Roberto Andreotti
Manganelli. Retorica classica, tavola delle libertà
Manganelli. Retorica classica, tavola delle libertà
“Il favoloso Livio, il mio lavorato Cicerone!...”. Quando uscì Nuovo commento (Einaudi 1969), Manganelli aveva già pubblicato da Feltrinelli Hilarotragoedia e La letteratura come menzogna. Le sue molotov dunque le aveva lanciate prima. Ma ora colpiva il sistema dal suo stesso ventre: nei panni insospettabili di cereo filologo aggirantesi sin dall’adolescenza tra i palchetti di antichi retori e alessandrini e bizantini eruditi (i trattatisti barocchi, poi!).
Nuovo commento – è stato detto – è l’irridente sabotaggio alla letteratura tradizionale contemporanea neorealista psicologista: un esercizio intimidatorio “pedante” (alla maniera dei filologi incalliti, incistati su una parola, su una desinenza), attentato da un “quotidiano perlettore di Cicerone”: è questo il registro, per esempio, dell’“erudito commentatore” esperto di profezie che scrive una lettera pompier armato “di metafore e chiasmi”, cresciuto da “stilista un poco antiquato, attento al bel giro della frase”, sempre adescato da una “pedante concinnitas”.
Già rispondendo ai rimproveri di narcisistica “illeggibilità” mossigli da Alberto Moravia, Manganelli su “Quindici” (nella primavera 1968) aveva sventagliato con sprezzatura sorniona le sue raffiche (“discontinue schegge di retorica”; “una lingua letteraria improbabile, fitta di citazioni, anche maniacale: una lingua morta”), affermando con forza una “letteratura scostante, ignara di buona coscienza, pronta a tutte le terroristiche, frigide audacie della retorica. A scriverla, ci voglion scrittori latinisti, o matematici”. E in un breve testo, compreso nel volume del Gruppo 63 Il romanzo sperimentale (Feltrinelli 1966), che decretava senza mezzi termini la morte della forma-romanzo, teorizzava: “Il romanzo appare nella letteratura europea proprio nel momento in cui decadono il gusto e l’intelligenza della retorica classica: quando, cioè, entra in crisi l’idea dell’opera letteraria come artificio”.
Il sabotaggio appare dunque compiuto nel ’69, quando esce appunto Nuovo Commento. Erano, quelli, anni di militanza letteraria, di polemiche intinte nel veleno, di avanguardie e di fazioni (testate, salotti, terrazze, editors, case editrici: l’industria culturale!), e la macchinazione scandalosa di Manganelli se ne stava acquattata dietro forme linguistiche indigeribili classiche e barocche. Promossa alla dignità di un Tractatus della famiglia del Sublime longinesco, ecco una parata strabiliante di cancelleria filologica: didadscalie, “cfr.”, cola, semicola, virgole, punti-e-virgole, un’ermeneutica innamorata della nomenclatura e del Tipografico.
In questo senso l’anglista Manganelli è stato un latinista militante, ma senza uniforme: sotto le insegne dell’avanguardia – l’arcipelago del Gruppo 63 –, sì, però sempre mantenendo la sua personalissima foggia, come quegli ausiliarii professionisti dell’arco o della cavalleria che si vedono sulla Colonna Traiana, venuti dalle lontane province imperiali a combattere a fianco dei legionari romani.
Proprio nei mesi di Nuovo commento, sfogliando avidamente per conto dell’“Espresso” l’edizione italiana degli Elementi di retorica di Heinrich Lausberg, Manganelli recensiva il più autorevole manuale di retorica antica come una “tavola delle libertà, delle licenze, degli eccessi” (altro che psicologia dell’Autore, e Ispirazione): “Non vi fu forse mai audacia eversiva – lessicale, sintattica, metrica – per quanto maliziosa e decadente e meravigliosa, che non avrebbe trovato il suo garante in un qualche retore complice, magari un Mario Vittorino”. Il “Nuovo Commentatore”, strizzando l’occhio ai decadenti ermeneuti antichi, auspicava forse anche per il proprio libro le flemmatiche lenti di postumi grammatici? (umilmente ancillari, però: che i marginalia, via via sempre più estesi, non finissero per risucchiare il testo intero.)
“Alias” supplemento del “manifesto”, 8 agosto 1998
Nuovo commento – è stato detto – è l’irridente sabotaggio alla letteratura tradizionale contemporanea neorealista psicologista: un esercizio intimidatorio “pedante” (alla maniera dei filologi incalliti, incistati su una parola, su una desinenza), attentato da un “quotidiano perlettore di Cicerone”: è questo il registro, per esempio, dell’“erudito commentatore” esperto di profezie che scrive una lettera pompier armato “di metafore e chiasmi”, cresciuto da “stilista un poco antiquato, attento al bel giro della frase”, sempre adescato da una “pedante concinnitas”.
Già rispondendo ai rimproveri di narcisistica “illeggibilità” mossigli da Alberto Moravia, Manganelli su “Quindici” (nella primavera 1968) aveva sventagliato con sprezzatura sorniona le sue raffiche (“discontinue schegge di retorica”; “una lingua letteraria improbabile, fitta di citazioni, anche maniacale: una lingua morta”), affermando con forza una “letteratura scostante, ignara di buona coscienza, pronta a tutte le terroristiche, frigide audacie della retorica. A scriverla, ci voglion scrittori latinisti, o matematici”. E in un breve testo, compreso nel volume del Gruppo 63 Il romanzo sperimentale (Feltrinelli 1966), che decretava senza mezzi termini la morte della forma-romanzo, teorizzava: “Il romanzo appare nella letteratura europea proprio nel momento in cui decadono il gusto e l’intelligenza della retorica classica: quando, cioè, entra in crisi l’idea dell’opera letteraria come artificio”.
Il sabotaggio appare dunque compiuto nel ’69, quando esce appunto Nuovo Commento. Erano, quelli, anni di militanza letteraria, di polemiche intinte nel veleno, di avanguardie e di fazioni (testate, salotti, terrazze, editors, case editrici: l’industria culturale!), e la macchinazione scandalosa di Manganelli se ne stava acquattata dietro forme linguistiche indigeribili classiche e barocche. Promossa alla dignità di un Tractatus della famiglia del Sublime longinesco, ecco una parata strabiliante di cancelleria filologica: didadscalie, “cfr.”, cola, semicola, virgole, punti-e-virgole, un’ermeneutica innamorata della nomenclatura e del Tipografico.
In questo senso l’anglista Manganelli è stato un latinista militante, ma senza uniforme: sotto le insegne dell’avanguardia – l’arcipelago del Gruppo 63 –, sì, però sempre mantenendo la sua personalissima foggia, come quegli ausiliarii professionisti dell’arco o della cavalleria che si vedono sulla Colonna Traiana, venuti dalle lontane province imperiali a combattere a fianco dei legionari romani.
Proprio nei mesi di Nuovo commento, sfogliando avidamente per conto dell’“Espresso” l’edizione italiana degli Elementi di retorica di Heinrich Lausberg, Manganelli recensiva il più autorevole manuale di retorica antica come una “tavola delle libertà, delle licenze, degli eccessi” (altro che psicologia dell’Autore, e Ispirazione): “Non vi fu forse mai audacia eversiva – lessicale, sintattica, metrica – per quanto maliziosa e decadente e meravigliosa, che non avrebbe trovato il suo garante in un qualche retore complice, magari un Mario Vittorino”. Il “Nuovo Commentatore”, strizzando l’occhio ai decadenti ermeneuti antichi, auspicava forse anche per il proprio libro le flemmatiche lenti di postumi grammatici? (umilmente ancillari, però: che i marginalia, via via sempre più estesi, non finissero per risucchiare il testo intero.)
“Alias” supplemento del “manifesto”, 8 agosto 1998