Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Belpoliti
Il vagabondare anticlassico di Piero Camporesi

Nel corso di questa estate il pane ha raggiunto il ragguardevole prezzo di mille lire al chilo, comportando un conseguente aumento dei punti della scala mobile (ogni cento lire di aumento del pane corrispondono ad uno scatto di 2,2 punti). Ma quanto è presente oggi il pane, come alimento, sulle nostre tavole? Negli anni ’60 era stato, in molto ceti e tavole, messo al bando, sostituito dall’esile grissino. La pubblicità con i suoi miti dietetici della “leggerezza” e del “sentirsi giovani” aveva dichiarato battaglia al “grosso pane”. Questi miti, “elaborati in coerente sintonia col processo di sviluppo selvaggio, in cui la fabbrica, con i suoi miti programmati e ripetitivi, influenzava potentemente il modello alimentare” (P. Camporesi, Alimentazione, folclore, società, Pratiche Editrice), sono stati gestiti dal capitale internazionale che, in quel momento, produceva anche le nuove “linee” alimentari. Oggi invece il pane celebra il proprio trionfale ritorno, all’insegna della genuinità. Assume l’aspetto di pane di segale, di pane integrale, di pane casereccio, di pane di semola, di pane nero, in omaggio alle nuove mode alimentari, in cui all’idolatria del corpo “in linea” (“quello delle mozzarelle industriali, molto simili a sugheri omogeneizzati, liofilizzati e riconcentrati”, vero alimento polimorfo e poliespanso, “nato sotto il segno dell’isomorfia fra materie plastiche e materie alimentari”), si sostituisce quella del corpo sano e vigoroso. Insomma dalla bellezza unisex della magrezza, a quella del corpo naturale (“grasso è bello”) Così accanto ad una giusta maggior attenzione ai cibi (e l’incubo del cibo cancerogeno è sempre lì in agguato) spunta anche un doppio regime alimentare, quello feriale - lavorativo - urbano contrapposto a quello domenicale - folclorico - agrario. È la ricerca del locale casalingo, contrapposto alla mensa aziendale o self-service, oppure, per i più fortunati, la ricerca dei negozi specializzati in alimenti “naturali” da cucinare, compatibilmente con il lavoro e i suoi tempo, nella propria casa; per non parlare poi della macrobiotica e della catena di locali spuntati un po’ ovunque nell’italica penisola.

Piero Camporesi, che di questi mutamenti è un attento analista, ci ha offerto in lettura nel breve arco di alcuni mesi, due avvincenti libri: Alimentazione, folclore, società e Il pane selvaggio. In questo secondo libro Camporesi, lettore molto attento di documenti e testi antichi, ci restituisce, in omaggio a quella “storia qualitativa” che egli professa, il ritratto delle folle umane, composte da vagabondi, poveri, mendicanti e contadini che popolarono la società precapitalista, e di cui, nei libri apologetici dell’età moderna, non è quasi rimastra traccia.

La fame è il grande problema di queste folle, che, vissute nell’epoca preindustriale, “sofferenti di carenze proteiche e vitaminiche, mal protette dagli attacchi delle malattie infettive da diete precarie e inadeguate”, costituivano lo scenario allucinante di scrofolosi, infistoliti, impiagati, tignosi, gozzuti, e ventruti, idropici, dementi, pazzi, “alloiati” e “all’oppiati”, ubriachi cronici ed effimeri. Attraverso una ricostruzione attenta, e una efficace prosa a chiaro scuro lo studioso bolognese ne traccia il ritratto e ne evoca la presenza. Questo popolo sfila attraverso le pagine del libro, costantemente afflitto dalla rincorsa di “un pane sempre in fuga, inafferrabile come un incubo al rallentatore, d’interminabile durata” e spinto dalla fame anche al cannibalismo.

Nel tardo cinquecento in tutta Europa si diffonde un senso di impotenza dell’uomo a governare il proprio destino. La crisi del Rinascimento è già avviata, e le città si popolano di mendicanti, vagabondi, prostitute, poveri; è il collasso definitivo dell’orgoglioso mito della città felice.

Tra il libro dei vagabondi, pubblicato nel 1973 da Einaudi, in un’epoca di grande attenzione per tutto ciò che è irregolare, diverso, irrequieto, e Camminare il mondo, uscito postumo presso Garzanti nel 1998, quasi a siglare il passo d’addio, corrono ventiquattro anni, un quarto di secolo. Eppure Piero Camporesi non ha mai abbandonato uno degli argomenti principali dei suoi libri, quello del vagabondaggio, morbo che attanaglia, tra la fine dell’età antica e gli inizi di quella moderna, ciarlatani, gentiluomini, guerrieri, mendicanti, cantastorie, veri e falsi studenti. Leonardo Fioravanti, il medico bolognese protagonista di Camminare il mondo, ennesima controfigura di Camporesi, è anche lui un vagante, fa parte cioè di quella “popolazione flottante” che ha interessato il “manente”, lo stabile e a suo modo sedentario professore dell’Università bolognese, nonché storico dell’alimentazione e del folclore, che con la sua scrittura eminentemente letteraria - Camporesi è stato uno dei nostri migliori saggisti-scrittori, come aveva visto Manganelli - ha egli stesso percorso in lungo e in largo il mondo.

Nella galleria dei personaggi che entrano ed escono a ritmo forsennato, come nelle slapstick dei fratelli Marx o di Chaplin, meravigliosi impostori moderni, quello che ha più attirato l’attenzione dello scrittore Piero Camporesi è la figura ambivalente del cerretano, venditore brillantissimo, truffatore, spacciatore “di saponi, polveri per denti, acque profumante”, ma anche, come nel caso di Iacopo Coppa, medicastro che compare in Camminare il mondo  accanto al Fioravanti, raffinato editore delle Rime di Ludovico Ariosto.

Questa attenzione per i dropout di genio è un fatto davvero singolare perché Piero Camporesi appartiene di diritto a quella generazione degli anni Venti (Pisolini, Calvino, Sascia, Parise, Volponi, Manganelli, ecc.), composta di narratori e scrittori, ma anche di poeti, per la quale è stata decisiva l’attesa del classico, il classico moderno, che è la cifra letteraria ed esistenziale a cui questa generazione aspirava, sia in rapporto alla propria educazione ricevuta in epoca fascista, sia in riferimento agli autori che costituiscono il loro modello più o meno diretto, più o meno consapevole (Montale e Contini, Longhi e Gadda). E proprio questa generazione ha finito per sperimentare in modo differente l’esperienza di un espressionista che è diventato, con esiti diversi, la spina dorsale della loro prosa, il motivo stesso su cui si sono misurati, oltre che una originale forma di manierismo moderno.

Ma cosa c’entra con loro il burbero e in apparenza conservatore studioso romagnolo, l’editore di testi rari e strani, il commentatore dell’Artusi, il lettore vorace di scritti dimenticati negli scaffali di polverose biblioteche? Se si risale ai suoi esordi di storico della letteratua, all’epoca in cui si divideva tra l’insegnamento e la cura del Romitorio e delle Lettere di Ludovico Breme, degli Estratti di Ossian di Vittorio Alfieri - siamo a metà degli anni Sessanta - troviamo uno studioso che si esercita ai confini con l’anticlassicismo, che fiuta la presenza di una direzione espressionista discendente non dalla linea canonica della storiografia letteraria postunitaria ma da un mondo di scritture all’apparenza minori, emarginate dalle storie canoniche della letteratura italiana. L’attesa del classico almeno nella generazione a cui Camporesi appartiene, di manifesta nell’attesa del capolavoro, e questo quando già l’idea dell’assurdità di una distinzione tra autori maggiori canonici e autori minori senza canone s’era imposta nell’officina dell’Einaudi da cui Camporesi stesso proveniva.

Nel 1970 Camporesi pubblica l’introduzione a La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, lavoro pionieristico che è la prima messa a punto di quell’idea dell’indagine letteraria e storica di cui egli stesso darà prove notevoli nei libri degli anni Ottanta (altro che appuntamento emblematico: nell’epoca del riflesso e della società neo-affluente c’è almeno uno scrittore nato nei primi decenni del secolo che si occupa di corpi piagati, di pustole, di carni impassibili e paesi della fame). Nelle righe finali di quel saggio, ripreso nel 1991, il professore bolognese, serio filologo e impassibile editore, si appellava alla storia della cucina e dell’alimentazione la quale è strumento di esplorazione non solo del reale ma anche del profondo, “uno dei molti occhi che la meditazione degli uomini ha inventato per spiare nel cuore della scienza del vissuto”. Il fatto che il “conservatore” Camporesi postuli l’esistenza di una “scienza del vissuto” non è casuale, al momento che questo è esattamente ciò che fa deviare l’ineccepibile studioso dal cammino filologico verso la ricerca dei “vagantes”.

Ma chi sono i vagabondi che attraggono Camporesi? Sono i “cerretani” la cui solida arte dell’imbroglio li aveva profondamente integrati nella multiforme società medievale e che invece, con l’inizio dell’età moderna, “non trovano più le condizioni sociali, religiose, economiche e politiche che in passato avevano reso tanto florida la vecchia arte “ (Il libro dei vagabondi).

Evocando la riorganizzazione ecclesiastica della beneficenza e dell’assistenza voluta dal Concilio di Trento, Camporesi descrive, in trasparenza, le condizioni stesse della società italiana all’inizio degli anni Settanta, tra modernizzazione e razionalizzazione capitalistica, lotte sociali e prodromi terroristici, prossima caccia agli untorelli e primi sinistri scricchiolii della classe dirigente.

Leggendo oggi, col senno di poi, l’introduzione al Libro dei vagabondi, antologia di scritti in volgare e in latino, composta di testi inediti o scomprsi, si percepisce il sottile rifiuto che Camporesi prova verso la dissimulazione onesta barocca, verso la proposizione con cui Accetto definisce la sua epoca (e ciò vale anche per l’Italia di quel periodo): “si simula quello che non è, si dissimula quello che è”. Non è un caso che Camporesi sia divenuto, a partire dalla metà degli anni Settanta, non solo uno degli studiosi più seguiti dal pubblico dei lettori, ma anche un lettore di culto per quelle minoranze attive che a Bologna e dintorni meditavano sul miracolo emiliano e sul “nuovo Principe” incarnato dal Partito comunista; tuttavia con un fraintendimento capitale: quello che indusse molti di quei giovani a leggere La maschera di Bertoldo, uscito nel 1976 presso Einaudi, come un libro sul risorgente spirito del Carnevale, mentre in realtà ne era il superbo e sontuoso funerale.

A differenza di altri scrittori e saggisti della sua generazione, Camporesi aveva smesso di attendere il ritorno del classico, perché aveva compreso che il Classico comporta quasi sempre un ritorno all’ordine, e lui all’ordine del mondo, come a quello sociale, non credeva; semmai - e qui sta la sua lezione più duratura - era un ordine provvisorio del disordine, quel disordine che dopo il razionalismo della prima età moderna era ritornato trionfante, per quanto funereo persino funesto, dominatore della scena del mondo (Camporesi non si faceva illusioni neppure su equilibrate e lontane età dell’oro).

Nel chiudere quella introduzione al Libro dei vagabondi, egli spiega al lettore che la storia dei “falsi vagabondi”, che è quella che a lui interessa maggiormente, “è storia eminentemente letteraria, quindi fantastica e fortemente irreale e, inoltre, tendenziosa”, mentre, in realtà, il “mestiere di vagabondo fu quasi sempre frutto di un duro bisogno, non di libera scelta”. Congedandosi dai suoi personaggi ci ricorda che se le vicende dei vagabondi e dei pitocchi ci muovono il riso, divenendo divertimento o buffonesca commedia, in realtà dietro a quelle storie si cela un dramma millenario recitato “su copione di fame, di stenti, di sangue, da una moltitudine inimmaginabile d’infelici sbattuti dal destino sul palcoscenico di un atroce teatro della crudeltà”.

La conclusione è davvero singolare: Camporesi chiede scusa al lettore per l’improvviso sentimento di colpa che lo ha colto al termine della sua fatica e rivolgendosi agli “addetti ai lavori” evidenzia il carattere da collezionista con cui ha esaminato i pezzi della sua raccolta, da cui ha tratto “un divertimento che scivola qualche volta nella perversione”. Perché questo improvviso senso di colpa? Perché la denuncia della perversione che ogni ricerca contiene? Per riguardo al vissuto dei personaggi, per gli infelici di cui si occupa e che in un tempo seppur lontano hanno lottato e sofferto.

La radice anticlassica di Camporesi è qui: egli sa che dietro alla sua scrittura ci sono uomini e donne vere, cioè corpi; l’anticlassicismo comporta la consapevolezza (espressa a chiare lettere in La maschera di Bertoldo) che il linguaggio del mondo, il suo alfabeto, è quello del caos, che si riverbera nel linguaggio carnevalesco, del mondo alla rovescia: linguaggio rottura, vaneggiamento linguistico, irrisione della norma comunicativa, che a volte si incontra lungo la strada senza ritorno della follia.

Per quanto barocca fosse la sua mente e il suo linguaggio, egli non è uno scrittore barocco, poiché resta sospeso, come un vero manierista, tra due opposti: la storia “eminentemente letteraria, quindi fantastica, fortemente irreale” che ci racconta, e il dramma millenario recitato su quel copione di fame dalle plebi premoderne.

In Camminare il mondo, opera davvero conclusiva, la sua prosa diventa leggera leggera, il passo del racconto lieve, la sintassi si semplifica di colpo rinunciando alle lunghe elencazioni, alle fitte descrizioni, alle serie sinonimiche a imitazione dei libri antichi da lui letti con avidità e profitto; in questo sembra che la scrittura di Camporesi abbia ceduto il passo a una forma letteraria che si avvicina di più a quell’ideale generazione da cui era partito, dando spazio a una prosa che non si preoccupa più di arrestare il corso del tempo, grande nemico, bloccandolo in un momento imperituro di versi e frasi, oppure, all’opposto, facendolo smarrire nei labirinti della digressione narrativa; qui, come se avesse previsto il suo destino egli lo fa camminare lesto e spedito insieme al racconto, perché sia il tempo medesimo a “condurlo al confine estremo della misteriosa eternità”.

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