Riga n.
Alberto Arbasino
Pedro Lemebel
La fata dell'angolo

Come scorrere una garza sul passato, una tenda bruciacchiata che sventola alla finestra aperta di quella casa nella primavera dell’86. Un anno marchiato a fuoco dai copertoni fumanti per le strade di Santiago, schiacciata dal pattugliamento. Una Santiago che si svegliava al suono delle pentole sbattute nei cortei, ai lampi dei black out, per i cavi elettrici scoperti, esposti alle catene, alle scintille. Poi il buio pesto, le luci di un camion blindato, i fermo lì stronzo, gli spari e le corse a perdifiato, come nacchere di metallo che frantumavano le notti di feltro. Quelle notti funeree, trafitte dalle grida, dall’incessante «Cadrà», e da tanti, tanti comunicati dell’ultimo minuto, sussurrati dall’onda sonora del «Diario de Cooperativa». Poi c’era la casetta macilenta, un angolo di tre piani con una scala vertebrale che portava in soffitta. Da lì si poteva vedere la città in penombra, coronata da un velo torbido di polvere. Era una piccionaia, una ringhiera per stendere le lenzuola, le tovaglie e le mutande inalberate dalle mani marimbe della Fata dell’angolo. Nelle sue mattine di fine-stre spalancate, cantava «Ho paura torero, ho paura che stasera il tuo sorriso svanisca».
Tutto il quartiere sapeva che il nuovo vicino era così, una novellina dell’isolato un po’ trop-po fissata con quella costruzione in rovina. Una mammoletta dalle sopracciglia increspate che venne a chiedere se per caso affittavano quel rudere terremotato all’angolo. Quel sipa-rietto tenuto in piedi soltanto dall’arrivismo urbano di tempi migliori. Chiusa da tanti anni, così piena di sorci, fantasmi e scarafaggi che la fata fece sloggiare implacabile, con il piu-mino in una mano e la scopa nell’altra, spazzando ragnatele con la sua energia da checca, intonando in falsetto Lucho Gatica, tossendo «Besame mucho» nelle nuvole di polvere e ciarpame che accumulava sul bordo del marciapiede. Gli manca solo il fidanzato, bisbigliavano le vecchie delle case di fronte, seguendo i suoi movimenti da colibrì alla finestra. Però è simpatico, dicevano, ascoltando le sue canzoni fuori moda, seguendo con la testa il tempo di quelle melodie del passato che svegliavano tutto il vicinato. Quella musica chiassosa che la mattina tirava giù dal letto i mariti nottambuli, i figli scioperati che si arrotolavano nelle lenzuola, gli studenti pigri che non volevano andare a scuola. Il grido di «Alleluia» intonato da Cecilia, una cantante in voga, era una sveglia, un canto di galli all’alba, un fragore musi-cale che la fata alzava al massimo volume. Come se avesse voluto condividere con il mondo intero il testo grossolano che strappava dal sonno i vicini con quel «E… Tu mi prendeeraii per maanooo».
Così la Fata dell’angolo in men che non si dica, entrò a far parte della fauna sociale di quella Santiago di mezza tacca che si spulciava tra la disoccupazione e il quarto di zucchero preso a credito all’emporio. Una botte di quartiere, epicentro delle chiacchiere e dei com-enti sulla situazione politica del paese. Gli effetti dell’ultima protesta, le dichiarazioni dell’opposizione, le minacce del Dittatore, le elezioni di settembre. Che ora sì, che non ce n’è, che l’86 è l’anno. Che tutti al parco, al cimitero, con sale e limone per resistere ai lacrimogeni, e tanti, tanti comunicati strillati dalla radio permanente.

QUI COPERATIVA,
VI PARLA MANOLA ROBLES

Però lei non aveva testa per la politica. Anzi la spaventava ascoltare quella radio che dava solo cattive notizie. Quella radio che si sentiva ovunque con le sue canzoni di protesta e la sua tiritera allarmista che teneva tutti con il fiato sospeso. Lei preferiva sintonizzarsi sui programmi della nostalgia: Al ritmo del cuore, Per chi è stato ragazzo, Notti di quartiere. E così trascorreva pomeriggi interi, ricamando enormi tovaglie e lenzuola per qualche vecchia aristocratica che pagava bene il talento da aracnide delle sue mani. Quella casa prima-verile dell’86 era il suo nido. Forse il suo unico amore, l’unico spazio tutto per sé che ebbe in vita sua la Fata dell’angolo. Ecco perché si era affannata a decorare le sue pareti come una torta nuziale. Popolando ogni angolo di uccelli, ventagli, intrecci di nontiscordardimé, e quegli scialli di seta drappeggiati sul pianoforte invisibile. Quelle balze, pizzi e nastri di tulle avvolti sui cassoni che fungevano da mobilia. Quelle casse così pesanti, che le aveva affidato quel giovane incrociato all’emporio, quel ragazzo così bello che le aveva chiesto il favore. Sono solo libri, libri censurati, le aveva detto, con quella bocca di giglio bagnato. Con quel tono così macho che non riuscì a dirgli di no e l’eco delle sue parole continuò a risuonarle nella testa di uccellina ossigenata. Perché farla lunga, insomma, se le aveva det-to di chiamarsi Carlos qualcosa, di studiare non so che, in non so quale università, e le ave-va mostrato un documento che lei neanche guardò, catturata dalla sfumatura violacea di quegli occhi.
Le prime tre casse le lasciò in corridoio. Però lei protestò che lì ingombravano, che le por-tasse in camera da letto, le serviva giusto un tavolino per appoggiarci la radio. Se non è troppo il disturbo, perché la radio è la mia unica compagnia, disse arrossendo, con una faccia da agnellina orfana, fissando le stille di sudore che gli imperlavano la fronte. Le altre le distribuì nello spazio vuoto della sua immaginazione, come se stesse allestendo un set cinematografico, dicendo: Di qua, Carlos, di fronte al finestrone. No, Carlos, non così vicine, che sembrano una bara. Più al centro, Carlos, come tavolini. In piedi no, Carlos, meglio capovolte o di lato, Carlos, per separare gli ambienti. Più avanti, Carlos, più a destra, scusa, volevo dire a sinistra. Sei stanco? Riposiamoci un po’. Vuoi un caffè? Così, come un calabrone ronzante, girava per la casa avvolto nella sua stola di Sì, Carlos. No, Carlos. Forse, Carlos. Non so, Carlos. Come se a furia di ripeterlo il suo nome si ricamasse nell’aria cullata dall’eco della sua vicinanza. Come se il pedale di quella lingua mancina si fosse incantato su quel nome, chiamandolo, lambendolo, assaporando quelle sillabe, masticandole, riempiendola tutta di quel Carlos così profondo, di quel nome così ampio da lasciarla senza fiato, rannicchiata tra la C e la A di quel C-arlos che illuminava con la
sua presenza tutta la casa.
Nel frattempo continuavano ad arrivare casse su casse, sempre più pesanti, che Carlos trasportava con i suoi muscoli virili. E la fata inventava nuovi mobili, li decorava con federe e cuscini per nascondere il segreto di pulcinella dei sarcofagi. Poi ci furono le riunioni, a mezzanotte, all’alba, quando il quartiere era un coro di ronfi e peti che tuonavano a briglia sciolta la marsigliese del sonno. In pieno acquazzone, gocciolanti, arrivavano questi amici di Carlos e si riunivano in soffitta. Uno rimaneva all’angolo facendo finta di niente. Carlos le aveva chiesto il permesso, socchiudendo le ciglia dei suoi occhi da lince. Sono compagni di università, non sanno dove andare a studiare, e la tua casa e il tuo cuore sono così gran-di. Come rifiutare dunque se il fioretto l’aveva tutta imbesuita, se si bagnava di sudore ap-pena si avvicinava. Oltretutto, i ragazzi che riuscì a intravedere erano giovanotti educati e di bell’aspetto. Potevano passare per amici, pensava lei servendo il caffè, lucidandosi le labbra con la punta della lingua, canticchiando le canzoni d’amore che trasmetteva la radio: «Mi hai legato a te e adesso mi domando» e tutte quelle strofe frivole che distraevano i ragazzi dalla macchinazione delle loro strategie. Allora quelli le toglievano l’ispirazione cambiando stazione e sintonizzandosi su quell’orrore di notiziario.

QUI COOPERATIVA: SI SEGNALANO GRAVI INCIDENTI E BARRICATE NELL’ALAMEDA BERNARDO O’HIGGINS.

Con l’arrivo del caldo tiepido di agosto, la casa era un gioiellino. Una scenografia della Pergola de las Flores improvvisata con scarti hollywoodiani e tanta buona volontà. Un palazzo orientale, con tende di seta crespa appese al soffitto e vecchi manichini rinati angeli dell’apocalisse o centurioni custodi della sua fantasia da femminella tulipano. Le casse e i cassoni si erano trasformati in comodi troni, poltrone e divani, dove posavano le ossa le poche fate amiche che venivano a trovarla. Un gruppetto sparuto di sbandate che passavano a prendere il tè e si dileguavano prima che arrivassero «gli uomini della signora », pre-tendendo scherzosamente di essere presentate a quell’arsenale di muscoli ammiratori della padrona di casa. Ma lei tanto stupida non era, raccoglieva le tazzine, spazzava le briciole e accompagnava le amiche alla porta, dicendo che i ragazzi non ci tenevano a conoscere altri froci.
Così, le riunioni e le sfilate di uomini nella casina ingioiellata divennero sempre più fre-quenti, sempre più urgenti, un continuo viavai sulla scala scalcinata che minacciava di ca-dere a pezzi sotto il trotto di quei giovani. A volte neanche Carlos poteva salire in soffitta e faceva del gran cinema per impedirle di vedere i visitatori in incognito. Neanche lui poteva partecipare a quelle riunioni e le bloccava il passaggio quando lei amabilmente curiosa si offriva di portare il caffè. Perché devono morire di freddo lassù, diceva fissando il volto incorruttibile di Carlos. E poi perché non posso salire, se questa è casa mia. Allora Carlos ab-bassava la guardia e prendendole un braccio affondava lo sguardo da falco nella sua inge-nuità da colomba. Sono cose da uomini, lo sai che non desiderano essere disturbati quando studiano. Tra poco hanno un esame importante. Guarda, siediti, parliamo. Carlos era così buono, dolce, così gentile. E lei era così innamorata, così presa, così sonnambula in quelle notti che passava a parlare con lui aspettando la fine delle riunioni. Lunghe ore di silenzio a guardare le sue gambe stanche abbandonate nel raso fucsia dei cuscini. Un silenzio vellutato sfiorava la sua guancia azzurrina e non rasata. Un silenzio denso lo stordiva, la testa ciondolante dal sonno. Un silenzio letargico di piume calava sulla testa pesante come il piombo, ma lei attenta, lei tutta bambagia, tutta delicatezza, sistemava un guanciale di spugna per farlo stare comodo. Poi la morbidezza, la levità, il tocco di un gesto femmineo gli sfiorava la testa. Allora il sussulto, la contrazione per quel tocco elettrico lo svegliava, e si tirava su di scatto, come se avesse perso qualcosa di importante, domandando Che c’è? Che succede? Niente, ti sei addormentato. Vuoi una coperta? Sì. Ancora non hanno finito? Non lasciarmi dormire, parlami di te, della tua vita. C’è dell’altro caffè?
Così, separati da telai di fumo, dal fumare e fumare tirando l’alba, lei tesseva l’attesa, imbastiva scampoli di memoria, piccoli ricordi fugaci nell’accento musicale della sua voce. Ritagli di vagabondaggi postribolari per vicoli senza nome, per strade sporche, tramutate come per incanto in ‘sentieri tropicali’. Il suo passo maricondo batteva il tempo della notte finché magicamente appariva un compagno di ballo, sostegno del suo destino per qualche ora, per qualche moneta, per trovare sollievo da quel freddo bastardo a tutto bollore. A suon di strusciate randagie, per vendicarsi della vita smorzando con il sesso la mala sorte. E poi, mutande irrigidite, un calzino abbandonato, una bottiglia vuota senza messaggio, senza rotta, né isola, né tesoro, nessuna mappa a guidare il suo cuore migratore. Il suo cuore agitato di piccolo colibrì, rimasto orfano da bambino alla morte della madre. Il suo cuore nervoso di scoiattolo impaurito dal grido del padre, dalle cinghiate sulle natiche per educarlo. Diceva che mi avrebbe reso uomo, che per questo mi picchiava. Che era stufo di vergognarsi, di litigare con i suoi amici del sindacato che gli gridavano che gli ero venuto sbagliato. A lui così maschio, così esperto con le donne, così affascinante con le puttane, così ubriaco quella volta che mi mise le mani addosso. Così ardente il suo corpo da elefante che mi inchiodava, mi soffocava nella penombra di quella stanza, nella disperazione di muovere le ali come un pollo impalato, come un piccione spiumato, senza la forza o il coraggio di resistere all’impatto del suo nerbo duro che mi infilzava. E poi, lo stesso sapore amaro del non mi ricordo, lo stesso calzino abbandonato, lo stesso lenzuolo spruzzato di petali rossi, lo stesso ardore, la stessa bottiglia vuota con il suo sos che naufraga nell’acqua rosata del lavandino.
Io ero un finocchio che mia madre gli aveva lasciato come castigo, diceva. Per questo mi picchiava duro, obbligandomi a litigare con gli altri bambini. Ma non sono mai riuscito a difendermi, neanche con quelli più piccoli di me, mi picchiavano anche loro e correvano trionfanti con il cioccolato del mio naso sui pugni. Più di una volta lo avevano convocato a scuola, gli avevano suggerito di farmi vedere da uno psicologo, ma lui rifiutava. La professoressa diceva che un medico poteva arrochirmi la voce, che solo un dottore poteva aggiustare quella camminata sulle uova, quei passetti fri fri che facevano ridere i bambini e le distraevano la classe. Ma lui rispondeva che erano tutte stronzate, che ci voleva il servizio militare per raddrizzarmi. E così, appena compiuti i diciotto anni andò ad arruolarmi, e chiese a un sergente suo amico di prendermi nel suo reggimento. A Carlos era passato il sonno e sorseggiava il caffè a testa bassa. Quindi hai fatto il servizio militare? Domandò, fissando le mani da allodola posate sulle ginocchia. Sei pazzo, neanche per sogno. Sono scappato di casa e non l’ho più visto. Il suono dei passi in soffitta indicava che la riunione era terminata. Domani mi racconti il resto, disse Carlos con aria complice, estendendosi in tutta la sua altezza e grandezza, mentre lei lo contemplava dal basso giocherellando con le pieghe della tenda.

Vuoi sapere tutto del mio passato.
Per capire se ti puoi fidare.
Rinunciare alla vita e non morire,
questo è amore, non quello che c’è in te-e.

Estratto da Tengo miedo torero, 2001. Traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi in Ho pau-ra torero, Marcos y Marcos, Milano 2004.
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