nel suo immane sforzo di ricostruzione. O meglio: di ricostruzione di una ricostruzione già avvenuta, prima in privato e ora in pubblico. Quella ragazza, meno di trent’anni, la vita ormai immolata sul luogo di un crimine al quale non aveva voluto sottrarsi, così Mancini credeva di ricordare, era figlia di un profes-sore: anche lui di diritto, o d’una materia giuridica. La figlia aveva seguito le orme del padre. Nel maggio del 1997 era assistente, pienamente consapevole di sé e dei suoi mezzi. Ma se si sentiva preparata ad affrontare il tema della giustizia, non ad altro s’era preparata nel-la vita, ora a tutto ciò aveva deciso di rinunciare, gettare alle ortiche il saio, sacrificare la carriera accademica, proprio in nome della giustizia. Come lei stessa aveva detto: si era preparata alla giustizia, o al suo cursus honorum, ma non al crimine. Tanto meno alla necessità di mettere in gioco la sua vita, fino a quel punto. Sapeva di aver assistito al delitto, ma non ne ricordava nulla. Era distratta. Non era predisposta a ricordare. Ogni evento è sempre al di là della nostra attenzione.
Pure, quell’evento lei cercava di ricostruirlo, produrre le prove, l’atto di cui parlava Aristotele e di cui tutti avevano bisogno, di atti e non di eventi. La testimone cercava di viverlo di nuovo, di provocarlo per così dire artificialmente: con l’enormità della memoria. Non riu-scii a ricordare, disse, finché non riuscii a ricordare le frasi che avevano accompagnato ciò che avevo visto e dimenticato. L’atto del vedere non è puro, non esiste il vedere in sé, il ve-dere è sempre tradotto in una frase, un pensiero, un pensare. Bisognava ricordare la frase, le parole, la punteggiatura. Fu solo quando riuscii a compiere questo percorso, solo allora seppi d’essere entrata in quella stanza per fare una telefonata (a mio padre) e d’aver istinti-vamente, o meccanicamente, piegato a destra, verso il telefono. Ma per un attimo d’aver inquadrato, tra la porta e la finestra, in asse rispetto al mio stesso guardare, la figura di co-lui che siede sul banco degli imputati; e poi, nel voltarmi verso destra, d’aver visto, per una frazione di secondo, l’altra testimone dell’accusa, quella che voi dubitate fosse presente. Solo più tardi, in virtù della mia decisione di ricordare e dei contorcimenti, degli spasimi che ne seguirono, pari a quelli di un corpo calato nella crepa di un terreno viscido e buio, seppi con certezza che quella donna era lì, era presente, lei non dice altro che la verità.
L’altra donna, da parte sua, era l’esatto contrario di questa. Questa era giovane e si era sacrificata. L’altra era di mezza età, il suo destino non prevedeva svolte, disperatamente si arroccava in se stessa: voleva solo sottrarsi, tenacemente, fino alla colpa, aveva rifiutato d’essere dominata dall’eventualità che qualcosa mutasse nella sua vita. Questa seconda testimone (che era in realtà la prima, la più accanita, la più precisa nel pronunciare la sen-tenza: lui, l’imputato, era lì, in quella stanza, gli aveva visto fare un gesto, o così le era sembrato, un gesto strano, di occultamento di qualcosa, in una borsa), questa seconda testimone aveva scandalizzato e schifato le persone presenti al dibattimento. Così sono fatte le persone comuni, come se i loro vizi fossero vizi di classe; così sono quelli che scelgono di farsi i fatti propri, spergiurano sui figli pur di salvare i figli, ovvero di metterli al riparo da intrusione, di mettere al riparo loro e se stessi, perché nulla muti. Lei, la prima testimone, non aveva detto nulla, aveva giurato di non essere presente, poi di non aver visto, infine aveva ritrattato. Che cosa l’aveva indotta a ritrattare? Il processo si era spostato su questo interrogativo. Mancini, per quanto lo riguardava, aveva scrutato anche lei, aveva osservato quella donna di mezza età, incolore, in piena luce: il viso offerto alle telecamere. Aveva guardato il suo naso arcuato, dalla curva cattiva; e la bocca piegata dall’amarezza e dalla delusione, piegata all’ingiù. Aveva notato che le mani erano belle (la parte nobile del corpo priva di nobiltà, che tenacemente si rifiutava alla nobiltà, che non ne voleva sapere, che perfino la disprezzava) e che i vestiti non erano mai vestiti, erano una gonna e un pullover, gli abiti più ordinari che si possano immaginare, dai colori privi di colore: la fisionomia di quelle persone che a furia di nascondere sé a se stesse nei momenti di emergenza, per esempio in tempo di guerra, quando il nemico occupa il suolo della patria, non si accorgono di venire alla luce proprio così, alimentando il disinteresse per gli altri, condannando gli altri.
Ma, si chiedeva Mancini, si possono, per la loro natura, condannare queste persone? Forse le cose dovevano essere valutate in altro modo solo in tempo di guerra, o in una qualsiasi emergenza. Questo era stato il suo primo moto di interesse reale per il processo (non ancora, lo aveva notato, per l’assassinio, per la vittima). D’altra parte, il processo è già, in nuce, uno stato di guerra; ciò forse bastava a giustificare le rampogne che erano state scagliate all’unanimità, la condanna di quella reticenza, di quella viltà, di quel silenzio. Troppo co-modo che si decida a parlare solo ora. Perché adesso lo fa? Ma Mancini non riusciva a con-dannarla, avvertiva che per quanto quella donna meritasse il disprezzo universale, che si fosse in pace o in guerra camuffata da pace, ella si era, ignara, offerta come agnello. Aveva spostato involontariamente il bersaglio dall’attenzione che si doveva prestare e che lui stesso non prestava, non gliene importava nulla, era proprio come lei: che c’entrava lui? Per-ché doveva impegnare una parte di sé? Al contrario, rispetto a quella donna avvertiva niente altro che un oscuro, inconfessabile desiderio. Non aveva semmai desiderato, come più tardi per l’altra, per l’aristocratica, non aveva desiderato accostare la plebea, essere vicino, essere dentro? Lo aveva desiderato come quando si desidera incanaglirsi, sprofondare in ciò che sappiamo fuggitivo.
Dopotutto, si diceva, vorremmo che tutte le donne fossero come lei, vergini? L’assistente, vocata alla giustizia, non ubbidisce che al suo narcisistico, psicopatico demone. Ella si immola al suo ideale, ha un ideale cui immolarsi, di fronte al quale giustificare la sua vita. La sua tensione non è che la sua felicità: che la vita le abbia offerto l’occasione di mettersi alla prova, di compie-re l’inaudita tenzone. Ma quest’altra: lei, che ideali ha? è una colpa non avere ideali? è una colpa vivere limitandosi a vivere, senza avere ambizione di commenti, di processi e, dunque, di delitti? Morbosamente, Mancini era attratto dall’una e dall’altra. Guardava l’immagine tagliata della seconda testimone e intuiva, ancora una volta, che il rovescio della inquadratura era la sua parte mancante e che quel rovescio altro non era che ciò che lo avevano abituato a chiamare Mancini: quel Mancini che guardava e finalmente desiderava. La foto, assoluta, che c’è nella mia mente, si chiedeva, è forse la foto del bisogno? Niente affatto. Non è che la foto del desiderio. A essere complicato è il desiderio, il bisogno appartiene al tempo passato; è semplice, elementare, s’è scarnificato da sé. Ma quando ad arrivare all’osso è il desiderio, che si fa? Come resuscitarlo? Ovvero: come so-pravvive l’arte della fotografia? Finisce che gli eventi te li devi inventare, e questo contrad-dice il tuo assunto di intrinsecità, di conseguenza, di fedeltà di ciò che dici a ciò che fai: ciò che dici può scaturire solo da ciò che fai e ciò che fai da ciò che dici.
Il desiderio del desiderio e soffrire di non soffrire è già qualcosa, dicono i padri della Chiesa. Ormai anche della chiesa estetica, essa vive su questo precetto. Pure, la chiesa cui appartengo, ammesso che io appartenga a una chiesa, argomentava Mancini, pretende di non dare torto a nessuno. Non vuole attribuire neppure una ragione. Vuole solo il desiderio, puro, zampillante, reale: per quanto sia a esso sottratta la chimera della durevolezza. Guardava il volto pallido dell’assassino, ovvero del ragazzo accusato di assassinio. Gli in-quirenti avevano fatto un po’ di letteratura, sostenevano la tesi che egli avesse ucciso, con un colpo di pistola, con l’unico movente di mettersi alla prova, non avere la sua materia, il diritto, alcun fondamento di diritto, o la legge, la legge degli uomini, la legge di Dio, quello che volete. Guardava la sua faccia impassibile, per così dire filosofica (era la prova stessa della colpevolezza), il ciuffo dei capelli neri che gli cadeva sulla fronte e che di tanto in tanto rialzava, come se fosse l’unico gesto che avesse deciso di consentirsi, e il pallore di quella faccia, un pallore che gli era familiare e che infine metteva a fuoco e, quasi, ritrovava, il pallore dell’università, del cimitero, del Verano in cui ci si imbatte quando si esce di ll, il pallore di chi, arrivato dal sud, vive in una camera ammobiliata: studiando e crescendo e sperimentando, per giorni, per anni, a vuoto, in solitudine, fino al momento in cui non ci si imbatte in una pistola.
Guardava la sua faccia, quando la telecamera lo consentiva; e tornava a guardare ancora, quando essa tornava, e stazionava, sulla mezza faccia della seconda testimone. Osservava con attenzione, spingendo l’attenzione fino allo spasimo, fino al desiderio: ed era là, proprio là, in ciò che mancava, nel rovescio di quella faccia, che ritrovava ciò che mancava a lui, ciò che aveva perduto. Ritrovava il corpo dell’altra ragazza, quella che era stata uccisa, che non c’era più, che non sarebbe tornata: non da Mancini, ma da nessuno. Infine, la vedeva: nel sole di maggio e nel sangue, proprio negli stessi luoghi dove trent’anni prima, nella sua infanzia cioè nel suo principio (sebbene fosse, per essere più precisi, la sua giovi-nezza), durante le battaglie tra studenti, per la prima volta aveva visto com’è un corpo mor-to che cade. Quel corpo lo aveva dimenticato e ora, a furia di tentativi, avendo gettato alle ortiche il vizio della politica e della filosofia, lo aveva ritrovato: poiché ritrovare è tutto, ma è inaspettato o è il frutto di un accanimento; e non essendo Mancini un ingenuo, egli scopriva, in quell’istante, la natura ultima del suo desiderio. Scopriva che l’atteso e l’inatteso coincidono ma che la violenza, ovvero l’oltraggio, la dismisura, è la più raffinata forma di dipendenza.
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