Geno Pampaloni
Furori natalizi
Furori natalizi
C’è da chiedersi perché, come ci informa Giorgio Pinotti nella Nota al testo, Giorgio Manganelli si sia tenuto queste pagine nel cassetto per oltre dieci anni senza farne parola con nessuno, come un segreto. Cercherò di dare una possibile spiegazione alla fine. Ma intanto veniamo al testo.
È agevole distinguere in esso tre tempi. Il primo, di poche pagine, molto bello, ci dà una intonazione autobiografica di malinconia mitemente disperata, e dichiara il tema dell’infelicità: “Quando il Natale si approssima, l’infelicità si scatena su tutta la Terra”; “Forse la tristezza che suppongo mia in realtà è un affetto che tocca gli estremi dell’Universo, e oltre, se si dà un oltre”. Segue la riflessione dovuta allo slittare del cinturino dell’orologio, che lo nasconde sotto la manica; “come a dirmi che non era il caso, non era prudente, che io sapessi che ora è questa che vivo”; “Noi avvertiamo di essere i miseri fantaccini di una guerra di cui tutto ignoriamo, se non che da sempre è perduta”; dato che “la lotta dell’essere contro il nulla” è inutile, come un vascello che affondi; “ma non affondi per tempesta o naufragio, ma per una sua intrinseca vocazione ad affondare”.
Subito dopo Manganelli si inciprignisce contro la “malattia” del Natale, “gigantesca simulazione” o recitazione, burla o “guittata” teologica, accordo teologico-scenico, “Ferragosto d’inverno”, festa che equivale a menzogna, accompagnata com’è dal cenone, “abominevole rissa di cibi e bevande”; “infelicità elusiva, viscida, serpentesca e insieme calamitosa”. Non si salva niente e nessuno; a cominciare dalla divinità, il cui naturale alleato è, secondo Manganelli, la volgarità.
Da un punto di vista per così dire teorico o filosofico, l’insidia del Natale è di essere immobile nel tempo, eternamente momentaneo e ripetitivo. Ma l’acredine si riversa in figurazioni incise con una eccitazione simile al delirio. A cominciare dal presepio, “luogo equivoco e labirintico”, illuminato da “luci di bordello”, festa “saturnale che si mescola a una pia cerimonia ostinatamente verginale”, inventato in realtà da geniali artigiani napoletani. La mangiatoia è un trucco che “allude a una umiltà che mi fa orrore”. Si salvano il bue e l’asino, gli unici esseri viventi, gli unici a non essere risaliti dagli inferi, e di fatto estranei al Natale divino. E si salva Erode, che ordina la strage degli innocenti per “impedire questa indegna e vessatoria e stupenda pupazzata che fa del divino una farsa pittoresca”; o, più sottilmente, per “lasciare intatta la provvista di desolazione di cui è fatta la nostra vita”.
Ma gli altri! Gesù è un bambinosauro (cioè un dinosauro bambino) o un pupazzo, il suo “nascere perenne e inconcludibile” è chiuso “in una eternità di borotalco”, ha una grazia “da negozio di periferia”. La Vergine, dal volto “gessoso e consueto”, con il suo “dolore meticoloso”, con le “frasi da inaugurazione” che pronuncia, è in realtà “il deposito dei morti”, “preside del nulla”, e il suo grembo è simile all’inferno; la si prega infatti di assisterci nell’ora della nostra morte. Giuseppe è farsesco, perché non capisce qual è il suo ruolo, ne è sconcertato, è un Padre che non ha niente a che fare con la paternità, è un vecchio dai “genitali risecchi”; “un uomo monotono, gettato nel cuore dell’avventura”, “un turista finito nel cuore della rivoluzione”. Gli angeli sono o “gregari ornamentali”, oppure “pipistrelli inferi opportunamente adattati alle esigenze del copione”, oppure ancora “sacri gorilla” incaricati di mantenere l’ordine; sta di fatto che usano l’anima “come un vestito, una uniforme”.
Anche dalle citazioni sinora fatte si sarà capito che al delirio dissacratorio corrisponde un inesausto furor linguistico. Ogni pagina è intarsiata di squisite variazioni. Spigolando qua e là incontriamo “malsania” (cattiva salute), “neumi” (segni del canto gregoriano), “mirmilloni” (soldati romani che sull’elmo avevano il disegno di un pesce), “tornagusto” (cibo appetitoso), “scotomi” (difetto della vista), “endissima” (fine totale, definitiva); sino al delizioso “lussuriare di magro” cioè riempirsi di pesce nei famosi cenoni natalizi. C’è poi una serie di vocaboli preziosi: strumenti musicali come la celesta e la ghironda, e animali mitici, il catoblepa, il basilisco, il leucocrota, l’unicorno, la fenice, la manticora, e infine il versipelle che ha, come vedremo, speciale importanza.
Nel terzo tempo Manganelli lascia in ombra il presepio e si accanisce attorno a un tema a lui caro, il “disessere”, l’inesistente, il nulla, la morte. Gliene danno spunto i sette giorni finali dell’anno, quelli che seguono al Natale; quando l’anno vecchio si fa “giustiziere di sé”. Non mancano bizzarrie; è sempre notte fonda, si che si può parlare persino di mezzodì notturno, e poiché i lampioni sono spenti, “si dà luce dando fuoco ad anziani signori cosparsi di pece”. Ma francamente questa parte finale è debole e artificiosa. Meno un punto decisivo, che fa centro sul versipelle, il quale “è una roccia, un rudere, un’architrave crollata, [...] è la sete, è la lussuria, è l’odio, è l’orrore di sé [...]; continuamente si uccide ma dalla propria morte nasce solo un altro transito ad altra forma”.
Qui, ed eccoci all’ipotesi accennata all’inizio, a me sembra presente un Manganelli disperatamente teso a definire l’autobiografia. Se mettiamo insieme il versipelle con la simpatia per il “dilazionare” e con l’uso insistito di “ripetitivo”, è lecito supporre che questo libro sia un esorcismo furente contro la propria natura, contro la solitudine delle proprie manie, contro l’assedio del nulla.
In “Il Giornale”, 10 gennaio 1993
È agevole distinguere in esso tre tempi. Il primo, di poche pagine, molto bello, ci dà una intonazione autobiografica di malinconia mitemente disperata, e dichiara il tema dell’infelicità: “Quando il Natale si approssima, l’infelicità si scatena su tutta la Terra”; “Forse la tristezza che suppongo mia in realtà è un affetto che tocca gli estremi dell’Universo, e oltre, se si dà un oltre”. Segue la riflessione dovuta allo slittare del cinturino dell’orologio, che lo nasconde sotto la manica; “come a dirmi che non era il caso, non era prudente, che io sapessi che ora è questa che vivo”; “Noi avvertiamo di essere i miseri fantaccini di una guerra di cui tutto ignoriamo, se non che da sempre è perduta”; dato che “la lotta dell’essere contro il nulla” è inutile, come un vascello che affondi; “ma non affondi per tempesta o naufragio, ma per una sua intrinseca vocazione ad affondare”.
Subito dopo Manganelli si inciprignisce contro la “malattia” del Natale, “gigantesca simulazione” o recitazione, burla o “guittata” teologica, accordo teologico-scenico, “Ferragosto d’inverno”, festa che equivale a menzogna, accompagnata com’è dal cenone, “abominevole rissa di cibi e bevande”; “infelicità elusiva, viscida, serpentesca e insieme calamitosa”. Non si salva niente e nessuno; a cominciare dalla divinità, il cui naturale alleato è, secondo Manganelli, la volgarità.
Da un punto di vista per così dire teorico o filosofico, l’insidia del Natale è di essere immobile nel tempo, eternamente momentaneo e ripetitivo. Ma l’acredine si riversa in figurazioni incise con una eccitazione simile al delirio. A cominciare dal presepio, “luogo equivoco e labirintico”, illuminato da “luci di bordello”, festa “saturnale che si mescola a una pia cerimonia ostinatamente verginale”, inventato in realtà da geniali artigiani napoletani. La mangiatoia è un trucco che “allude a una umiltà che mi fa orrore”. Si salvano il bue e l’asino, gli unici esseri viventi, gli unici a non essere risaliti dagli inferi, e di fatto estranei al Natale divino. E si salva Erode, che ordina la strage degli innocenti per “impedire questa indegna e vessatoria e stupenda pupazzata che fa del divino una farsa pittoresca”; o, più sottilmente, per “lasciare intatta la provvista di desolazione di cui è fatta la nostra vita”.
Ma gli altri! Gesù è un bambinosauro (cioè un dinosauro bambino) o un pupazzo, il suo “nascere perenne e inconcludibile” è chiuso “in una eternità di borotalco”, ha una grazia “da negozio di periferia”. La Vergine, dal volto “gessoso e consueto”, con il suo “dolore meticoloso”, con le “frasi da inaugurazione” che pronuncia, è in realtà “il deposito dei morti”, “preside del nulla”, e il suo grembo è simile all’inferno; la si prega infatti di assisterci nell’ora della nostra morte. Giuseppe è farsesco, perché non capisce qual è il suo ruolo, ne è sconcertato, è un Padre che non ha niente a che fare con la paternità, è un vecchio dai “genitali risecchi”; “un uomo monotono, gettato nel cuore dell’avventura”, “un turista finito nel cuore della rivoluzione”. Gli angeli sono o “gregari ornamentali”, oppure “pipistrelli inferi opportunamente adattati alle esigenze del copione”, oppure ancora “sacri gorilla” incaricati di mantenere l’ordine; sta di fatto che usano l’anima “come un vestito, una uniforme”.
Anche dalle citazioni sinora fatte si sarà capito che al delirio dissacratorio corrisponde un inesausto furor linguistico. Ogni pagina è intarsiata di squisite variazioni. Spigolando qua e là incontriamo “malsania” (cattiva salute), “neumi” (segni del canto gregoriano), “mirmilloni” (soldati romani che sull’elmo avevano il disegno di un pesce), “tornagusto” (cibo appetitoso), “scotomi” (difetto della vista), “endissima” (fine totale, definitiva); sino al delizioso “lussuriare di magro” cioè riempirsi di pesce nei famosi cenoni natalizi. C’è poi una serie di vocaboli preziosi: strumenti musicali come la celesta e la ghironda, e animali mitici, il catoblepa, il basilisco, il leucocrota, l’unicorno, la fenice, la manticora, e infine il versipelle che ha, come vedremo, speciale importanza.
Nel terzo tempo Manganelli lascia in ombra il presepio e si accanisce attorno a un tema a lui caro, il “disessere”, l’inesistente, il nulla, la morte. Gliene danno spunto i sette giorni finali dell’anno, quelli che seguono al Natale; quando l’anno vecchio si fa “giustiziere di sé”. Non mancano bizzarrie; è sempre notte fonda, si che si può parlare persino di mezzodì notturno, e poiché i lampioni sono spenti, “si dà luce dando fuoco ad anziani signori cosparsi di pece”. Ma francamente questa parte finale è debole e artificiosa. Meno un punto decisivo, che fa centro sul versipelle, il quale “è una roccia, un rudere, un’architrave crollata, [...] è la sete, è la lussuria, è l’odio, è l’orrore di sé [...]; continuamente si uccide ma dalla propria morte nasce solo un altro transito ad altra forma”.
Qui, ed eccoci all’ipotesi accennata all’inizio, a me sembra presente un Manganelli disperatamente teso a definire l’autobiografia. Se mettiamo insieme il versipelle con la simpatia per il “dilazionare” e con l’uso insistito di “ripetitivo”, è lecito supporre che questo libro sia un esorcismo furente contro la propria natura, contro la solitudine delle proprie manie, contro l’assedio del nulla.
In “Il Giornale”, 10 gennaio 1993