Riga n.
Alberto Arbasino
Geno Pampaloni
Furori natalizi

C’è da chiedersi per­ché, come ci infor­ma Giorgio Pinotti nella Nota al testo, Giorgio Manganelli si sia te­nuto queste pagine nel cas­setto per oltre dieci anni sen­za farne parola con nessuno, come un segreto. Cercherò di dare una possibile spiegazio­ne alla fine. Ma intanto ve­niamo al testo.

È agevole distinguere in es­so tre tempi. Il primo, di po­che pagine, molto bello, ci dà una intonazione autobiogra­fica di malinconia mitemen­te disperata, e dichiara il te­ma dell’infelicità: “Quando il Natale si approssima, l’infeli­cità si scatena su tutta la Ter­ra”; “Forse la tristezza che suppongo mia in realtà è un affetto che tocca gli estremi dell’Universo, e oltre, se si dà un oltre”. Segue la riflessio­ne dovuta allo slittare del cinturino dell’orologio, che lo nasconde sotto la manica; “come a dirmi che non era il caso, non era prudente, che io sapessi che ora è questa che vivo”; “Noi avvertiamo di essere i miseri fantaccini di una guerra di cui tutto igno­riamo, se non che da sempre è perduta”; dato che “la lotta dell’essere contro il nulla” è inutile, come un vascello che affondi; “ma non affondi per tempesta o naufragio, ma per una sua intrinseca vocazione ad affondare”.

Subito dopo Manganelli si inciprignisce contro la “ma­lattia” del Natale, “gigante­sca simulazione” o recitazio­ne, burla o “guittata” teologi­ca, accordo teologico-sceni­co, “Ferragosto d’inverno”, festa che equivale a menzo­gna, accompagnata com’è dal cenone, “abominevole rissa di cibi e bevande”; “in­felicità elusiva, viscida, ser­pentesca e insieme calamito­sa”. Non si salva niente e nes­suno; a cominciare dalla divi­nità, il cui naturale alleato è, secondo Manganelli, la vol­garità.

Da un punto di vista per co­sì dire teorico o filosofico, l’insidia del Natale è di esse­re immobile nel tempo, eter­namente momentaneo e ri­petitivo. Ma l’acredine si ri­versa in figurazioni incise con una eccitazione simile al delirio. A cominciare dal pre­sepio, “luogo equivoco e labi­rintico”, illuminato da “luci di bordello”, festa “saturnale che si mescola a una pia ceri­monia ostinatamente vergi­nale”, inventato in realtà da geniali artigiani napoletani. La mangiatoia è un trucco che “allude a una umiltà che mi fa orrore”. Si salvano il bue e l’asino, gli unici esseri viventi, gli unici a non essere risaliti dagli inferi, e di fatto estranei al Natale divino. E si salva Erode, che ordina la strage degli innocenti per “impedire questa indegna e vessatoria e stupenda pupaz­zata che fa del divino una far­sa pittoresca”; o, più sottil­mente, per “lasciare intatta la provvista di desolazione di cui è fatta la nostra vita”.

Ma gli altri! Gesù è un bambinosauro (cioè un dino­sauro bambino) o un pupaz­zo, il suo “nascere perenne e inconcludibile” è chiuso “in una eternità di borotalco”, ha una grazia “da negozio di periferia”. La Vergine, dal volto “gessoso e consueto”, con il suo “dolore meticolo­so”, con le “frasi da inaugu­razione” che pronuncia, è in realtà “il deposito dei morti”, “preside del nulla”, e il suo grembo è simile all’inferno; la si prega infatti di assisterci nell’ora della nostra morte. Giuseppe è farsesco, perché non capisce qual è il suo ruo­lo, ne è sconcertato, è un Pa­dre che non ha niente a che fare con la paternità, è un vecchio dai “genitali risec­chi”; “un uomo monotono, gettato nel cuore dell’avven­tura”, “un turista finito nel cuore della rivoluzione”. Gli angeli sono o “gregari orna­mentali”, oppure “pipistrelli inferi opportunamente adat­tati alle esigenze del copio­ne”, oppure ancora “sacri go­rilla” incaricati di mantenere l’ordine; sta di fatto che usa­no l’anima “come un vestito, una uniforme”.

Anche dalle citazioni sino­ra fatte si sarà capito che al delirio dissacratorio corri­sponde un inesausto furor linguistico. Ogni pagina è in­tarsiata di squisite variazio­ni. Spigolando qua e là incon­triamo “malsania” (cattiva salute), “neumi” (segni del canto gregoriano), “mirmil­loni” (soldati romani che sull’elmo avevano il disegno di un pesce), “tornagusto” (ci­bo appetitoso), “scotomi” (difetto della vista), “endissi­ma” (fine totale, definitiva); sino al delizioso “lussuriare di magro” cioè riempirsi di pesce nei famosi cenoni nata­lizi. C’è poi una serie di voca­boli preziosi: strumenti mu­sicali come la celesta e la ghi­ronda, e animali mitici, il ca­toblepa, il basilisco, il leuco­crota, l’unicorno, la fenice, la manticora, e infine il versipelle che ha, come vedremo, speciale importanza.

Nel terzo tempo Manganel­li lascia in ombra il presepio e si accanisce attorno a un te­ma a lui caro, il “disessere”, l’inesistente, il nulla, la mor­te. Gliene danno spunto i set­te giorni finali dell’anno, quelli che seguono al Natale; quando l’anno vecchio si fa “giustiziere di sé”. Non man­cano bizzarrie; è sempre not­te fonda, si che si può parlare persino di mezzodì notturno, e poiché i lampioni sono spenti, “si dà luce dando fuo­co ad anziani signori cospar­si di pece”. Ma francamente questa parte finale è debole e artificiosa. Meno un punto decisivo, che fa centro sul versipelle, il quale “è una roccia, un rudere, un’archi­trave crollata, [...] è la sete, è la lussuria, è l’odio, è l’orrore di sé [...]; continuamente si ucci­de ma dalla propria morte nasce solo un altro transito ad altra forma”.
Qui, ed eccoci all’ipotesi accennata all’inizio, a me sembra presente un Manga­nelli disperatamente teso a definire l’autobiografia. Se mettiamo insieme il versipel­le con la simpatia per il “dila­zionare” e con l’uso insistito di “ripetitivo”, è lecito sup­porre che questo libro sia un esorcismo furente contro la propria natura, contro la so­litudine delle proprie manie, contro l’assedio del nulla.
 
 
In “Il Giornale”, 10 gennaio 1993
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