Michele Mari
Sangue dalle Rape
Sangue dalle Rape
Nevrotica e ambiziosa, la principessa Melania decise di por fine alla propria noia inventandosi qualcosa di esaltante. E poiché nella sua raffinatissima testa allignava il verme della demenza, si abbandonò come sempre alla sua ecolalia: “Esaltante esultante, sì sì, risaltante risultante, tanti salti risalenti, salienti, seminiamo le genti”. Ripetuta sette volte questa litania, si diresse a uno dei tanti verzieri che circondavano il suo palazzo, e là, con gesto teatrale, sparse ovunque manciate di semi.
“Che semini, bella principessa?” le chiese il corvo.
“Semino rape: noi si semina rape: son semi di rapa rapiti alla morte, mi pare”.
“Avrei vaghezza di saperne di più, sulla rapa”.
“Rapa è quella da cui non puoi cavar sangue, imparammo: per questo io che affiso in alto e lontano lo sguardo ho deciso che caverònnelo. Deucalione e Pirra restaurarono l’umanità seminando pietrame, non potrò io suscitare la vita in rapis per rapas?”
“La vita di rape, ciò è sì” precisò il corvo.
“No, la vita sanguigna dell’uomo! La vita-vita, la nostra animale, la mia razionale!” si infervorò la principessa, che come le capitava in questi casi si abbandonò a una serie impres-sionante di tic nervosi, dei quali si liberò lentamente solo dopo averli ritmati.
“Domina gli strabuzzamenti nel metro siccome poetessa” pensò il corvo, ma se lo tenne per sé.
“Allora, la rapa”, riprese la principessa dopo aver avuto ragione delle sue smorfie: “tu vedrai che la rapa è piena e compatta, ed è dura: ma insieme è sugosa: non solo, ma il suo miracolo risiede in certa sua interna trasparenza, come di madreperla: e vi discerni, se affi-si lo sguardo, un sottile ricamo di venature, talquale la filigrana. Questa è la rapa, misteriosa e ambigua, ma poi... tutto questo mistero, questi arabeschi, la sua iridescenza... ohibò, tutta questa bellezza rimane lì, sterile, inattuata come un simbolo vuoto, senza sangue, perché per definizione la rapa non è suscettibile di sangue: per questo io...
“Susciterollo!” terminò il corvo, contagiato da tanto entusiasmo.
“Al dio degli orti piacendo”, sospirò la principessa, cui non piaceva condividere il proprio entusiasmo con nessuno.
Venuta la stagione del raccolto, la principessa tornò all’orto e con un vezzoso puntalino d’argento incominciò a smuovere zolle. Come apparve una rapa la afferrò, la sradicò, le soffiò via la terra, dopodiché, tenendola davanti al volto, l’apostrofò così:
“Non deludermi, o rapa. Tu sei potenza conchiusa e inespressa, tu consisti in te stessa di te paga e in te quieta: tu semplice, tu di te complice implicita in te: io però qui ti sollecito per-ché mi è lecito e lìbito, sì, ti esorto all’esplicazione compiuta, all’attuazion delle forme, ti voglio discontinua al tuo essere rapa, ti voglio audace, sfrenata, voglio vederti rischiare la tua entelechia traducendoti in forme a te nuove, voglio che tu corra l’avventura del mondo per tornare un giorno, chissà, a essere rapa dopo essere stata unicorno, falcone, bambino, salamandra, balena, e allora rapa più rapa, non rapa per cieca necessità di natura ma per elezione e per sazietà, rapa vera, rapa trionfante sul mondo attraversato e saputo, sicché, sù, pochi indugi, determinati!”
La rapa non si determinò.
“Stupida rapa!” inveì la principessa, che provò con un’altra rapa, e poi con un’altra e un’altra ancora.
“Non si determinano”, chiosò il corvo.
“E credo saperne il perché”, proseguì la principessa. “Il fatto è, lo vedi anche tu, che le rape non hanno gambette e braccine come le radici della mandragola. Dunque starà a me praticargliele per indicar loro la via”.
Detto fatto, con un coltellino prese a intagliar le rape a una a una, sagomandole quale a forma di uccello, quale di cavallo e quale di uomo e di donna. Dopodiché, sotto lo sguardo scettico del corvo, le riseppellì nella terra.
Arrivato il plenilunio la principessa tornò al campo, ma dopo averlo dissodato trovò solo marciume: le rape non avevano sopportato le mutilazioni, e lungi dal trarne auspicio determinativo si erano penosamente corrotte: e solo ne godevano i vermi.
“Rape rape, ortaggi maledetti ortaggi delusivi, io vi trasformerò, vel giuro, in organi musivi” canticchiò la principessa come se la cosa non la interessasse più tanto, dopodiché rientrò nel suo castello. Passò un anno e rivenne il tempo del seminare: e ancora il corvo vide l’infelice donzella avvicinarsi all’orto con un cestino pieno di semi, ancora la vide spargere i semi con gesto stilizzato. Poi non vide più niente, perché la principessa, voltatasi con un balzo, lo trafisse con il suo spadino.
“Così non m’aduggerai più con i tuoi commenti”, disse la trista al cadaverino, “e così, soprattutto, servirai a qualcosa”.
Ciò detto lo afferrò per le zampe, e tenendolo sollevato lo scrollò andando su e giù per l’orto, in modo che il sangue sgocciolasse su tutte le zolle.
“Per cavar sangue alle rape”, pensò, “alle rape dar sangue: ed esse te lo restituiranno rico-noscenti, lo riconosceranno e lo imiteranno: lo produrranno: si vorranno sanguigne e que-sto sarà, tararà, l’orto della cupidigia del sangue, il porto dell’ingordigia sarà, l’orto del corvo morto, l’orto del corpo vivo”.
Nelle notti seguenti la principessa sognò cavalieri e cavalli che spuntavano dalla terra disimplicandosene lentamente, e levrieri e bracchetti e fagiani e falconi, tutte creature magnifiche di cui mai si vide l’eguale, i cavalli erano i più maestosi e i più veloci, i falconi ave-vano lo sguardo più acuto che mai rapace vantò, le donne avrebbero fatto innamorare i re di tutto il mondo, e i cavalieri, beh, i cavalieri innamoravano lei. E quando di mattina si recava all’orto impaziente di un segno di quella crescita, affisando lo sguardo alla terra, ora ricoperta di una bella erbettina, le sembrava che si muovesse qualcosa, che qualcosa da sotto spingesse per guadagnare la luce: ma era solo il vento, che accarezzava l’erba e i fio-relli. Ma un mattino si svegliò urlando, perché aveva appena fatto un sogno diverso dal solito. Aveva sognato che le creature nate dall’orto erano tutte nere, bituminose come se fos-sero state attuffate nella pece, e coperte di penne così lunghe e sottili da sembrare le setole di uno di qui grossi animali del Nord, “Perché siete così?” gridava nel sogno, “Io non vi volevo così! “: allora un cavaliere le si avvicinò, e aprendo una bocca nera in cui nera era anche la lingua e neri i denti le disse: “Iamo eii ecché ci ai uciito egl’angue egl’ovvo”. “Cosa?!” chiese la principessa inorridita da quel gorgogliamento di suoni. “Siamo neri perché ci hai nutrito del sangue del corvo” tradusse un merlo che sorvolava il campo in quel momento, “ma me non mi prendi”: e fu lungi.
Spaventata dal sogno, la principessa si procurò dell’acqua benedetta, e con quella asperse l’orto zolla per zolla pronunciando formule magiche. Dopodiché si dispose fiduciosa all’attesa: ma chi la incontrò in quel periodo giura di averla vista in preda a una spaventosa gal-leria di tic nervosi, alcuni dei quali di nuovissima specie. Dicono anche che in quello stesso torno di tempo ella si intrattenesse in dotte conversazioni con il conestabile di Tournon, il quale, da buon lettore del libro delle etimologie di Isidoro di Siviglia, la rassicurava sul fatto che, siccome in latino “orto” significava nascita, l’esito dell’operazione sarebbe stato ot-timo.
“E rapa, da dove viene?”
“Rapa da rapio, lo dice il nome”.
“E dunque?”
“Rapita alla materia inanimata, la rapa si sublima in un rapimento mistico: è l’ònoma, l’ònoma!”
Rivenuto il tempo del raccolto, la precaria fanciulla tornò all’orto gonfia di malumore. “Stai incominciando a diventarmi antipatico, orto: bada bene di non deludermi, bada!” esclamò; poi, mordendosi rabbiosamente l’interno delle guance, incominciò a recuperare non già le rape, ma ciò che nelle rape doveva essersi suscitato. La prima cosa che emerse, tuttavia, era ancora una rapa: non integra e pura, però, perché nel suo volume si apriva un occhio: un unico occhio cigliato, con l’iride cilestrina. Orripilata, la principessa scagliò il mostro lon-tano, non tanto però che quello non continuasse a guatarla. La seconda rapa esibiva una bocca piena di denti marci; la terza un naso, mentre la quarta... la quarta era catafratta di unghie come uno di quei dolci soriani coperti di mandorle. Ma fu solo dopo aver visto cosa esibiva la quinta che la principessa fuggì, perché si trattava di cosa che lo sguardo di una gentildonna non può sopportare: né noi riferire.
Dunque l’esperimento era riuscito solo in piccolissima parte: le rape si erano espresse, sì, avevano protruso un gibbo, un lobo, una cresta, si erano aperte in fissure, avevano timi-damente tentato un fisionomia, ma al di là dei patetici conati che n’eran sortiti, nulla. Nulla! Poteva chiamarsi vita, quella? Erano creature degne di diportarsi alla luce del giorno, erano... sì, erano forse forme degne di un nome? Rape maledette, orride rape! Dov’erano i suoi cavalieri, le allegre brigate, le cacce con il falcone, dove? Al punto cui era, si sarebbe accontentata anche di una famiglia di villici, di un paio di buoi, di una capra, di un pollo, possibile che non sapesse ricavar nulla da quel lembo di terra? I ciechi lombi dei più ottusi fra gli uomini erano capaci di generare la vita, e non lo era lei che tanto aveva studiato, che commerciava con le stelle e con l’oltre come nessuna? Si tormentava così, quand’ecco da un cespuglio comparve un grosso tacchino. Guardandolo, la principessa capì subito che stava per rivolgerle la parola.
“Appunto”, disse infatti quello, “il tuo problema è che pensi troppo alle cose alte, alle cose ultime”.
“E a quali dovrei pensare, secondo te?” rispose la principessa piccata. “A quelle di qua, a partire dalla tua testa”.
“La mia testa?”
“Le sue interne circonvoluzioni, gli ingorghi, i grumi psichici ti son violenza al pensiero: ma anche tua forza, a saperli seguire”.
“Come puoi dirmi una cosa simile, tu, un pennuto da ingrasso?”
“Leggi nei libri, e troverai la mia immagine rubricata sotto il titolo della follia, e della sagace malinconia”.
“Tu dunque...”
“Inverti lo sguardo, abbraccia l’insieme dei tuoi pensieri e dei tuoi dolori, entra nella tua testa e osservane le anse, gli svolti, le ambagi tenebricose: lì c’è il disegno, il reticolo di che istruire le rape...”
“L’interna stampa di che informar la materia, ma certo! Se aveva ragione, il vecchio Aristotile!”
Così, rinfrancata, la principessa seminò al tempo debito un’altra derrata di rape, e durante la crescita si concentrò soltanto in se stessa: anzi per con-centrarsi meglio non si abbigliò più, non si pettinò più, non si lavò più, fino a ridursi una strega: cosa che era e non era, e adesso compiutamente fu. Nel suo inselvatichirsi, vagando per le sale del palazzo o giacendo in un letto ridotto a coviglio, la principessa ritrovò tutte le sue arsure e i tremori, tornò a essere una povera cosa tremante e un mondo violato, riseppe l’antica stortura. In tanto male le sue ossessioni brillavano come serpenti che avessero appena mutata la pelle: lei ne conobbe la testa e la coda e decifrò il grafismo delle loro circonvoluzioni, ne perlustrò le tane piene di svolte e di passaggi segreti, raccolse meravigliosi cristalli mescolati alle ossicine dei loro pasti. Poi, esausta, uscì da se stessa e pensò con intensità una rapa: la pensò disegnata, definita dalle forme incontrate nella propria testa, poi la pensò riempita delle proprie memorie, poi agitata dai propri tremori: finalmente le diede un nome, il nome di un bambino di cui si era innamorata quando era anch’ella bambina. Con questo procedimento attribuì tanti altri nomi ad altrettanti auspici mentali di rapa, e intanto si abbandonava ai suoi trallalà e dinghe-dinghe-dinghe, sempre con gli occhi chiusi, sempre più scarmigliata e selvaggia.
L’alba del giorno fissato per il raccolto sognò il tacchino con il collo squarciato. “Io muoio”, le diceva rantolando il sapiente animale, “e chi mi uccide sei tu, per mezzo delle tue creature”: dopodiché una muta di cani feroci gli fu sopra e lo divorò brano a brano. Impressionata ma non pentita, la principessa si affrettò all’orto, e quale non fu la sua sorpresa nel vede-re che le rape non c’erano più, al loro posto vaneggiando crateri. Tutt’intorno all’orto, in compenso, ferveva la vita: da una parte una contadina zappava, e due robusti villici aravano con un carro trainato da due buoi e due cavalli; dall’altra parte due signori a cavallo si venivano incontro con aria cortese: il più anziano dei due aveva un falcone sul braccio, e dal suo sguardo si capiva che pur amando moltissimo il proprio rapace ne avrebbe fatto dono all’altro cavaliere. Più in là ancora si vedevano delle darne, e cagnolini guizzanti, e quaglie, fagiani, usignuoli. Possibile che...? In quei verzieri non si era mai visto nessuno, dunque... Per un attimo la principessa rifiutò quel pensiero, ma era solo per poterlo far suo con accresciuta ingordigia. Sì! La vita! Creature sue, stirpe fatta da lei!
“Siete miei, siete miei!” gridò correndo fra quelle forme, “Onorate in me la madre matrona la mater matuta! Oh demiurgia delle rape, oh ebrezza, oh mio vanto!”
Invasata, esaltata, continuò a correre nei verzieri fino a quando non rimase senza respiro. Allora, piegata su se stessa, si rese conto di colpo che nessuna di quelle creature l’aveva degnata di uno sguardo. Il dubbio che si trattasse di vacui fantasmi la raggelò. Come poteva essere? Quell’aratro arava, quei buoi ansimavano... e i buchi stessi nell’orto delle rape, la terra smossa... no, non potevano essere illusioni, ma doveva sincerarsene. Si avvicinò a un cagnolino, lo chiamò: continuando a correre in cerchio quello non diede segni di essersi accorto di lei. Si avvicinò ancora di più, gli sfiorò la schiena: era solido, era vivo. Ed era tiepido. Oh bel cagnolino! Oh se aveva ragione, il malinconioso tacchino! Ma... perché si avvolgeva su se stesso come un turbine? Cercò di fermarlo, fermati cagnolino, ti verrà il capogiro, ma sempre quello vorticava furioso come un meccanismo. Poco più in là, un altro cagnolino saltellava su e giù come avesse delle molle sotto le zampe, su e giù, su e giù, un meccanismo anche lui. Un altro era agitato da uno spasmo epilettico, un altro, immobile come una pietra, mugolava all’infinito un invariato lamento. Angosciata, la principessa si volto versò i due cavalieri: proprio in quel momento, consegnando il suo falcone al cavalie-re rosso, il cavaliere nero diceva: “Eccovi il mio segreto, innominabile e torbido come dev’essere”. Ricevutolo senza parole sul proprio braccio, il cavaliere rosso proseguì nella sua direzione fino a raggiungere il luogo già occupato dal cavaliere nero, che a sua volta aveva raggiunto la precedente posizione dell’altro. Dopodiché i due cavalcarono ancora l’uno ver-so l’altro, lentamente: incontratisi a mezza strada, fu ora la volta del rosso di consegnare il falcone al nero: “Eccovi la mia colpa, inconfessabile e oscena”. E ancora si ripeté la dinamica precedente, ancora il falcone fu donato dal cavaliere nero al cavaliere rosso e poi da que-sto a quello e poi ancora e ancora. “Eccovi il mio tormento, inesorabile e atroce” udiva la principessa, “Eccovi il mio rimpianto, lancinante e struggente”, “Eccovi il mio furore, inestinguibile e cieco”, “Eccovi la mia ossessione”, andavano avanti così senza requie conse-gnandosi nel falcone il loro incubo, la loro condanna, la loro macerazione, la loro rumina-zione: così, finalmente, la principessa capì che, informate dal suo travagliato pensiero, quelle creature non solo ne avevano ereditato i dolori ma erano quei dolori, nient’altro che quello erano, ossessioni plasticizzate, proiezioni fiabesche dei grumi di che s’ingorgava il suo arroventato cervello. Per trasportarle dal limbo dell’immaginazione alla vita, per fare attraversar loro quella landa c’era voluta la forza fantastica dell’ossessione, ma a passare di qua, così, era stata quella stessa forza. E poiché la forza e la debolezza di quella forza erano la ripetizione, tutte le creature ripetevano a oltranza gli stessi gesti, lo stesso spasmo. La principessa verificò: dopo avere arato i contadini spianavano e compattavano la terra per ararla di nuovo, e i buoi ruminavano le loro stesse erbose deiezioni. Si avviò verso i due cavalieri cercando di richiamarne l’attenzione, ma quelli seguitavano imperterriti nei loro scambi: “Eccovi la mia desolazione”, “Eccovi il mio assillo aspro e puntuto”, “Eccovi la mia chimera”, “Eccovi la mia nera disperazione”.
“Datelo a me!” gridò la principessa alludendo al falcone, “me ne incarico io, è mio quel tormento, ve ne libero io”, ma i due cavalieri non fecero mostra d’udirla. Allora si gettò fra le zampe dei cavalli, ma questi la evitarono senza alterare minimamente la loro andatura. Di colpo capì che non sapeva cosa farsene di creature che non la riconoscessero come madre e non la accogliessero come sorella, capì che in tutta quella vicenda gli unici interlocutori sinceri erano stati il corvo e il tacchino. “Tacchinoooo!” gridò disperata, ma nessuno rispose. Quel vecchio, malinconico, aristocratico uccello se n’era andato chissà dove. Allora pensò al corvo e si rese conto della propria scelleratezza, “Corvo, corvo, perdonami, corvo mio” gemeva, “corvo morto dell’orto perdona il mio torto, corvo curvo e torvo ti voglio risorto”: e mentre biascicava le sue nenie, vagheggiò l’idea che tuttora la tiene: rapire ai cavalieri il falcone, sopprimerlo, seppellirlo nell’orto perché si rideterminasse in rapa, quindi seppellir quella rapa perché ne sortisse quel corvo.
Ed è qui che noi, da molto tempo ormai, l’abbiamo abbandonata, perché non abbiamo voluto consumarci con lei. Non sappiamo a che punto del suo ambizioso progetto la princi-pessa sia giunta: solo sappiamo che ella non si arrende e non si arrenderà, che stagione dopo stagione insiste nell’opera transitiva; e finalmente, che a ogni nuovo tentativo i suoi tic crescono di numero e di varietà, tanto che, forse, se il miracolo della creazione avverrà non sarà nell’orto, ma nel devastato e cangiante campo della sua faccia.
Commissionato dall’istituto Trentino di Cultura in occasione della rassegna “Mesi d’autore”, questo racconto venne rappresentato a Trento i130 ottobre 2003 (voce recitante: Alessio Kogoj; musica: Roberto Di Marino; immagini: Hugo Munoz), quindi pubblicato sulla rivista dell’istituto («Comunicare / Letterature Lingue», 4, 2004). Ringrazio l’Istituto e in particolare l’amico Amedeo Savoia per avermi concesso di ripubblicarlo in questa sede.
“Che semini, bella principessa?” le chiese il corvo.
“Semino rape: noi si semina rape: son semi di rapa rapiti alla morte, mi pare”.
“Avrei vaghezza di saperne di più, sulla rapa”.
“Rapa è quella da cui non puoi cavar sangue, imparammo: per questo io che affiso in alto e lontano lo sguardo ho deciso che caverònnelo. Deucalione e Pirra restaurarono l’umanità seminando pietrame, non potrò io suscitare la vita in rapis per rapas?”
“La vita di rape, ciò è sì” precisò il corvo.
“No, la vita sanguigna dell’uomo! La vita-vita, la nostra animale, la mia razionale!” si infervorò la principessa, che come le capitava in questi casi si abbandonò a una serie impres-sionante di tic nervosi, dei quali si liberò lentamente solo dopo averli ritmati.
“Domina gli strabuzzamenti nel metro siccome poetessa” pensò il corvo, ma se lo tenne per sé.
“Allora, la rapa”, riprese la principessa dopo aver avuto ragione delle sue smorfie: “tu vedrai che la rapa è piena e compatta, ed è dura: ma insieme è sugosa: non solo, ma il suo miracolo risiede in certa sua interna trasparenza, come di madreperla: e vi discerni, se affi-si lo sguardo, un sottile ricamo di venature, talquale la filigrana. Questa è la rapa, misteriosa e ambigua, ma poi... tutto questo mistero, questi arabeschi, la sua iridescenza... ohibò, tutta questa bellezza rimane lì, sterile, inattuata come un simbolo vuoto, senza sangue, perché per definizione la rapa non è suscettibile di sangue: per questo io...
“Susciterollo!” terminò il corvo, contagiato da tanto entusiasmo.
“Al dio degli orti piacendo”, sospirò la principessa, cui non piaceva condividere il proprio entusiasmo con nessuno.
Venuta la stagione del raccolto, la principessa tornò all’orto e con un vezzoso puntalino d’argento incominciò a smuovere zolle. Come apparve una rapa la afferrò, la sradicò, le soffiò via la terra, dopodiché, tenendola davanti al volto, l’apostrofò così:
“Non deludermi, o rapa. Tu sei potenza conchiusa e inespressa, tu consisti in te stessa di te paga e in te quieta: tu semplice, tu di te complice implicita in te: io però qui ti sollecito per-ché mi è lecito e lìbito, sì, ti esorto all’esplicazione compiuta, all’attuazion delle forme, ti voglio discontinua al tuo essere rapa, ti voglio audace, sfrenata, voglio vederti rischiare la tua entelechia traducendoti in forme a te nuove, voglio che tu corra l’avventura del mondo per tornare un giorno, chissà, a essere rapa dopo essere stata unicorno, falcone, bambino, salamandra, balena, e allora rapa più rapa, non rapa per cieca necessità di natura ma per elezione e per sazietà, rapa vera, rapa trionfante sul mondo attraversato e saputo, sicché, sù, pochi indugi, determinati!”
La rapa non si determinò.
“Stupida rapa!” inveì la principessa, che provò con un’altra rapa, e poi con un’altra e un’altra ancora.
“Non si determinano”, chiosò il corvo.
“E credo saperne il perché”, proseguì la principessa. “Il fatto è, lo vedi anche tu, che le rape non hanno gambette e braccine come le radici della mandragola. Dunque starà a me praticargliele per indicar loro la via”.
Detto fatto, con un coltellino prese a intagliar le rape a una a una, sagomandole quale a forma di uccello, quale di cavallo e quale di uomo e di donna. Dopodiché, sotto lo sguardo scettico del corvo, le riseppellì nella terra.
Arrivato il plenilunio la principessa tornò al campo, ma dopo averlo dissodato trovò solo marciume: le rape non avevano sopportato le mutilazioni, e lungi dal trarne auspicio determinativo si erano penosamente corrotte: e solo ne godevano i vermi.
“Rape rape, ortaggi maledetti ortaggi delusivi, io vi trasformerò, vel giuro, in organi musivi” canticchiò la principessa come se la cosa non la interessasse più tanto, dopodiché rientrò nel suo castello. Passò un anno e rivenne il tempo del seminare: e ancora il corvo vide l’infelice donzella avvicinarsi all’orto con un cestino pieno di semi, ancora la vide spargere i semi con gesto stilizzato. Poi non vide più niente, perché la principessa, voltatasi con un balzo, lo trafisse con il suo spadino.
“Così non m’aduggerai più con i tuoi commenti”, disse la trista al cadaverino, “e così, soprattutto, servirai a qualcosa”.
Ciò detto lo afferrò per le zampe, e tenendolo sollevato lo scrollò andando su e giù per l’orto, in modo che il sangue sgocciolasse su tutte le zolle.
“Per cavar sangue alle rape”, pensò, “alle rape dar sangue: ed esse te lo restituiranno rico-noscenti, lo riconosceranno e lo imiteranno: lo produrranno: si vorranno sanguigne e que-sto sarà, tararà, l’orto della cupidigia del sangue, il porto dell’ingordigia sarà, l’orto del corvo morto, l’orto del corpo vivo”.
Nelle notti seguenti la principessa sognò cavalieri e cavalli che spuntavano dalla terra disimplicandosene lentamente, e levrieri e bracchetti e fagiani e falconi, tutte creature magnifiche di cui mai si vide l’eguale, i cavalli erano i più maestosi e i più veloci, i falconi ave-vano lo sguardo più acuto che mai rapace vantò, le donne avrebbero fatto innamorare i re di tutto il mondo, e i cavalieri, beh, i cavalieri innamoravano lei. E quando di mattina si recava all’orto impaziente di un segno di quella crescita, affisando lo sguardo alla terra, ora ricoperta di una bella erbettina, le sembrava che si muovesse qualcosa, che qualcosa da sotto spingesse per guadagnare la luce: ma era solo il vento, che accarezzava l’erba e i fio-relli. Ma un mattino si svegliò urlando, perché aveva appena fatto un sogno diverso dal solito. Aveva sognato che le creature nate dall’orto erano tutte nere, bituminose come se fos-sero state attuffate nella pece, e coperte di penne così lunghe e sottili da sembrare le setole di uno di qui grossi animali del Nord, “Perché siete così?” gridava nel sogno, “Io non vi volevo così! “: allora un cavaliere le si avvicinò, e aprendo una bocca nera in cui nera era anche la lingua e neri i denti le disse: “Iamo eii ecché ci ai uciito egl’angue egl’ovvo”. “Cosa?!” chiese la principessa inorridita da quel gorgogliamento di suoni. “Siamo neri perché ci hai nutrito del sangue del corvo” tradusse un merlo che sorvolava il campo in quel momento, “ma me non mi prendi”: e fu lungi.
Spaventata dal sogno, la principessa si procurò dell’acqua benedetta, e con quella asperse l’orto zolla per zolla pronunciando formule magiche. Dopodiché si dispose fiduciosa all’attesa: ma chi la incontrò in quel periodo giura di averla vista in preda a una spaventosa gal-leria di tic nervosi, alcuni dei quali di nuovissima specie. Dicono anche che in quello stesso torno di tempo ella si intrattenesse in dotte conversazioni con il conestabile di Tournon, il quale, da buon lettore del libro delle etimologie di Isidoro di Siviglia, la rassicurava sul fatto che, siccome in latino “orto” significava nascita, l’esito dell’operazione sarebbe stato ot-timo.
“E rapa, da dove viene?”
“Rapa da rapio, lo dice il nome”.
“E dunque?”
“Rapita alla materia inanimata, la rapa si sublima in un rapimento mistico: è l’ònoma, l’ònoma!”
Rivenuto il tempo del raccolto, la precaria fanciulla tornò all’orto gonfia di malumore. “Stai incominciando a diventarmi antipatico, orto: bada bene di non deludermi, bada!” esclamò; poi, mordendosi rabbiosamente l’interno delle guance, incominciò a recuperare non già le rape, ma ciò che nelle rape doveva essersi suscitato. La prima cosa che emerse, tuttavia, era ancora una rapa: non integra e pura, però, perché nel suo volume si apriva un occhio: un unico occhio cigliato, con l’iride cilestrina. Orripilata, la principessa scagliò il mostro lon-tano, non tanto però che quello non continuasse a guatarla. La seconda rapa esibiva una bocca piena di denti marci; la terza un naso, mentre la quarta... la quarta era catafratta di unghie come uno di quei dolci soriani coperti di mandorle. Ma fu solo dopo aver visto cosa esibiva la quinta che la principessa fuggì, perché si trattava di cosa che lo sguardo di una gentildonna non può sopportare: né noi riferire.
Dunque l’esperimento era riuscito solo in piccolissima parte: le rape si erano espresse, sì, avevano protruso un gibbo, un lobo, una cresta, si erano aperte in fissure, avevano timi-damente tentato un fisionomia, ma al di là dei patetici conati che n’eran sortiti, nulla. Nulla! Poteva chiamarsi vita, quella? Erano creature degne di diportarsi alla luce del giorno, erano... sì, erano forse forme degne di un nome? Rape maledette, orride rape! Dov’erano i suoi cavalieri, le allegre brigate, le cacce con il falcone, dove? Al punto cui era, si sarebbe accontentata anche di una famiglia di villici, di un paio di buoi, di una capra, di un pollo, possibile che non sapesse ricavar nulla da quel lembo di terra? I ciechi lombi dei più ottusi fra gli uomini erano capaci di generare la vita, e non lo era lei che tanto aveva studiato, che commerciava con le stelle e con l’oltre come nessuna? Si tormentava così, quand’ecco da un cespuglio comparve un grosso tacchino. Guardandolo, la principessa capì subito che stava per rivolgerle la parola.
“Appunto”, disse infatti quello, “il tuo problema è che pensi troppo alle cose alte, alle cose ultime”.
“E a quali dovrei pensare, secondo te?” rispose la principessa piccata. “A quelle di qua, a partire dalla tua testa”.
“La mia testa?”
“Le sue interne circonvoluzioni, gli ingorghi, i grumi psichici ti son violenza al pensiero: ma anche tua forza, a saperli seguire”.
“Come puoi dirmi una cosa simile, tu, un pennuto da ingrasso?”
“Leggi nei libri, e troverai la mia immagine rubricata sotto il titolo della follia, e della sagace malinconia”.
“Tu dunque...”
“Inverti lo sguardo, abbraccia l’insieme dei tuoi pensieri e dei tuoi dolori, entra nella tua testa e osservane le anse, gli svolti, le ambagi tenebricose: lì c’è il disegno, il reticolo di che istruire le rape...”
“L’interna stampa di che informar la materia, ma certo! Se aveva ragione, il vecchio Aristotile!”
Così, rinfrancata, la principessa seminò al tempo debito un’altra derrata di rape, e durante la crescita si concentrò soltanto in se stessa: anzi per con-centrarsi meglio non si abbigliò più, non si pettinò più, non si lavò più, fino a ridursi una strega: cosa che era e non era, e adesso compiutamente fu. Nel suo inselvatichirsi, vagando per le sale del palazzo o giacendo in un letto ridotto a coviglio, la principessa ritrovò tutte le sue arsure e i tremori, tornò a essere una povera cosa tremante e un mondo violato, riseppe l’antica stortura. In tanto male le sue ossessioni brillavano come serpenti che avessero appena mutata la pelle: lei ne conobbe la testa e la coda e decifrò il grafismo delle loro circonvoluzioni, ne perlustrò le tane piene di svolte e di passaggi segreti, raccolse meravigliosi cristalli mescolati alle ossicine dei loro pasti. Poi, esausta, uscì da se stessa e pensò con intensità una rapa: la pensò disegnata, definita dalle forme incontrate nella propria testa, poi la pensò riempita delle proprie memorie, poi agitata dai propri tremori: finalmente le diede un nome, il nome di un bambino di cui si era innamorata quando era anch’ella bambina. Con questo procedimento attribuì tanti altri nomi ad altrettanti auspici mentali di rapa, e intanto si abbandonava ai suoi trallalà e dinghe-dinghe-dinghe, sempre con gli occhi chiusi, sempre più scarmigliata e selvaggia.
L’alba del giorno fissato per il raccolto sognò il tacchino con il collo squarciato. “Io muoio”, le diceva rantolando il sapiente animale, “e chi mi uccide sei tu, per mezzo delle tue creature”: dopodiché una muta di cani feroci gli fu sopra e lo divorò brano a brano. Impressionata ma non pentita, la principessa si affrettò all’orto, e quale non fu la sua sorpresa nel vede-re che le rape non c’erano più, al loro posto vaneggiando crateri. Tutt’intorno all’orto, in compenso, ferveva la vita: da una parte una contadina zappava, e due robusti villici aravano con un carro trainato da due buoi e due cavalli; dall’altra parte due signori a cavallo si venivano incontro con aria cortese: il più anziano dei due aveva un falcone sul braccio, e dal suo sguardo si capiva che pur amando moltissimo il proprio rapace ne avrebbe fatto dono all’altro cavaliere. Più in là ancora si vedevano delle darne, e cagnolini guizzanti, e quaglie, fagiani, usignuoli. Possibile che...? In quei verzieri non si era mai visto nessuno, dunque... Per un attimo la principessa rifiutò quel pensiero, ma era solo per poterlo far suo con accresciuta ingordigia. Sì! La vita! Creature sue, stirpe fatta da lei!
“Siete miei, siete miei!” gridò correndo fra quelle forme, “Onorate in me la madre matrona la mater matuta! Oh demiurgia delle rape, oh ebrezza, oh mio vanto!”
Invasata, esaltata, continuò a correre nei verzieri fino a quando non rimase senza respiro. Allora, piegata su se stessa, si rese conto di colpo che nessuna di quelle creature l’aveva degnata di uno sguardo. Il dubbio che si trattasse di vacui fantasmi la raggelò. Come poteva essere? Quell’aratro arava, quei buoi ansimavano... e i buchi stessi nell’orto delle rape, la terra smossa... no, non potevano essere illusioni, ma doveva sincerarsene. Si avvicinò a un cagnolino, lo chiamò: continuando a correre in cerchio quello non diede segni di essersi accorto di lei. Si avvicinò ancora di più, gli sfiorò la schiena: era solido, era vivo. Ed era tiepido. Oh bel cagnolino! Oh se aveva ragione, il malinconioso tacchino! Ma... perché si avvolgeva su se stesso come un turbine? Cercò di fermarlo, fermati cagnolino, ti verrà il capogiro, ma sempre quello vorticava furioso come un meccanismo. Poco più in là, un altro cagnolino saltellava su e giù come avesse delle molle sotto le zampe, su e giù, su e giù, un meccanismo anche lui. Un altro era agitato da uno spasmo epilettico, un altro, immobile come una pietra, mugolava all’infinito un invariato lamento. Angosciata, la principessa si volto versò i due cavalieri: proprio in quel momento, consegnando il suo falcone al cavalie-re rosso, il cavaliere nero diceva: “Eccovi il mio segreto, innominabile e torbido come dev’essere”. Ricevutolo senza parole sul proprio braccio, il cavaliere rosso proseguì nella sua direzione fino a raggiungere il luogo già occupato dal cavaliere nero, che a sua volta aveva raggiunto la precedente posizione dell’altro. Dopodiché i due cavalcarono ancora l’uno ver-so l’altro, lentamente: incontratisi a mezza strada, fu ora la volta del rosso di consegnare il falcone al nero: “Eccovi la mia colpa, inconfessabile e oscena”. E ancora si ripeté la dinamica precedente, ancora il falcone fu donato dal cavaliere nero al cavaliere rosso e poi da que-sto a quello e poi ancora e ancora. “Eccovi il mio tormento, inesorabile e atroce” udiva la principessa, “Eccovi il mio rimpianto, lancinante e struggente”, “Eccovi il mio furore, inestinguibile e cieco”, “Eccovi la mia ossessione”, andavano avanti così senza requie conse-gnandosi nel falcone il loro incubo, la loro condanna, la loro macerazione, la loro rumina-zione: così, finalmente, la principessa capì che, informate dal suo travagliato pensiero, quelle creature non solo ne avevano ereditato i dolori ma erano quei dolori, nient’altro che quello erano, ossessioni plasticizzate, proiezioni fiabesche dei grumi di che s’ingorgava il suo arroventato cervello. Per trasportarle dal limbo dell’immaginazione alla vita, per fare attraversar loro quella landa c’era voluta la forza fantastica dell’ossessione, ma a passare di qua, così, era stata quella stessa forza. E poiché la forza e la debolezza di quella forza erano la ripetizione, tutte le creature ripetevano a oltranza gli stessi gesti, lo stesso spasmo. La principessa verificò: dopo avere arato i contadini spianavano e compattavano la terra per ararla di nuovo, e i buoi ruminavano le loro stesse erbose deiezioni. Si avviò verso i due cavalieri cercando di richiamarne l’attenzione, ma quelli seguitavano imperterriti nei loro scambi: “Eccovi la mia desolazione”, “Eccovi il mio assillo aspro e puntuto”, “Eccovi la mia chimera”, “Eccovi la mia nera disperazione”.
“Datelo a me!” gridò la principessa alludendo al falcone, “me ne incarico io, è mio quel tormento, ve ne libero io”, ma i due cavalieri non fecero mostra d’udirla. Allora si gettò fra le zampe dei cavalli, ma questi la evitarono senza alterare minimamente la loro andatura. Di colpo capì che non sapeva cosa farsene di creature che non la riconoscessero come madre e non la accogliessero come sorella, capì che in tutta quella vicenda gli unici interlocutori sinceri erano stati il corvo e il tacchino. “Tacchinoooo!” gridò disperata, ma nessuno rispose. Quel vecchio, malinconico, aristocratico uccello se n’era andato chissà dove. Allora pensò al corvo e si rese conto della propria scelleratezza, “Corvo, corvo, perdonami, corvo mio” gemeva, “corvo morto dell’orto perdona il mio torto, corvo curvo e torvo ti voglio risorto”: e mentre biascicava le sue nenie, vagheggiò l’idea che tuttora la tiene: rapire ai cavalieri il falcone, sopprimerlo, seppellirlo nell’orto perché si rideterminasse in rapa, quindi seppellir quella rapa perché ne sortisse quel corvo.
Ed è qui che noi, da molto tempo ormai, l’abbiamo abbandonata, perché non abbiamo voluto consumarci con lei. Non sappiamo a che punto del suo ambizioso progetto la princi-pessa sia giunta: solo sappiamo che ella non si arrende e non si arrenderà, che stagione dopo stagione insiste nell’opera transitiva; e finalmente, che a ogni nuovo tentativo i suoi tic crescono di numero e di varietà, tanto che, forse, se il miracolo della creazione avverrà non sarà nell’orto, ma nel devastato e cangiante campo della sua faccia.
Commissionato dall’istituto Trentino di Cultura in occasione della rassegna “Mesi d’autore”, questo racconto venne rappresentato a Trento i130 ottobre 2003 (voce recitante: Alessio Kogoj; musica: Roberto Di Marino; immagini: Hugo Munoz), quindi pubblicato sulla rivista dell’istituto («Comunicare / Letterature Lingue», 4, 2004). Ringrazio l’Istituto e in particolare l’amico Amedeo Savoia per avermi concesso di ripubblicarlo in questa sede.