Pietro Citati
Manganelli: una palude abitata da Dio
Manganelli: una palude abitata da Dio
Giorgio Manganelli è morto sei anni fa; e nella nostra cultura si avverte un’assenza o una specie di vuoto, come se fosse scomparso chi più di tutti amava la letteratura con un disperato amore, e ne rappresentava “l’ombra e lo stemma”. Tra gli scrittori della sua generazione, non c’era nessuno che, come lui, la coltivasse nella sua infinita complessità. Per lui, era tutto: splendore linguistico, energia di stile, gioia, disperazione, malattia, nevrosi, abisso, superficie, tensione intellettuale, metafisica, gioco. Attento come nessuno ai valori formali, era liberissimo da ogni esclusiva attenzione alle forme: perché la letteratura era un’avventura vertiginosa, che finiva sulle rive dell’infinito. Con quale venerazione ne parlava: con quale timore; e con che disprezzo. Il suo talento di critico era straordinario: nemmeno Pasolini e Calvino possedevano il suo dono di assalire un libro da tutte le parti, e poi di scendere fino al suo cuore, e di colpirci al cuore.
Manganelli non ci ha abbandonato completamente. La sua opera inedita è foltissima: ogni anno l’editore Adelphi pubblica uno o più libri nuovi, come se quell’immensa energia non finisse di esercitarsi: racconti, romanzi, libri di viaggio, saggi, divagazioni. Questa volta vorrei soffermarmi su tre testi di narrativa: La notte, che è appena uscito a cura di Salvatore Nigro e comprende racconti degli anni settanta e ottanta; Il Presepio, a cura di Giorgio Pinotti; e La palude definitiva, a cura di Ebe Flamini, l’ultimo dei suoi libri, forse il suo capolavoro.
Ho l’impressione che Manganelli sia ancora, per tutti noi, una terra sconosciuta. L’ho conosciuto benissimo: l’ho molto amato; ma mi è parso di non sapere nulla di lui, quando ho letto le lettere meravigliose scritte per la morte del fratello. Quale profondissima esperienza cristiana: che dolcezza e tenerezza; che fonte sovrabbondante d’amore, dove il dolore e il senso della morte si sciolgono; e che parole indimenticabili dedicate a Dio, “solenne e sollecito, inaccessibile e onnipresente, risanatore e confermatore del dolore”. Ricordiamo le Confessioni di Agostino; e una scrittrice moderna, che egli conobbe bene, Cristina Campo, come lui “mistica del tappeto”. Ma di questa acutissima coscienza non trapela nulla nell’opera letteraria di Manganelli: come se la parte più intima e forse cruciale della sua vita egli la volesse mantenere segreta, tra le pareti del suo cuore, al di fuori della letteratura.
La letteratura era, per Manganelli, una scienza e un’arte dei confini. Essa non viveva mai nel suo centro, ma sui bordi, sui limiti; e oltre i confini, in un luogo terribilmente oscuro e luminoso, verso il quale si protendeva piena d’ansia e di desiderio, abitava Dio, la parola mai nominata, che costituiva il suo argomento essenziale. Dio era, dunque, un luogo: la teologia di Manganelli era una geometria, una geografia, una cosmologia. Dove era questo luogo? Uno spirito sottile come Manganelli non poteva che rispondere: dappertutto e da nessuna parte; eppure un istinto egualmente profondo lo portava a disporre quel Dio – la fonte sovrabbondante d’amore, che abbiamo incontrato nelle lettere sul fratello – negli abissi del mondo. Non sappiamo quando e per quale ragione, il sacro era caduto: si era degradato: aveva attraversato il vituperio e l’infamia; era penetrato laggiù, nelle viscere del mondo, dove abitano i demòni e i démoni. Per questo, Manganelli non poteva innalzare al sacro quei sontuosi, luminosi edifici intellettuali, che hanno costruito nei secoli gli allievi di Platone. Se il sacro era laggiù, negli abissi, negli inferi, la teologia non poteva essere che una farsa, una parodia, un’invenzione da “guitti”, uno spettacolo teatrale. Non per questo era meno sacra.
Col passare degli anni, nei libri di Manganelli gli dèi si moltiplicarono: Dio si mascherava e si nascondeva dietro di loro, o essi erano i suoi avversari. Erano ovunque, come una vegetazione animale molteplice e onnipresente. Persero ogni allegria, ogni ilarità, che derivava loro dalla lieve natura luminosa dei dèmoni greci: diventarono torvi, litigiosi, dispettosi, talvolta simili a furie scatenate. Sfioriamo e spesso varchiamo le soglie dell’ossessione, come se Manganelli non potesse controllare la tribù di dèi che si era impadronita della sua mente. Non sappiamo se esistessero, o fossero soltanto i figli dell’immaginazione di quei folli bibliotecari, di quei teologi empi e condannati, che attraversano questi libri. Qualsiasi cosa pensiamo di loro, Dio e gli dèi non compongono mai un Essere stabile, sempre eguale a sé stesso. Dio è il luogo del movimento, del flusso, della trasformazione, dell’incessante metamorfosi, per quanto Manganelli cerchi di fissarlo e di arrestarlo nella sua prosa grave e lapidaria.
A questa metamorfosi divina, è dedicata La palude definitiva. In quel luogo, dove è “difficile entrare e impossibile uscire”, tutto si sposta. I sentieri mutano di giorno in giorno, isole appaiono e scompaiono, farfalle di putredine si avanzano e fuggono via, grumi di insetti e di vermi si arrampicano e si decompongono: ora tutto è un deserto fangoso, ora una distesa di arbusti e ciuffi d’erba, ora un mare senza onde, ora un fiume fermato da una diga invisibile. “Sebbene non vi siano suoni concertati, per tutta la palude corre un sommesso crepitio, un viscido scorrere di membrane, un fruscio di rettili, un sommesso cicalio di bozzoli che si schiudono, il tremolio di ali invisibili... Una repellente e minuta grandiosità, dove tutto striscia, sibila, strazia, muore, copula, nasce, defeca...”. Manganelli non era uno scrittore di sensazioni: ma ha dedicato sensazioni di straordinario spessore e intensità fisici a questo luogo metafisico. Aveva in mente le prime righe della Genesi: “la terra era deserta e vuota, e le tenebre erano sulla superficie dell’abisso”; e in quel vuoto, in quell’abisso, in quel tohuwabohu, collocò la distesa “incomprensibile, indesignabile, intoccabile” di Dio.
Ancora oggi, forse soprattutto oggi, nell’ingenerosa ribellione degli schiavi, che avviene qualche anno dopo la morte dl ogni grande artista, Manganelli viene accusato di essere uno scrittore “artificioso”. Mentre era abitato, dominato, posseduto dall’ispirazione: la quale dilagava e lo travolgeva, facendo di lui una vittima della scrittura. Quest’ispirazione aveva un carattere informe e nebuloso, come il tohuwabohu della Genesi, dove tutte le cose e l’abisso sono confuse e mescolate in insieme. Essa si presentava con due aspetti apparenti. In primo luogo, un’angoscia intensissima: una atroce desolazione, che ci colpisce e ci ferisce al cuore. Poi, un senso ancora più profondo di ciò che è notte. Il suo mondo non era fatto di una luce e di una tenebra, che si scambiavano e alternavano le parti e le funzioni; e la notte non era nemmeno qualcosa che saliva in cielo, avvolgeva la terra, e poi tramontava. Il suo mondo era compenetrato, consustanziato soltanto di notte: come un albero è fatto di legno e una montagna di pietra.
La sua esperienza fu la stessa esperienza di Poe, – che egli si scelse come maestro, e al quale dedicò alcuni saggi bellissimi. Come Poe, egli trasportò le figure dell’inconscio nella parte intellettuale della mente: così che i brividi, le folgorazioni, i trasalimenti, le metamorfosi, le voci, i sussurri della tenebra vennero traslocati nell’intelligenza. Tra i molti inferni dell’arte moderna, quelli di Manganelli sorprendono per la loro qualità esclusivamente mentale: l’esperienza dell’orrore è chiusa tra le strette e ossessionanti pareti del cranio. Aveva un’immaginazione intellettuale tragica, quasi perversa per sottigliezza: spesso i suoi esercizi filosofici ci ricordano quelli di un pensatore gnostico o di un paradossale logico e tardo Medioevo. Era una singolare mescolanza di Beckett e di Guglielmo di Ockham. Così egli affidava i suoi temi all’arte della variazione. Proponeva una sensazione o un’idea: poi la trasformava, la deformava, la rinviava, talvolta in modo eccessivo: interrogava, supponeva e deduceva, avanzava una nuova ipotesi o una nuova interrogazione; e intanto attendeva, lì, in un angolo, abbandonato da sé stesso, il disastro definitivo, l’Apocalisse del suo libro e della sua vita.
“la Repubblica”, 19 novembre 1996
Manganelli non ci ha abbandonato completamente. La sua opera inedita è foltissima: ogni anno l’editore Adelphi pubblica uno o più libri nuovi, come se quell’immensa energia non finisse di esercitarsi: racconti, romanzi, libri di viaggio, saggi, divagazioni. Questa volta vorrei soffermarmi su tre testi di narrativa: La notte, che è appena uscito a cura di Salvatore Nigro e comprende racconti degli anni settanta e ottanta; Il Presepio, a cura di Giorgio Pinotti; e La palude definitiva, a cura di Ebe Flamini, l’ultimo dei suoi libri, forse il suo capolavoro.
Ho l’impressione che Manganelli sia ancora, per tutti noi, una terra sconosciuta. L’ho conosciuto benissimo: l’ho molto amato; ma mi è parso di non sapere nulla di lui, quando ho letto le lettere meravigliose scritte per la morte del fratello. Quale profondissima esperienza cristiana: che dolcezza e tenerezza; che fonte sovrabbondante d’amore, dove il dolore e il senso della morte si sciolgono; e che parole indimenticabili dedicate a Dio, “solenne e sollecito, inaccessibile e onnipresente, risanatore e confermatore del dolore”. Ricordiamo le Confessioni di Agostino; e una scrittrice moderna, che egli conobbe bene, Cristina Campo, come lui “mistica del tappeto”. Ma di questa acutissima coscienza non trapela nulla nell’opera letteraria di Manganelli: come se la parte più intima e forse cruciale della sua vita egli la volesse mantenere segreta, tra le pareti del suo cuore, al di fuori della letteratura.
La letteratura era, per Manganelli, una scienza e un’arte dei confini. Essa non viveva mai nel suo centro, ma sui bordi, sui limiti; e oltre i confini, in un luogo terribilmente oscuro e luminoso, verso il quale si protendeva piena d’ansia e di desiderio, abitava Dio, la parola mai nominata, che costituiva il suo argomento essenziale. Dio era, dunque, un luogo: la teologia di Manganelli era una geometria, una geografia, una cosmologia. Dove era questo luogo? Uno spirito sottile come Manganelli non poteva che rispondere: dappertutto e da nessuna parte; eppure un istinto egualmente profondo lo portava a disporre quel Dio – la fonte sovrabbondante d’amore, che abbiamo incontrato nelle lettere sul fratello – negli abissi del mondo. Non sappiamo quando e per quale ragione, il sacro era caduto: si era degradato: aveva attraversato il vituperio e l’infamia; era penetrato laggiù, nelle viscere del mondo, dove abitano i demòni e i démoni. Per questo, Manganelli non poteva innalzare al sacro quei sontuosi, luminosi edifici intellettuali, che hanno costruito nei secoli gli allievi di Platone. Se il sacro era laggiù, negli abissi, negli inferi, la teologia non poteva essere che una farsa, una parodia, un’invenzione da “guitti”, uno spettacolo teatrale. Non per questo era meno sacra.
Col passare degli anni, nei libri di Manganelli gli dèi si moltiplicarono: Dio si mascherava e si nascondeva dietro di loro, o essi erano i suoi avversari. Erano ovunque, come una vegetazione animale molteplice e onnipresente. Persero ogni allegria, ogni ilarità, che derivava loro dalla lieve natura luminosa dei dèmoni greci: diventarono torvi, litigiosi, dispettosi, talvolta simili a furie scatenate. Sfioriamo e spesso varchiamo le soglie dell’ossessione, come se Manganelli non potesse controllare la tribù di dèi che si era impadronita della sua mente. Non sappiamo se esistessero, o fossero soltanto i figli dell’immaginazione di quei folli bibliotecari, di quei teologi empi e condannati, che attraversano questi libri. Qualsiasi cosa pensiamo di loro, Dio e gli dèi non compongono mai un Essere stabile, sempre eguale a sé stesso. Dio è il luogo del movimento, del flusso, della trasformazione, dell’incessante metamorfosi, per quanto Manganelli cerchi di fissarlo e di arrestarlo nella sua prosa grave e lapidaria.
A questa metamorfosi divina, è dedicata La palude definitiva. In quel luogo, dove è “difficile entrare e impossibile uscire”, tutto si sposta. I sentieri mutano di giorno in giorno, isole appaiono e scompaiono, farfalle di putredine si avanzano e fuggono via, grumi di insetti e di vermi si arrampicano e si decompongono: ora tutto è un deserto fangoso, ora una distesa di arbusti e ciuffi d’erba, ora un mare senza onde, ora un fiume fermato da una diga invisibile. “Sebbene non vi siano suoni concertati, per tutta la palude corre un sommesso crepitio, un viscido scorrere di membrane, un fruscio di rettili, un sommesso cicalio di bozzoli che si schiudono, il tremolio di ali invisibili... Una repellente e minuta grandiosità, dove tutto striscia, sibila, strazia, muore, copula, nasce, defeca...”. Manganelli non era uno scrittore di sensazioni: ma ha dedicato sensazioni di straordinario spessore e intensità fisici a questo luogo metafisico. Aveva in mente le prime righe della Genesi: “la terra era deserta e vuota, e le tenebre erano sulla superficie dell’abisso”; e in quel vuoto, in quell’abisso, in quel tohuwabohu, collocò la distesa “incomprensibile, indesignabile, intoccabile” di Dio.
Ancora oggi, forse soprattutto oggi, nell’ingenerosa ribellione degli schiavi, che avviene qualche anno dopo la morte dl ogni grande artista, Manganelli viene accusato di essere uno scrittore “artificioso”. Mentre era abitato, dominato, posseduto dall’ispirazione: la quale dilagava e lo travolgeva, facendo di lui una vittima della scrittura. Quest’ispirazione aveva un carattere informe e nebuloso, come il tohuwabohu della Genesi, dove tutte le cose e l’abisso sono confuse e mescolate in insieme. Essa si presentava con due aspetti apparenti. In primo luogo, un’angoscia intensissima: una atroce desolazione, che ci colpisce e ci ferisce al cuore. Poi, un senso ancora più profondo di ciò che è notte. Il suo mondo non era fatto di una luce e di una tenebra, che si scambiavano e alternavano le parti e le funzioni; e la notte non era nemmeno qualcosa che saliva in cielo, avvolgeva la terra, e poi tramontava. Il suo mondo era compenetrato, consustanziato soltanto di notte: come un albero è fatto di legno e una montagna di pietra.
La sua esperienza fu la stessa esperienza di Poe, – che egli si scelse come maestro, e al quale dedicò alcuni saggi bellissimi. Come Poe, egli trasportò le figure dell’inconscio nella parte intellettuale della mente: così che i brividi, le folgorazioni, i trasalimenti, le metamorfosi, le voci, i sussurri della tenebra vennero traslocati nell’intelligenza. Tra i molti inferni dell’arte moderna, quelli di Manganelli sorprendono per la loro qualità esclusivamente mentale: l’esperienza dell’orrore è chiusa tra le strette e ossessionanti pareti del cranio. Aveva un’immaginazione intellettuale tragica, quasi perversa per sottigliezza: spesso i suoi esercizi filosofici ci ricordano quelli di un pensatore gnostico o di un paradossale logico e tardo Medioevo. Era una singolare mescolanza di Beckett e di Guglielmo di Ockham. Così egli affidava i suoi temi all’arte della variazione. Proponeva una sensazione o un’idea: poi la trasformava, la deformava, la rinviava, talvolta in modo eccessivo: interrogava, supponeva e deduceva, avanzava una nuova ipotesi o una nuova interrogazione; e intanto attendeva, lì, in un angolo, abbandonato da sé stesso, il disastro definitivo, l’Apocalisse del suo libro e della sua vita.
“la Repubblica”, 19 novembre 1996