Riga n.
Alberto Arbasino
Pietro Citati
Manganelli: una palude abitata da Dio

Giorgio Manganelli è morto sei anni fa; e nel­la nostra cultura si av­verte un’assenza o una specie di vuoto, come se fosse scomparso chi più di tutti amava la letteratura con un disperato amore, e ne rappre­sentava “l’ombra e lo stem­ma”. Tra gli scrittori della sua generazione, non c’era nessu­no che, come lui, la coltivasse nella sua infinita complessità. Per lui, era tutto: splendore linguistico, energia di stile, gioia, disperazione, malattia, nevrosi, abisso, superficie, tensione intellettuale, metafi­sica, gioco. Attento come nes­suno ai valori formali, era li­berissimo da ogni esclusiva attenzione alle forme: perché la letteratura era un’avventu­ra vertiginosa, che finiva sul­le rive dell’infinito. Con quale venerazione ne parlava: con quale timore; e con che di­sprezzo. Il suo talento di criti­co era straordinario: nemme­no Pasolini e Calvino posse­devano il suo dono di assalire un libro da tutte le parti, e poi di scendere fino al suo cuore, e di colpirci al cuore.

Manganelli non ci ha ab­bandonato completamente. La sua opera inedita è foltissi­ma: ogni anno l’editore Adelphi pubblica uno o più libri nuovi, come se quell’immensa energia non finisse di esercitarsi: racconti, romanzi, libri di viaggio, saggi, divagazioni. Questa volta vorrei soffermarmi su tre testi di narrativa: La notte, che è appena uscito a cura di Salvatore Nigro e comprende racconti degli anni settanta e ottanta; Il Presepio, a cura di Giorgio Pi­notti; e La palude definitiva, a cura di Ebe Flamini, l’ultimo dei suoi libri, forse il suo capolavoro.

Ho l’impressione che Man­ganelli sia ancora, per tutti noi, una terra sconosciuta. L’ho conosciuto benissimo: l’ho molto amato; ma mi è parso di non sapere nulla di lui, quando ho letto le lettere meravigliose scritte per la morte del fratello. Quale profondissi­ma esperienza cristiana: che dolcezza e tenerezza; che fonte sovrabbondante d’amore, dove il dolore e il senso della morte si sciolgono; e che parole in­dimenticabili dedicate a Dio, “solenne e sollecito, inacces­sibile e onnipresente, risana­tore e confermatore del dolo­re”. Ricordiamo le Confessio­ni di Agostino; e una scrittrice moderna, che egli conobbe bene, Cristina Campo, come lui “mistica del tappeto”. Ma di questa acutissima coscien­za non trapela nulla nell’opera letteraria di Man­ganelli: come se la parte più intima e forse cruciale della sua vita egli la volesse mante­nere segreta, tra le pareti del suo cuore, al di fuori della let­teratura.

La letteratura era, per Man­ganelli, una scienza e un’arte dei confini. Essa non viveva mai nel suo centro, ma sui bordi, sui limiti; e oltre i con­fini, in un luogo terribilmente oscuro e luminoso, verso il quale si protendeva piena d’ansia e di desiderio, abitava Dio, la parola mai nominata, che costituiva il suo argomen­to essenziale. Dio era, dun­que, un luogo: la teologia di Manganelli era una geome­tria, una geografia, una co­smologia. Dove era questo luogo? Uno spirito sottile co­me Manganelli non poteva che rispondere: dappertutto e da nessuna parte; eppure un istinto egualmente profondo lo portava a disporre quel Dio – la fonte sovrabbondante d’a­more, che abbiamo incontrato nelle lettere sul fratello – ne­gli abissi del mondo. Non sap­piamo quando e per quale ra­gione, il sacro era caduto: si era degradato: aveva attra­versato il vituperio e l’infa­mia; era penetrato laggiù, nel­le viscere del mondo, dove abitano i demòni e i démoni. Per questo, Manganelli non poteva innalzare al sacro quei sontuosi, luminosi edifici in­tellettuali, che hanno costrui­to nei secoli gli allievi di Pla­tone. Se il sacro era laggiù, ne­gli abissi, negli inferi, la teologia non poteva essere che ­una farsa, una parodia, un’invenzione da “guitti”, uno spettacolo teatrale. Non per questo era meno sacra.

Col passare degli anni, nei libri di Manganelli gli dèi si moltiplicarono: Dio si ma­scherava e si nascondeva die­tro di loro, o essi erano i suoi avversari. Erano ovunque, come una vegetazione animale molteplice e onnipresente. Persero ogni allegria, ogni ila­rità, che derivava loro dalla lieve natura luminosa dei dè­moni greci: diventarono torvi, litigiosi, dispettosi­, talvolta simili a furie scatenate. Sfioriamo e spesso varchia­mo le soglie dell’ossessione, come se Manganelli non potesse controllare la tribù di dèi che si era impadronita della sua mente. Non sappiamo se esistessero, o fossero soltanto i figli dell’immaginazione di quei folli bibliotecari, di quei teologi empi e condannati, che attraversano questi libri. Qualsiasi cosa pensiamo di loro, Dio e gli dèi non compon­gono mai un Essere stabile, sempre eguale a sé stesso. Dio è il luogo del movimento, del flusso, della trasformazione, dell’incessante metamorfosi, per quanto Manganelli cerchi di fissarlo e di arrestarlo nella sua prosa grave e lapidaria.

A questa metamorfosi divina, è dedicata La palu­de definitiva. In quel luogo, dove è “difficile entrare e impossibile uscire”, tutto si sposta. I sentieri mutano di giorno in giorno, isole appaiono e scompaiono, farfalle di putredine si avan­zano e fuggono via, grumi di in­setti e di vermi si arrampicano e si decompongono: ora tutto è un de­serto fangoso, ora una distesa di ar­busti e ciuffi d’er­ba, ora un mare senza onde, ora un fiume fermato da una diga invisi­bile. “Sebbene non vi siano suoni concertati, per tutta la palude corre un sommes­so crepitio, un vi­scido scorrere di membrane, un fruscio di rettili, un sommes­so cicalio di bozzoli che si schiudono, il tremolio di ali invisibili... Una repellente e minuta grandiosità, dove tut­to striscia, sibila, strazia, muore, copula, nasce, defe­ca...”. Manganelli non era uno scrittore di sensazioni: ma ha dedicato sensazioni di straordinario spessore e in­tensità fisici a questo luogo metafisico. Aveva in mente le prime righe della Genesi: “la terra era deserta e vuota, e le tenebre erano sulla superficie dell’abisso”; e in quel vuoto, in quell’abisso, in quel tohuwabohu, collocò la diste­sa “incomprensibile, indesi­gnabile, intoccabile” di Dio.

Ancora oggi, forse soprat­tutto oggi, nell’ingenerosa ri­bellione degli schiavi, che av­viene qualche anno dopo la morte dl ogni grande artista, Manganelli viene accusato di essere uno scrittore “artificio­so”. Mentre era abitato, domi­nato, posseduto dall’ispira­zione: la quale dilagava e lo travolgeva, facendo di lui una vittima della scrittura. Quest’ispirazione aveva un carat­tere informe e nebuloso, co­me il tohuwabohu della Gene­si, dove tutte le cose e l’abisso sono confuse e mescolate in­ insieme. Essa si presentava con due aspetti apparenti. In pri­mo luogo, un’angoscia inten­sissima: una atroce desolazione, che ci colpisce e ci feri­sce al cuore. Poi, un senso an­cora più profondo di ciò che è notte. Il suo mondo non era fatto di una luce e di una tenebra, che si scam­biavano e alterna­vano le parti e le funzioni; e la notte non era nemmeno qualcosa che sali­va in cielo, avvol­geva la terra, e poi tramontava. Il suo mondo era com­penetrato, consu­stanziato soltanto di notte: come un albero è fatto di le­gno e una monta­gna di pietra.

La sua esperien­za fu la stessa esperienza di Poe, – che egli si scelse come maestro, e al quale dedicò alcu­ni saggi bellissimi. Come Poe, egli trasportò le figure dell’inconscio nel­la parte intellet­tuale della mente: così che i brividi, le folgorazioni, i trasalimenti, le metamorfosi, le voci, i sussurri del­la tenebra venne­ro traslocati nell’intelligenza. Tra i molti inferni dell’arte moderna, quelli di Man­ganelli sorprendono per la lo­ro qualità esclusivamente mentale: l’esperienza dell’or­rore è chiusa tra le strette e os­sessionanti pareti del cranio. Aveva un’immaginazione in­tellettuale tragica, quasi perversa per sottigliezza: spesso i suoi esercizi filosofici ci ricor­dano quelli di un pensatore gnostico o di un paradossale logico e tardo Medioevo. Era una singolare mescolan­za di Beckett e di Guglielmo di Ockham. Così egli affidava i suoi temi all’arte della varia­zione. Proponeva una sensa­zione o un’idea: poi la trasfor­mava, la deformava, la rinvia­va, talvolta in modo eccessi­vo: interrogava, supponeva e deduceva, avanzava una nuo­va ipotesi o una nuova inter­rogazione; e intanto attende­va, lì, in un angolo, abbando­nato da sé stesso, il disastro definitivo, l’Apocalisse del suo libro e della sua vita.
 
 
“la Repubblica”, 19 novembre 1996
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